Il fondatore di Repubblica ha risposto a Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, che venerdì aveva fatto a pezzi il conflitto di attribuzione di Napolitano contro la Procura di Palermo. E, già che c’era, ha offeso la logica, la verità storica, la professionalità dei magistrati e la memoria di Falcone
Domenica, su Repubblica, Eugenio Scalfari ha risposto a Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale
nonché illustre collaboratore del suo giornale, che venerdì aveva fatto
a pezzi il conflitto di attribuzione di Napolitano contro la Procura di
Palermo e gli argomenti dei supporter del Quirinale, Scalfari in
primis. Ma, oltre a contrapporre i propri argomenti a quelli di
Zagrebelsky, il fondatore di Repubblica lo ha anche attaccato
personalmente, dipingendolo come uno sprovveduto, ignorante,
disinformato e scorretto (“Zagrebelsky mostra di non rendersi conto…”,
ha commesso “una scorrettezza che è lui il primo a considerare grave”,
“non dovrei esser io a ricordare a un ex presidente della Corte…”,
“forse Zagrebelsky non era al corrente di questo interessante
dettaglio”, per non parlare della “delusione” provocata in lui
dall’adesione del giurista all’appello del Fatto per i magistrati siciliani).
E, già che c’era, ha offeso la logica, la verità storica, la
professionalità di tutti i magistrati antimafia degli ultimi vent’anni e
persino la memoria di Giovanni Falcone.
1. Cui prodest?
“L’articolo di Zagrebelsky… rafforza e conforta col prestigio
giudiziario del suo autore la campagna in corso da tempo contro il
Quirinale… prima ancora che le inchieste palermitane fornissero
un’ulteriore occasione e che ha poi acquistato una virulenza che va
molto al di là del sacrosanto diritto di informazione e di critica…
Invito perciò Zagrebelsky a porsi il problema dell’uso che verrà fatto
da quelle forze politiche e da quei giornali delle sue dichiarazioni”.
Scalfari dipinge una scena di pura fantapolitica: un Napolitano solo e
inerme dinanzi all’assalto congiunto di forze vastissime e potentissime.
La realtà è opposta: l’intera maggioranza parlamentare (Pdl, Udc, Pd)
con l’aggiunta della Lega stanno acriticamente con Napolitano, così come
tutti i tg e i giornali. Gli unici che si permettono critiche
argomentate sulla gestione sgangherata e autolesionistica del caso
Quirinale-Mancino (dunque dopo e non prima degli esiti dell’inchiesta
palermitane) sono: in Parlamento, l’Idv; in edicola, il Fatto;
sul web, Grillo. Fra i costituzionalisti, solo Zagrebelsky ha criticato
il Presidente, tutti gli altri l’hanno difeso a spada tratta; idem fra i
processualisti, con l’eccezione di Cordero. Ma, siccome “amicus Plato,
sed magis amica veritas”, un giornalista dovrebbe verificare cosa dice
la legge e come si sono svolti i fatti, non chi si “rafforza” e da chi
si viene “usati” sostenendo questa o quella tesi. Altrimenti, a furia di
“cui prodest?”, si potrebbe sostenere che gli attacchi di Scalfari ai
pm antimafia rafforzano il Pdl e B., che infatti (vedi Giuliano Ferrara),
difendono Napolitano e persino su Scalfari “usando” i suoi scritti per
screditare la magistratura. Del resto, se un intellettuale deve tenere
per sé le sue critiche a Napolitano per non lasciarle “usare” da chi
“attacca il Capo dello Stato”, perché Scalfari attaccò almeno tre capi
dello Stato come Antonio Segni (per il piano Solo sull’Espresso), Giovanni Leone (sull’Espresso) e Francesco Cossiga? Forse che il Capo dello Stato è criticabile e attaccabile solo quando non piace a Scalfari?
2. La legge dell’ex. “Sconcerta constatare che un ex presidente della Consulta si è già espresso (sul conflitto innescato da Napolitano contro i pm di Palermo, ndr)…
Una scorrettezza che è lui il primo a considerare grave”. Cioè: un ex
presidente della Consulta sarebbe scorretto solo perché commenta un
conflitto di attribuzioni promosso dal capo dello Stato dinanzi alla
Consulta di cui non fa più parte? E allora perché Scalfari non ha accusa
di scorrettezza tutti gli altri presidenti emeriti della Consulta –
Mirabelli, Onida, Capotosti, De Siervo, Casavola e Flick – che quel
conflitto l’han commentato eccome, per dare ragione al Colle? È
scorretto commentare per criticare, mentre è corretto commentare per
plaudire? In questo caso Scalfari confonderebbe la libertà di
espressione col dovere di encomio.
