venerdì 31 agosto 2012

Il manifesto politico di Mario Draghi (e i suoi limiti) di Vladimiro Giacchè



È un segno dei tempi che sia un banchiere, anzi IL banchiere europeo per eccellenza, Mario Draghi, a proporre all’opinione pubblica europea il più importante manifesto politico di questi mesi. Perché l’articolo del presidente della BCE pubblicato sul settimanale tedesco “Die Zeit” (con un titolo cretino che la dice lunga sulle ossessioni monomaniacali dell’establishment di quel paese: “Così l’euro resta stabile!”) è un vero e proprio manifesto politico.
Certo, tutti i commentatori sono andati a cercare, in fondo al testo di Draghi, le parole sulla BCE e su quello che intende fare per evitare l’implosione dell’area valutaria. E non sono stati delusi. Draghi infatti afferma, a beneficio dei lettori tedeschi, che la BCE “farà quanto necessario per garantire la stabilità dei prezzi. Resterà indipendente. E opererà sempre nell’ambito del proprio mandato”. Ma aggiunge, a beneficio dei lettori di quasi tutti gli altri paesi europei, che “la fedeltà al proprio mandato può richiedere di andare oltre le consuete misure di politica monetaria”. Questo avviene quando “nei mercati dei capitali predominano paura e irrazionalità, quando il mercato finanziario comune torna a suddividersi lungo le linee tracciate dai confini nazionali”: ossia quando, come sta accadendo in questi mesi, il mercato europeo dei capitali si balcanizza, con gli stati finanziariamente più solidi che riportano i soldi a casa e diventano rifugio di capitali in fuga dagli altri.
Ma il merito principale del discorso di Draghi consiste nel rifiutare l’alternativa che i Tedeschi stanno imponendo nel dibattito sul futuro della moneta unica e dell’Europa: “o si torna al passato o si fa un salto qualitativo e si va verso una specie di Stati Uniti d’Europa”. È proprio questa alternativa secca, dice Draghi, che rende insoddisfacenti molte proposte di soluzione dei problemi attuali.
È vero che l’architettura istituzionale dell’Unione Europea si è dimostrata carente, ma – ricorda Draghi – il modello politico ispirato agli stati nazionali fu esplicitamente rifiutato quando si decise di dar vita alla moneta unica (e qui c’è una polemica implicita, perché fu in primis Kohl a non volere una più stretta integrazione politica). Il problema, insomma, non è l’assenza di un’unione politica, ma il fatto che a fronte di una politica monetaria unica le politiche economiche e fiscali dei diversi stati sono state e sono malamente coordinate tra loro. Bisogna quindi procedere verso “il completamento dell’unione economica e valutaria”, ivi inclusa una regolamentazione europea dei mercati finanziari che preveda tra l’altro la possibilità di liquidare le banche fallite (quello che non si è voluto fare nel 2008/2009).
Questo non significa “in prima istanza un’unione politica”. Integrazione economica e politica possono però senz’altro procedere in parallelo, e la sovranità può essere condivisa a fronte di un rafforzamento della legittimazione democratica a livello europeo.
Il punto più debole del ragionamento di Draghi è quello che riguarda i contenuti concreti della politica economica e di bilancio. A questo proposito leggiamo che i bilanci nazionali devono essere soggetti a supervisione europea, e “dovrebbero essere fissati standard minimi di competitività”.
Che squilibri e debiti maturati dai vari stati non devono essere eccessivi e tali da minacciare la moneta unica (qui Draghi si dimentica di precisare che un attivo eccessivo della bilancia commerciale, come quello che la Germania vanta attualmente nei confronti degli altri paesi dell’eurozona, non è meno pericoloso per l’area valutaria di quanto lo siano i disavanzi degli altri). E poi seguono le tautologie e i mantra preferiti dalla nomenklatura europea: “nessun paese potrà vivere ulteriormente al di sopra dei propri mezzi. I mercati del lavoro devono funzionare in modo tale da creare occupazione e diminuire la disoccupazione”. Tutto questo, promette Draghi, “non significa la fine dello stato sociale europeo. È invece la base per un suo rinnovamento”. Ora, queste sono parole molto belle. Senz’altro migliori di quelle dell’infelice intervista dello stesso Draghi al Wall Street Journal, in cui si dava per morto il modello sociale europeo.
Ma il problema è che tutto questo non tiene. Quello che serve all’Europa non sono “standard minimi di competitività” (qualunque cosa questa oscura locuzione significhi), ma standard minimi nel campo della fiscalità e dei diritti del lavoro.
In assenza di questi standard, la competitività continuerà ad essere tutta giocata sul dumping fiscale (tasse alle imprese più basse che negli altri paesi dell’Eurozona) o sul dumping sociale (minori diritti e minori salari). E l’alternativa continuerà ad essere quella che oggi affligge l’Europa: o una generalizzata erosione progressiva dei diritti e dei salari diretti o indiretti, oppure la creazione di divergenze alla lunga insostenibili tra un paese e l’altro. (O magari, come sta avvenendo in Italia a causa delle politiche di austerità – che colpiscono i redditi, ma anche l’attività economica – entrambe le cose).
In tal caso anche le “misure non convenzionali” della BCE che oggi sono necessarie, ossia l’acquisto dei titoli di stato di paesi sotto attacco speculativo per ridimensionarne i rendimenti, serviranno nel migliore dei casi a tamponare l’emergenza. Senza risolvere i problemi di fondo che stanno distruggendo la moneta unica.

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