Con la presentazione della Carta
d’intenti, è iniziata ufficialmente la corsa al Centro del Pd di
Bersani. Una corsa teorizzata e auspicata, nero su bianco, nel manifesto
in dieci punti che il leader democratico ha scritto di suo pugno,
laddove si apre ad «un patto di legislatura con forze liberali, moderate
e di centro, d’ispirazione costituzionale ed europeista, sulla base di
una responsabilità comune di fronte al passaggio storico, unico ed
eccezionale, che l’Italia e l’Europa dovranno affrontare nei prossimi
anni». Perché la prossima sarà una «legislatura costituente», anche in
Europa, e questa è la «ragione che ci spinge a cercare un accordo di
legislatura con le forze del centro moderato» per essere alternativi
«non a Monti», sottolinea Bersani, ma alle destre che in dieci anni
«hanno sfibrato le energie del paese» e alle «regressioni nazionaliste,
populiste e antieuropee».
La strada dunque è segnata.
La strada dunque è segnata.
Bersani, nella splendida cornice del
Tempio di Adriano degna delle grandi occasioni, ripete che non si tratta
di un programma; che questo verrà dopo (e sarà il candidato premier
scelto con le primarie a presentarlo); che i dieci punti sono una base
per aprire il confronto «nella vasta area dei democratici, dei
progressisti, ma anche con i soggetti sociali, del civismo, autorità
morali e intellettuali»; che «per chi ci incontra sarà un’occasione per
interloquire con questo documento» e «poi vedremo con i nostri
interlocutori come fare la sintesi»; perché «noi siamo pronti ad ogni
evenienza, ma teniamo il nostro passo». Quindi massima apertura, si
direbbe, perché alle elezioni non ci si può mostrare «settari, chiusi».
Sì, ma fino ad un certo punto: il segretario Pd mette infatti dei
paletti; paletti non negoziabili.
Bersani non lascia spazio ad equivoci: a chi vorrà condividere con il Pd la volontà di «governare in tempi difficili» si richiedono «disciplina», «impegni espliciti e vincolanti» a «sostenere in modo leale e per l’intero arco della legislatura l’azione del premier scelto con le primarie (che si terranno entro l’anno, ndr) e la «disponibilità a cedere sovranità sulle decisioni controverse» (la cui soluzione sarà demandata ai gruppi parlamentari che decideranno a maggioranza qualificata). Ma, soprattutto, il “patto“ prevede che chi vi aderisce assicuri «il pieno sostegno, fino alla loro eventuale rinegoziazione, degli impegni internazionali già assunti dal nostro paese o che dovranno esserlo in un prossimo futuro». Di più: dovrà «appoggiare l’esecutivo in tutte le misure di ordine economico e istituzionale che nei prossimi anni si renderanno necessarie per difendere la moneta unica e procedere verso un governo politico-economico federale dell’eurozona».
Insomma, la preoccupazione di Bersani sembra quella di dimostrare di voler garantire la continuità delle politiche montiane. E per questo il segretario del Pd rivendica tutte le scelte compiute fin qui: «Come si può pensare che sottovalutiamo il rigore? - esclama - Noi non siamo forse quelli dell’euro, del governo Prodi, Amato, D’Alema, che tennero fede ai patti internazionali difficilissimi? Noi siamo quelli della riduzione del debito, dei conti a posto, di Ciampi e Padoa Schioppa». E già. Non per nulla Marco Follini, senatore Pd, definisce la ricetta di Bersani come «una miscela di montismo e hollandismo».
Una carta d’intenti che sembra fatta su misura per Casini e che taglia fuori inesorabilmente Di Pietro, col quale non è in programma alcun incontro (pronta la replica del leader Idv: «Il Bersani uno e trino, quello che si dice alternativo alla destra e quello che sostiene questo governo insieme alla destra, pensi a guardarsi allo specchio, a ritrovare se stesso, che ai suoi elettori parleremo noi»), mentre non è chiaro come Vendola potrebbe sottoscrivere simili impegni (ma presto si saprà: già oggi è fissato il faccia a faccia con il leader di Sel).