3. Armi pari o impari?
“La Corte si è più volte espressa, in varie occasioni e con vari
presidenti della Repubblica, con sentenze e giudizi contrastanti con
decisioni del Capo dello Stato. Ha bocciato atti da lui firmati,
iniziative da lui prese, perfino leggi elettorali da lui promulgate. Nel
caso in questione Zagrebelsky ha caricato il ricorso di significati che
esso non ha”. Insomma nessun duello ad armi impari e dall’esito
scontato (pro-Napolitano), come scrive Zagrebelsky. Forse a Scalfari
sfugge che mai un presidente della Repubblica ha attivato un conflitto
di attribuzioni contro un ufficio giudiziario, tantomeno perché la
Consulta gli conferisca una nuova prerogativa costituzionale (Scalfari
invoca una sentenza “additiva” o “interpretativa”, ammettendo dunque che
quella prerogativa nel testo della Costituzione non esiste). Insomma,
non esistono precedenti: dichiarare incostituzionale una legge
promulgata dal Presidente (tutte le leggi sono promulgate dal
Presidente, altrimenti non entrano in vigore) non significa bocciare il
Presidente, visto che le leggi sono responsabilità di chi le propone e
di chi le approva in Parlamento e il Presidente – come Scalfari e
Napolitano hanno sempre sostenuto – non può respingerle se non in casi
eccezionali e solo in prima battuta.
4. Immunità da Comma 22. “Il ricorso (di Napolitano alla Consulta contro i pm di Palermo, ndr)
chiede soltanto che… venga chiarito se l’irresponsabilità politica del
Presidente per atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni contempli
anche l’inconoscibilità di quegli atti qualora essi siano ritenuti
processualmente irrilevanti”. Inconoscibilità? Ma quando mai una
Costituzione potrebbe prevedere che gli atti compiuti da un Presidente
nell’esercizio delle sue funzioni, dunque pubblici per definizione,
siano inconoscibili? Questa è talmente grossa che non la sostiene
neppure Napolitano. Il quale invece pretende l’“inconoscibilità” delle
sue conversazioni indirettamente e casualmente intercettate sul telefono di Mancino:
e anche questa è impossibile, visto che anche per distruggerle subito
(come chiedono Napolitano e Scalfari), i magistrati dovrebbero comunque
prima valutare se erano nell’esercizio delle funzioni, dunque ascoltarle
e conoscerle. Scalfari ricorda che la Procura le ha giudicate
“processualmente irrilevanti”: cosa che non avrebbe potuto fare se le
avesse distrutte senza ascoltarle. Da un lato si chiede di distruggerle
perché relative all’esercizio delle funzioni e giudicate irrilevanti;
dall’altro si pretende che i magistrati non le conoscano e si accusa la
Procura (vedi decreto Napolitano del 16 luglio) di aver leso le
prerogative del Presidente nell’atto stesso di ascoltarle e valutarle.
Roba da Comma 22: per ottenere l’esonero dalla guerra, il soldato deve
dichiararsi pazzo; ma il Comma 22 stabilisce che chi chiede l’esonero
non è pazzo.
5. La fantavvocatura.
“L’Avvocatura dello Stato, prima che il ricorso presidenziale fosse
redatto, era andata in visita alla Procura di Palermo ed aveva proposto
la distruzione delle registrazioni in questione. Ne aveva ricevuto un
rifiuto. E dunque il ricorso. Forse Zagrebelsky non era al corrente di
questo interessante dettaglio”. Per forza che non era al corrente:
questo dettaglio interessante non è mai avvenuto. Se l’è inventato
Scalfari per attribuire alla Procura un conflitto partito dal Quirinale.
