Ci sono delle cose dell’economia che non possono essere dette in
pubblico. Una di queste, lo sottolineano acutamente sia Luciano Gallino
che Paul Krugman in recenti contributi, è che la crisi che stiamo
vivendo non è una crisi del debito pubblico ma una crisi della finanza.
In
altre parole: le banche e la loro regolazione sono il male, mentre il
debito pubblico non è che una manifestazione di questo come di altri
mali che andrebbero curati alla radice.
L’ulteriore riprova dell’indicibile è il “decalogo” prodotto
dal Partito democratico in vista delle prossime elezioni politiche.
Nella carta in questione si cercheranno inutilmente i termini “banche” e
“finanza”. Il paradosso è che mentre si cercano soluzioni al delitto
della crisi economica, i maggiori indiziati – ricercati dai movimenti
sociali di tutto il mondo – non figurano neppure. Per inciso: anche
nella carta d’intenti di SEL,
pur trovandosi un meritorio riferimento alla necessità di rinegoziare i
trattati europei e di introdurre una tassa sulle transazioni
finanziarie, le parole sulla riforma del sistema bancario sono
sostanzialmente assenti. Si è tranquillamente passati dagli slogan
contro Wall Street del 2008, dal “noi la crisi non la paghiamo”
dell’Onda, dal dito medio alzato di Cattelan davanti alla Borsa di
Milano, da Occupy Wall Street, al più assoluto silenzio sulla finanza e
sulle banche alle origini di questa crisi con il suo portato di
disoccupazione e smantellamento dello Stato sociale.
Eppure le responsabilità delle banche sono sotto gli occhi di
tutti. I miliardi di euro e di dollari spesi per i salvataggi bancari
sono proprio quelli che hanno fatto lievitare i debiti pubblici, reso
indispensabili i tagli allo Stato sociale e aperto la voragine della
disoccupazione. La quasi totalità degli “aiuti” a Spagna, Portogallo,
Grecia, Irlanda va direttamente o indirettamente a rifinanziare il
sistema bancario in crisi di quei Paesi e i creditori internazionali. I
padroni delle banche islandesi scappano in giro per il mondo inseguiti
dai magistrati del nuovo governo democratico come nazisti braccati
servizi segreti israeliani. Le speculazioni finanziarie sono proprio
quelle che stanno mettendo in crisi la moneta unica europea e drenano
risorse dall’economia reale. Eppure sia negli Stati Uniti che in Europa
la politica non prende di petto la questione delle banche, la necessità
di ribaltarne la “governance” come un pedalino, nonché di introdurre
limitazioni e regole alla libertà di movimento dei capitali.
La domanda a questo punto sorge spontanea. Perché? Perché le classi
dirigenti politiche, salvo poche e rare eccezioni come Syriza in
Grecia, non gridano ai quattro venti delle colpe del sistema bancario e
della necessità che questo subisca una buone dose di bastonate? La
risposta è purtroppo semplice: perché queste classi dirigenti sono
ricattate. Se un partito, specie di un paese periferico e sotto attacco
speculativo, si presentasse alle elezioni con un programma di riforma
della finanza e delle banche questa sarebbe una sicura ricetta perché
grandi banche ed investitori istituzionali (gente che ha nome e cognome)
si rifiutino di comprare titoli di Stato di quel Paese, costringendo
così il politico in questione ad una veloce retromarcia o lo Stato a
fronteggiare una disastrosa bancarotta.
Senza entrare troppo nel dettaglio su come ciò sia potuto
succedere, su come cioè la classe politica e il popolo tutto si siano
ritrovati privi della possibilità decidere in piena libertà democratica
su questioni cardinali, alcuni brevi cenni storici sono necessari.
Fino agli anni ’70 lavorare nel settore delle banche commerciali
era universalmente noto come “boring”: una noia mortale. Essenzialmente
le banche commerciali, la maggior parte delle quali in Europa erano
direttamente controllate dallo Stato, raccoglievano risparmio ed
erogavano crediti ai risparmiatori. La regola del buon banchiere
americano era detta del “3-6-3”: John, il direttore della filiale x,
raccoglieva risparmio al 3 per cento, prestava al 6 e alle 3 del
pomeriggio di nuovo a giocare a golf. Semplice, pulito, non
particolarmente eccitante e senza rischi per nessuno. D’altra parte, le
banche di investimento erano poche e relativamente piccole, a conduzione
familiare o “partnership” (Goldman Sachs, Lazard Frères, Merrill Lynch)
e prestavano soldi a clienti fidati e conosciuti, di norma biondi con
gli occhi azzurri e usciti dalle università americane dall’Ivy League o
provenienti dalle famiglie nobili europee. I capitali tendenzialmente
restavano all’interno dei confini nazionali.
Il punto di rottura avvenne negli anni Settanta quando, in seguito
alla crescita di quelli che si chiamavano allora gli “euromercati”
(dollari guadagnati dalle multinazionali americane dell’Europa
occidentale e che rimanevano in Europa) e poi dei “petrodollari”
(dollari arabi che hanno inondato i mercati a causa dell’aumento
esponenziale del prezzo del petrolio), le banche sia americane che
europee si ritrovarono a disposizione una crescente massa di capitali e
cominciarono ad esserci forti pressioni per investire questi capitali in
modo più redditizio e creativo che in passato.
Arrivarono poi gli anni Ottanta delle “deregulation” finanziaria promossa, come ci insegna Rawi Abdelal in “Capital Rules”,
sia dalle classi dirigenti europee che da quelle americane, anche come
modo per compensare con la maggiore produttività del settore
finanziario la crescente perdita di competitività del settore
industriale tradizionale, vittima della competizione di nuovi aggressivi
concorrenti nel mondo in via di sviluppo. Ecco così: la creazione di
prodotti finanziari sempre più complessi, la totale privatizzazione del
sistemi bancario europeo innescata dal Mercato unico con la conseguente
dipendenza dei Governi dal benvolere di entità finanziarie private, la
trasformazione delle banche di investimento in gigantesche “corporation”
assetate di profitti a breve e governate da formule matematiche e
algoritmi piuttosto che dalla conoscenza diretta dei propri clienti,
l’ingordigia delle banche commerciali che si lanciano in acquisizioni ed
in operazioni finanziarie spericolate e, alla fine di tutto questo
processo, la creazione di una enorme massa di liquidità finanziaria che,
anche escludendo i prodotti finanziari derivati, nel 2009 era pari a
oltre 4 volta la ricchezza “reale” mondiale prodotta.
Rispetto a questo processo epocale di finanziarizzazione
dell’economia e di governance delle banche talmente opaca da non darci
modo di saper niente rispetto alle loro effettive condizioni
patrimoniali la politica non dice assolutamente nulla. Nulla sulla
necessità che le banche commerciali tornino semplicemente a gestire
depositi e ad assistere i risparmiatori, nulla sull’abolizione dei bonus
a breve termine per i manager finanziari, nulla sul modo in cui la
finanza è tornata a gestire direttamente grandi e piccole aziende, fino a
quegli enti locali che hanno dato retta a consulenti finanziari senza
scrupoli. Nulla di nulla perché in caso contrario questa enorme massa di
liquidità minaccia di spostarsi da un paese all’altro, da una paese
meno virtuoso (che difende i suoi cittadini fornendo servizi pubblici)
ad un altro più virtuoso (che taglia servizi sociali e vende i suoi
gioielli di famiglia).
Staremo a vedere se nel futuro della campagna elettorale italiana l’indicibile diventerà dicibile.
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