Impegni che, a ben vedere, cozzano con la dichiarazione iniziale del leader democrat, il quale aprendo la conferenza stampa ha esordito dicendo che nel programma di governo del Pd «la questione economica» e quella «democratica» saranno strettamente connesse e che «contestiamo il liberismo finanziario che ci ha portato a questa crisi, denunciamo come quel liberismo abbia disarmato sovranità e democrazia dei paesi. Non c’entra il mercato - si premura di sottolineare Bersani - Qui siamo ad una sua micidiale distorsione, al dominio di soggetti incontrollati, che ha provocato la più grave crisi dal dopoguerra ad oggi». Facile l’obiezione del segretario del Prc Ferrero: «Bersani dice che vuole uscire dalla politiche liberiste. Ma perché‚ allora, Bersani ha votato l'abolizione dell'articolo 18, la manomissione delle pensioni e approvato il Fiscal Compact, sostenendo Monti che delle politiche liberiste ha fatto il centro della sua azione di governo? E’ disponibile a ripristinare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e a cancellare la Legge 30 e l'articolo 8 della finanziaria Berlusconi? Disponibile a cancellare la scandalosa riforma delle pensioni della Fornero? Disponibile a rigettare il Fiscal Compact che strozzerà l'Italia e la terrà in recessione per i prossimi vent'anni? - chiede Ferrero - Senza queste risposte le parole di Bersani sono solo chiacchiere in libertà».
Poi certo, il segretario del Pd deve concedere qualcosa anche alla sinistra dello schieramento. Perciò annuncia che il primo atto di governo sarà il riconoscimento della cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia e che si darà «sostanza normativa al principio riconosciuto dalla Corte costituzionale per il quale una coppia omosessuale ha diritto a vivere la propria unione ottenendone riconoscimento giuridico». E non dimentica il diritto del lavoratore «ad essere rappresentato in fabbrica anche se il suo sindacato non firma il contratto». E ancora: il conflitto d’interessi, la giustizia civile e penale, il tetto agli stipendi dei manager pubblici («che fanno scandalo non solo ai poveri ma anche al ceto medio»), la patrimoniale (per «caricare su rendite e grandi patrimoni» il peso fiscale e ridurlo su lavoro e imprese). Rivendica «un’altra idea» per democrazia e modello economico e sociale; chiede riforme della democrazia e della politica «su base costituzionale»; ribadisce che solo con l’austerità non si va lontano, che in Europa serve la solidarietà e serve ridare slancio al «grande sogno degli Stati Uniti d’Europa»; che l’Italia deve poter «fare l’Italia», che trovi il suo posto nel mondo perché «il mondo vuole l’Italia». Sempre che non sia stata spazzata via dal Fiscal Compact e dallo spread dei «soggetti incontrollati».
Bersani non lascia spazio ad equivoci: a chi vorrà condividere con il Pd la volontà di «governare in tempi difficili» si richiedono «disciplina», «impegni espliciti e vincolanti» a «sostenere in modo leale e per l’intero arco della legislatura l’azione del premier scelto con le primarie (che si terranno entro l’anno, ndr) e la «disponibilità a cedere sovranità sulle decisioni controverse» (la cui soluzione sarà demandata ai gruppi parlamentari che decideranno a maggioranza qualificata). Ma, soprattutto, il “patto“ prevede che chi vi aderisce assicuri «il pieno sostegno, fino alla loro eventuale rinegoziazione, degli impegni internazionali già assunti dal nostro paese o che dovranno esserlo in un prossimo futuro». Di più: dovrà «appoggiare l’esecutivo in tutte le misure di ordine economico e istituzionale che nei prossimi anni si renderanno necessarie per difendere la moneta unica e procedere verso un governo politico-economico federale dell’eurozona».