Infatti ieri l’hanno smentito la Procura di Palermo e persino l’amato
Quirinale. Il procuratore Francesco Messineo spiega che
l’Avvocatura non ha reso alcuna visita in Procura: ha solo scritto una
lettera per sapere se esistessero conversazioni intercettate
Mancino-Napolitano e, se sì, perché non fossero state distrutte. Il
procuratore Messineo ha risposto che, ove mai esistessero, non avrebbero
rilevanza penale (infatti non risultano agli atti depositati a fine
indagine) e spetterà al gip decidere se distruggerle nell’apposita
udienza alla presenza degli avvocati. Se l’Avvocatura avesse proposto
alla Procura di distruggerle su due piedi, fra il lusco e il brusco,
senza passare dal gip e dal contraddittorio fra le parti, in violazione
dell’art. 269 del Codice di procedura, avrebbe commesso il reato di
istigazione a delinquere. E, se questi avessero accolto la proposta
indecente, avrebbero commesso un reato e un illecito disciplinare. Ma
per fortuna nulla di tutto ciò è mai accaduto.
6. Pm fannulloni.
“Ci sarebbero da esaminare i risultati delle inchieste che da vent’anni
si svolgono a Palermo e Caltanissetta e che finora hanno dato assai
magri risultati tranne quello – a Caltanissetta – d’aver fatto
condannare… un mafioso accusato dell’omicidio di Borsellino, poi
rivelatosi innocente dopo aver scontato otto anni di carcere duro”.
Dunque, in vent’anni, le Procure antimafia di Palermo e Caltanissetta
non han combinato nulla, se non far condannare un innocente – il falso
pentito Scarantino – per via d’Amelio. I procuratori Caselli, Grasso,
Messineo, Tinebra, Lari e decine di loro aggiunti e sostituti si sono
grattati la pancia dal 1992 a oggi. Strano, pensavamo che avessero
decapitato il clan dei corleonesi, facendo arrestare e condannare
all’ergastolo centinaia di boss, fra cui Riina, Provenzano, Bagarella,
Brusca, i Graviano, Aglieri ecc. rischiando la pelle e scoprendo autori e
mandanti diretti delle stragi e di centinaia di delitti eccellenti, e
sequestrando centinaia di milioni di euro. Evidentemente ci sbagliavamo.
Nessun arresto, processo, condanna, sequestro. Solo un errore
giudiziario: quello su Scarantino, peraltro reo confesso con
un’autocalunnia pianificata da dirigenti e agenti di Polizia che nessun
ministro dell’Interno (nemmeno Napolitano) ha mai ritenuto di mettere
sotto inchiesta disciplinare per scoprire perché e per chi depistarono.
Senza contare che il depistaggio Scarantino è stato poi smascherato dagli stessi pm di Caltanissetta che, grazie alle rivelazioni del pentito Spatuzza, hanno istruito il processo di revisione.
7. La trattativa buona.
“Ci sarebbe da distinguere tra trattativa e trattativa. Quando è in
corso una guerra la trattativa tra le parti è pressoché inevitabile per
limitare i danni. Si tratta per seppellire i morti, per curare i feriti,
per scambiare ostaggi. Avvenne così molte volte ai tempi degli anni di
piombo. Il partito della fermezza che non voleva trattare con le Br, e
quello della trattativa. Noi fummo allora per non trattare; socialisti,
radicali e una parte della Dc erano invece per la trattativa”. Dunque
quella che per Scalfari fino a due settimane fa era la “presunta
trattativa”, ora è una sicura e sacrosanta trattativa. Nel 1992 era “in
corso una guerra” fra due “parti”, l’esercito dello Stato e quello della
mafia, che poi si misero d’accordo per “limitare i danni” (di chi?
come?), “seppellire i morti” (di chi? quali?), “curare i feriti” (di
chi? quali?), “scambiare ostaggi” (c’erano ostaggi? e chi li aveva
catturati?). Fu così anche “negli anni di piombo”, anzi solo quando le
Br sequestrarono uomini politici democristiani: prima Aldo Moro, poi Ciro Cirillo.
Nel primo caso si tentò di trattare, ma non ci si riuscì. Nel secondo,
ci si riuscì, chiamando in soccorso la camorra di Cutolo. Già, ma la
prima volta chi era per trattare (parte della Dc, Craxi, Martelli,
Signorile, Pannella, Sciascia), lo dichiarò alla luce del sole e la
possibile contropartita era un atto legittimo, confessabile e
confessato: la grazia presidenziale a una brigatista non accusata di
fatti di sangue, Paola Besuschio, ma il presidente
Leone arrivò troppo tardi. Nel caso Cirillo, chi trattò lo tenne
nascosto, ma fu scoperto dalle indagini dei magistrati. Che c’entra
tutto questo con le stragi? Nulla. Le Br volevano abbattere lo Stato.
