martedì 14 agosto 2012

Ilva, la politica dei veleni di Bruno Tinti, Il fatto quotidiano

Riepiloghiamo i fatti. Ilva ammazza, dal 1982, migliaia di persone, tra cittadini e lavoratori negli stabilimenti. La Procura di Taranto, il gip e il Tribunale della Libertà, fanno quello che possono per evitare che la gente continui a morire. C’è un solo modo: impedire che Ilva continui a spargere veleni. E siccome Ilva non lo fa, il suo stabilimento è sequestrato. Ferrante, nominato custode, approfitta di questa sua carica istituzionale per progettare iniziative contrarie alle prescrizioni dei giudici. Quindi è rimosso. I padroni di Ilva, alcuni ministri e i sindacati aggrediscono la magistratura, l’accusano di insensibilità, eccesso di zelo, protagonismo, creatrice di conflitto con la politica. Addirittura sproloquiano di veleni micidiali nel passato ma non più presenti (o presenti oggi in minima parte), sicché nulla osterebbe a riprendere la produzione, ferma restando la necessità di risanamenti da realizzare in contemporanea; e pensano a un conflitto di attribuzioni contro la magistratura che, con i suoi provvedimenti, contrasta l’azione del governo. Padroni e sindacati, paradossalmente uniti, presentano ricorsi e occupano strade: vogliono che la produzione riprenda. Tra vuoti proclami e accuse ridicole, nessuno (ma proprio nessuno) sottopone alla pubblica opinione i fatti che seguono.
Ilva produce veleno. Lo ha prodotto per 30 anni e continua a produrlo. Così dicono le perizie realizzate nell’incidente probatorio, cui avrebbe potuto intervenire la difesa; che invece non l’ha fatto, non ha contestato, non ha proposto argomenti o soluzioni alternative a quelle dei periti. Silenzio completo. Ferrante e Clini (in particolare quest’ultimo) straparlano di progetti di risanamento, interventi concreti, decreti miracolistici e tutta la solita fuffa propinata da una politica inconcludente. E tuttavia, ammesso che simili baldanzosi propositi abbiano seguito, i risultati si vedrebbero (se si trovassero i soldi), secondo Clini e Ferrante, in 4 mesi, secondo i periti, in 4 anni. Sicché, sta di fatto che, se la produzione continuasse, Ilva ammazzerebbe ancora, a dir poco, per i prossimi 4 mesi. L’oggetto del contendere è dunque la vita delle persone. Nemmeno B. avrebbe la faccia di sostenere che i giudici stiano perseguendo un progetto eversivo di lotta alla politica per via giudiziaria; in questo caso opponendosi (perché poi?) a fantomatici progetti industriali. Ma Catricalà vuole proporre un conflitto avanti alla Corte Costituzionale perché rimuova gli illegittimi ostacoli frapposti dalla magistratura al progetto del governo. Nonostante autorevoli precedenti, l’iniziativa muoverebbe al riso; se non rivelasse una cultura ispirata a disprezzo per i più elementari principi costituzionali; alludo, ovviamente, alla separazione tra il potere esecutivo e quello giudiziario. Se i provvedimenti dei giudici sono sbagliati, la via per correggerli è quella giudiziaria: un primo ricorso è stato respinto; altro è possibile avanti alla Corte di Cassazione: lo propongano e stiano a vedere.
Si tratta della vita delle persone; non dell’obbligo di Ilva di procedere al risanamento dello stabilimento. Non è compito dei giudici imporre misure di questo genere: essi infliggono sanzioni per la violazione di norme (per esempio di quelle in materia ambientale e antinfortunistica) e impediscono, con il sequestro, il perpetuarsi dei reati. Se poi la proprietà non intende adeguare lo stabilimento alle norme di legge, questo non è un problema della magistratura. Semplicemente, finché lo stabilimento non è a norma, lì dentro non si può lavorare. Clini potrebbe risolvere la situazione prendendo a prestito i sistemi di B: una legge che innalzi i limiti entro i quali la produzione di veleno è lecita e che tramuti Ilva in uno stabilimento perfetto. Invece si arrampica sui vetri sostenendo che Ilva ha ammazzato; e che ammazza ancora, ma non poi tanto. Proponga una legge che dica che è lecito ammazzare poco. Severino imita Napolitano e chiede gli atti al gip. Per farne cosa non si sa. Certo il ministro della Giustizia non può né annullarli né modificarli. Quando ben bene se li sia letti, le cose resteranno come sono. Può avviare un procedimento disciplinare, questo sì; il che, al momento sembra essere l’attività preferita dalla politica pescata con le mani nel sacco. Sanno, naturalmente, che si tratta di procedimenti infondati ma confidano nell’intimidazione. E ignorano (ma non è strano vista la loro formazione culturale – diciamo così) che i magistrati non collusi con il potere non si lasciano intimidire; gli altri, naturalmente, obbediscono spontaneamente. Sfortunatamente, tra i magistrati che si occupano di Ilva, di questa seconda categoria non ce n’è.
Resta una domanda cui sarà difficile rispondere. Ilva è un’impresa privata. Risanarla costa un sacco di soldi. Perché dovrebbe essere lo Stato a spenderli? I padroni hanno guadagnato parecchio gestendo, negli anni, questa fabbrica di morte. Usino il bottino per ricondurla nella legalità. Se non lo fanno, dico subito che io non sono per niente contento di pagare, pro quota, il risanamento del loro stabilimento. A meno che, si capisce, questo non venga ceduto allo Stato. Una due diligence ben fatta, un conguaglio (da Ilva allo Stato si capisce, ci mancherebbe altro, con tutto quello che c’è da spendere e da risarcire) e allora possiamo discuterne.

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