Insomma, la preoccupazione di Bersani sembra quella di dimostrare di voler garantire la continuità delle politiche montiane. E per questo il segretario del Pd rivendica tutte le scelte compiute fin qui: «Come si può pensare che sottovalutiamo il rigore? - esclama - Noi non siamo forse quelli dell’euro, del governo Prodi, Amato, D’Alema, che tennero fede ai patti internazionali difficilissimi? Noi siamo quelli della riduzione del debito, dei conti a posto, di Ciampi e Padoa Schioppa». E già. Non per nulla Marco Follini, senatore Pd, definisce la ricetta di Bersani come «una miscela di montismo e hollandismo».
Una carta d’intenti che sembra fatta su misura per Casini e che taglia fuori inesorabilmente Di Pietro, col quale non è in programma alcun incontro (pronta la replica del leader Idv: «Il Bersani uno e trino, quello che si dice alternativo alla destra e quello che sostiene questo governo insieme alla destra, pensi a guardarsi allo specchio, a ritrovare se stesso, che ai suoi elettori parleremo noi»), mentre non è chiaro come Vendola potrebbe sottoscrivere simili impegni (ma presto si saprà: già oggi è fissato il faccia a faccia con il leader di Sel).
Impegni che, a ben vedere, cozzano con la dichiarazione iniziale del leader democrat, il quale aprendo la conferenza stampa ha esordito dicendo che nel programma di governo del Pd «la questione economica» e quella «democratica» saranno strettamente connesse e che «contestiamo il liberismo finanziario che ci ha portato a questa crisi, denunciamo come quel liberismo abbia disarmato sovranità e democrazia dei paesi. Non c’entra il mercato - si premura di sottolineare Bersani - Qui siamo ad una sua micidiale distorsione, al dominio di soggetti incontrollati, che ha provocato la più grave crisi dal dopoguerra ad oggi». Facile l’obiezione del segretario del Prc Ferrero: «Bersani dice che vuole uscire dalla politiche liberiste. Ma perché‚ allora, Bersani ha votato l'abolizione dell'articolo 18, la manomissione delle pensioni e approvato il Fiscal Compact, sostenendo Monti che delle politiche liberiste ha fatto il centro della sua azione di governo? E’ disponibile a ripristinare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori e a cancellare la Legge 30 e l'articolo 8 della finanziaria Berlusconi? Disponibile a cancellare la scandalosa riforma delle pensioni della Fornero? Disponibile a rigettare il Fiscal Compact che strozzerà l'Italia e la terrà in recessione per i prossimi vent'anni? - chiede Ferrero - Senza queste risposte le parole di Bersani sono solo chiacchiere in libertà».
Poi certo, il segretario del Pd deve concedere qualcosa anche alla sinistra dello schieramento. Perciò annuncia che il primo atto di governo sarà il riconoscimento della cittadinanza ai figli degli immigrati nati in Italia e che si darà «sostanza normativa al principio riconosciuto dalla Corte costituzionale per il quale una coppia omosessuale ha diritto a vivere la propria unione ottenendone riconoscimento giuridico». E non dimentica il diritto del lavoratore «ad essere rappresentato in fabbrica anche se il suo sindacato non firma il contratto». E ancora: il conflitto d’interessi, la giustizia civile e penale, il tetto agli stipendi dei manager pubblici («che fanno scandalo non solo ai poveri ma anche al ceto medio»), la patrimoniale (per «caricare su rendite e grandi patrimoni» il peso fiscale e ridurlo su lavoro e imprese). Rivendica «un’altra idea» per democrazia e modello economico e sociale; chiede riforme della democrazia e della politica «su base costituzionale»; ribadisce che solo con l’austerità non si va lontano, che in Europa serve la solidarietà e serve ridare slancio al «grande sogno degli Stati Uniti d’Europa»; che l’Italia deve poter «fare l’Italia», che trovi il suo posto nel mondo perché «il mondo vuole l’Italia». Sempre che non sia stata spazzata via dal Fiscal Compact e dallo spread dei «soggetti incontrollati».
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