Cosa Nostra nel ’92 voleva costringere lo Stato a trattare per stabilire
un nuovo patto di convivenza con una nuova classe politica, visto che
la vecchia stava sfarinandosi per Tangentopoli. Infatti Riina eliminò
subito il traditore Salvo Lima e programmò di
assassinare altri politici che avevano tradito i patti o le attese, e
poi Falcone che lavorava con Martelli nel governo Andreotti. “Fare la
guerra per fare la pace”, disse il boss. Lo Stato ufficialmente dichiarò
la guerra e invece si attivò segretamente per fare la pace: la prima
mossa, secondo l’accusa, l’avrebbe ispirata Mannino per salvarsi la
pelle. Riina se ne felicitò con gli altri boss (“si sono fatti sotto”)
e, quando la prima trattativa del Ros sembrò arenarsi, decise di “dare
un altro colpetto” eliminando Borsellino che era stato informato della
trattativa. Nel 1978 chi voleva trattare sperava di salvare la vita a
Moro (anche infischiandosene della morte degli uomini della sua scorta
nella strage di via Fani). Nel 1992 chi trattò provocò indirettamente
altri morti. Per salvare i politici, fu sacrificato Borsellino insieme
alla scorta. E poi i civili morti nelle stragi del ’93 a Firenze, Milano
e Roma. Altro che trattare per seppellire i morti: trattando, si
condannarono decine di persone a morte, perché i boss capirono
dall’atteggiamento dello Stato che le stragi “pagavano”. Non c’erano
ostaggi da liberare, anzi lo Stato divenne ostaggio di Cosa Nostra, in
particolare di Provenzano, che aveva agevolato la cattura di Riina e da
allora divenne un intoccabile. Lo Stato non ne ebbe alcun vantaggio: si
salvarono alcuni politici e si seppellì un magistrato onesto che si
opponeva al cedimento dello Stato all’anti-Stato. Scalfari era contrario
alla trattativa per Moro anche perché all’epoca era il suggeritore del
compromesso storico Dc-Pci, mentre Craxi era per trattare anche per
spezzare l’asse Andreotti-Berlinguer. Ora Scalfari si converte alla
trattativa buona con la mafia perché è il suggeritore del nuovo
compromesso storico Pdl-Udc-Pd benedetto dal Colle. I suoi sì e i suoi
no non dipendono dai fatti e dai princìpi, ma dalle convenienze
politiche del momento.
8. Trattare non è reato.
“A nessuno sarebbe venuto in mente di tradurre in giudizio Craxi,
Martelli, Pannella ed anche Sciascia e molti altri intellettuali che
volevano trattare. Qual è dunque il reato che si cerca, la verità che si
vuole conoscere?”. Ma nessun magistrato ha mai incriminato o
criminalizzato chi ha condotto o giustificato o chiesto trattative con
terroristi o mafiosi. Se Scalfari leggesse le carte dell’inchiesta di
Palermo di cui si occupa ogni domenica, o almeno i giornali che le
riassumono (compreso il suo), scoprirebbe che nessuno dei 14 imputati è accusato del reato di “trattativa” con la mafia.
Il reato contestato dai pm a 11 di essi è “violenza o minaccia a corpo
dello Stato”: cioè il ricatto perpetrato dai boss e dai loro emissari
(Riina, Provenza-no, Bagarella, Brusca, Cinà, Ciancimino jr) contro le
istituzioni, con l’aiuto di un politico (Mannino), un aspirante politico
(Dell’Utri) e tre ufficiali del Ros (Subranni, Mori e De Donno). I
ministri dell’epoca, rappresentanti dello Stato costretto a suon di
bombe a trattare, furono vittime di quell’estorsione (così come poi il
premier Berlusconi). Ma due di essi, Mancino e Conso, sentiti come
testimoni, sono stati smentiti da altri testi ritenuti credibili e da
documenti inoppugnabili: dunque sono imputati per falsa testimonianza,
come l’ex capo del Dap Capriotti). Per questo, con buona pace di Valerio Onida e del Corriere
che lo ospita, nessun atto è stato trasmesso al Tribunale dei ministri:
perchè nessun ministro è accusato per alcun atto compiuto
nell’esercizio delle sue funzioni tra il 1992 e il ’94.
9. Falcone zitto e muto.
“Falcone non era un magistrato che rilasciasse facilmente interviste a
destra e a manca”. Il solito giochino di glorificare i giudici morti per
demonizzare quelli vivi. Ma basta consultare gli archivi di Rai, di
Mediaset e dei giornali per scoprire che Falcone era presentissimo nel
dibattito pubblico, politico e giornalistico: libri-intervista (celebre
quello con Marcelle Padovani), colloqui con i giornali, presenze al Costanzo Show e a Samarcanda, addirittura un programma tutto suo su Rai2, articoli su La Stampa e su Repubblica.
10. Falcone insabbiatore.
”Un ultimo ricordo a proposito dei magistrati che invocano il favore
popolare e gli intellettuali che ritengono necessario darglielo.
Falcone… andò in Usa per interrogare il ‘soldato’ Buscetta che era lì
detenuto. Dopo l’interrogatorio Buscetta gli disse che avrebbe potuto
rivelargli qualche altra cosa di più a proposito del coinvolgimento di
uomini politici. La risposta di Falcone fu che aveva già risposto alle
sue domande ed altre non aveva da fargli e questo fu tutto. Riteneva che
non fosse ancora venuto il momento di inoltrarsi su quel cammino.
Buscetta riferì alla Commissione antimafia quanto sopra”. Nella foga di
attaccare a testa bassa i magistrati, Scalfari non si rende conto di
rendere un pessimo servizio non solo alla verità dei fatti, ma anche
alla memoria di Falcone, che purtroppo non può più difendersi. Per
fortuna esistono i verbali e le interviste di Tommaso Buscetta,
che ha sempre raccontato il contrario di quanto gli attribuisce
Scalfari: Falcone fece di tutto per costringerlo a parlare dei politici
già nel 1984, ma lui non ne volle sapere perché – dovendo parlare di
Andreotti e altri big, all’epoca potentissimi – ritenne che lo Stato
italiano non fosse pronto per verità così dirompenti. Tant’è che fece il
nome di Andreotti al procuratore Usa Dick Martin (che
l’ha testimoniato al processo), ma non a Falcone. Basta leggere le
parole di Buscetta in commissione Antimafia, al processo Andreotti e nel
libro-intervista con Saverio Lodato “La mafia ha
vinto” (Mondadori, 1999): “A Falcone chiesi scusa di non aver detto
tutto, e principalmente della politica. È del 1984 quella mia frase che
viene ricordata spesso: ‘Dottore Falcone, se le dicessi determinate
cose, finiremmo tutti e due al manicomio, io in quello criminale, lei in
quello civile’. Io di politica non volevo parlare per nessuna ragione. E
quando Falcone si avvicinava ai Salvo dovevo parlare di politica.
Cercai di sottrarmi persino di fronte alle intercettazioni delle
telefonate che provavano che ero stato ospite a casa loro. Allora fui
costretto a parlare, limitandomi però a raccontare il lato mafioso della
vicenda…”. Al massimo, come ipotizza Maria Falcone nell’intervista al Fatto,
Buscetta confidò qualcosa a Falcone fuori verbale, ma premettendo che
mai l’avrebbe confermato a verbale. Si decise a fare il nome di
Andreotti e di altri politici nazionali e uomini delle istituzioni solo
dopo Capaci, perché ne sentì il “dovere morale”. Se fosse vero, come
scrive Scalfari, che fu Falcone a tappare la bocca a un Buscetta ansioso
di parlare dei politici, avrebbe violato il principio costituzionale di
obbligatorietà dell’azione penale, addirittura commesso il reato di
favoreggiamento ai politici collusi. Non contento, Scalfari addita il
falso Falcone che non fa domande a Buscetta, anzi lo imbavaglia sui
politici, come modello per i pm di oggi: anch’essi dovrebbero silenziare
i pentiti che parlano di trattativa. Noi pensavamo che lo scopo della
giustizia, e anche quello dell’informazione, fosse quello di accertare
la verità: giudiziaria nel primo caso, storica nel secondo. Scalfari
invece suggerisce di non fare domande: c’è il rischio che qualcuno
risponda.
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