A un anno dal congresso si apre il confronto sulla confederazione al tempo dei «tecnici». Rispunta l’erbaccia del «governo amico», aspettando Bersani. Il sindacato guidato da Camusso soffre per la crisi economica e non ha un progetto forte di cambiamento, in nome dell’unità con Cisl e Uil rinuncia a un ruolo d’opposizione. Aria di normalizzazione, contro la Fiom e dentro la stessa maggioranza
Come
sta la Cgil? Lo stato di salute del maggior sindacato italiano risente
sicuramente delle conseguenze di una crisi politica, economica e sociale
senza precedenti. La politica ha abdicato al suo ruolo consegnandosi
mani e piedi ai cosiddetti tecnici, prigioniera di un doppio
condizionamento interno ed esterno. La crisi economica e le ricette
liberiste dettate dalla cupola finanziaria europea e mondiale, la stessa
che ha prodotto la crisi, sta provocando un vero dissesto sociale.
L’occupazione crolla ma non è questa la priorità del governo Monti e
della politica che lo sostiene, né lo è un piano di riconversione,
investimenti e ricerca per costruire le condizioni di un nuovo sviluppo,
socialmente ed ecologicamente compatibile: l’obiettivo è piuttosto il
pareggio di bilancio, l’abbattimento del debito costi quel che costi. E
sta costando moltissimo in termini di impoverimento delle fasce più
esposte, giovani, precari, lavoratori dipendenti e pensionati. Ma le
crisi, da che mondo è mondo, sono un’occasione colta dal capitalismo per
rifondarsi e modificare a suo favore i rapporti di forza tra le classi
(e qui sta il suo carattere rivoluzionario di cui parlava Gramsci). Così
si spiega l’aggressione in atto ai diritti individuali e collettivi in
nome dell’emergenza e della competitività.
La Cgil patisce questa situazione. Sul versante politico la tematica del lavoro è stata persa per strada dalle forze di centrosinistra, d’opposizione al governo Berlusconi prima e oggi pilastro principale – per affidabilità – di Monti. I lavoratori e le fasce più deboli non hanno più da tempo una rappresentanza politica, questo la Cgil di Susanna Camusso lo sa bene. Eppure la sua autonomia dal centrosinistra, meglio dire dal Partito democratico, si riduce progressivamente pur non essendo chiaro, o essendolo forse troppo, l’orizzonte politico di Bersani. È passata senza una vera protesta sociale la peggior riforma delle pensioni degli ultimi decenni, salvo poi scoprire, Cgil Cisl e Uil insieme, che è ingiusta e sbagliata perché l’allungamento dell’età lavorativa in una fase di espulsione dal lavoro di centinaia di migliaia di persone non può che provocare uno shock nello shock. È passata una riforma del mercato del lavoro pessima, che non interviene sulla precarietà anzi ne conferma le forme peggiori, e si prepara un taglio negli ammortizzatori sociali che trasformerà i cassintegrati in disoccupati. Infine, i tre milioni di cittadini chiamati in correo dalla Cgil di Cofferati che avevano impedito dieci anni fa la cancellazione dell’art.18 voluta da Berlusconi, sono stati lasciati a casa e Monti è riuscito là dove le destre peggiori avevano fallito. L’unica vera levata di scudi della Cgil riguarda la sorte degli esodati.
La priorità, per la Cgil di Camusso, è la ricostruzione dell’unità con Cisl e Uil. È un obiettivo difficilmente contestabile: in tutt’Europa i sindacati marciano uniti contro le politiche liberiste, tranne che nel nostro paese. Ma l’unità, distrutta non per volere della Cgil, bensì da dieci anni almeno di politiche subalterne ai governi di Cisl e Uil, non si ricostruisce a tavolino, né in un confronto tra i vertici sindacali. La pratica, favorita dai governi Berlusconi, degli accordi e dei contratti separati ha lasciato il segno nella carne dei cinque milioni di iscritti alla Cgil. Non è un problema che riguardi soltanto i ribelli della Fiom ma l’intero corpo confederale, e senza la capacità di rimuovere concretamente le cause che hanno provocato la rottura e senza una legge certa sulla rappresentanza e la democrazia che da tempo chiede la Fiom, nessuna buona volontà, da sola, potrà riportare indietro, o meglio avanti, le lancette della storia. Così è andata dopo la rottura dell’unità sindacale negli anni Cinquanta, quando ci vollero un duro lavoro di ricostruzione di una decina l’anni e infine la rottura del biennio ’68-’69 per riconquistare una nuova unità.
La crisi di autonomia della Cgil rischia di lasciar procedere indisturbato il manovratore che sta riscrivendo l’intero sistema di regole nelle relazioni sociali e sindacali. Il modello Marchionne che consente al padronato di scegliersi gli interlocutori e cancella il contratto nazionale è diventato modello generale. L’assoluta libertà dei capitali sta trasformando il lavoro in pura variabile dipendente dei mercati e dei profitti. Così capita che nel pieno dell’attacco all’occupazione e alla sua qualità mentre le grandi, piccole e medie aziende languiscono in cassa integrazione, se non sono direttamente in chiusura, si firmino accordi sindacali che aumentano l’orario di lavoro, intensificano la produzione e addirittura sanciscono la fine dell’aureo principio «a parità di prestazione parità di trattamento». È avvenuto con il contratto dei ferrovieri che prevede, insieme all’aumento dell’orario di lavoro, un diverso trattamento tra vecchi e nuovi assunti.
Di tutto questo si discute, forse troppo poco e non nelle sedi istituzionali della Cgil. Susanna Camusso dispone di una maggioranza nettissima, di cui per altro fa parte con qualche mal di pancia anche quella che una volta si chiamava sinistra sindacale, «Lavoro e società». All’opposizione soltanto l’area programmatica «La Cgil che vogliamo», nettamente maggioritaria tra i metalmeccanici della Fiom. A questa minoranza non è riconosciuta una presenza negli organi di governo della Cgil, e questa è una novità certamente negativa. Le decisioni che contano vengono prese in segreteria, invece che negli organismi preposti come il Direttivo nazionale, chiamato a giochi fatti a ratificare con voti sostanzialmente di fiducia alla segretaria generale decisioni già prese e annunciate alla stampa. Così è andata con la riforma del mercato del lavoro, con annesso omicidio dell’art.18.
La messa fuori gioco della minoranza non basta a rassicurare il vertice della Cgil che pretende obbedienza assoluta, a discapito del dibattito interno. Nella maggioranza è in atto un regolamento di conti, con spostamenti di uomini, ricambi, «ringiovanimenti», mondifiche dei gruppi dirigenti prima della scadenza naturale, o mancati ricambi al termine dei mandati. Può essere sufficiente una critica alla mancanza di ascolto di posizioni diverse, oppure il dubbio sulle politiche salariali, o peggio ancora sulla disponibilità ad aumentare gli orari di lavoro, a compromettere i rapporti tra un segretario di categoria e la segretaria generale: è il caso di Alberto Morselli, segretario generale della Filctem che intervistiamo in questa pagina.
C’è chi pensa che le grandi manovre in atto nella Cgil siano propedeutiche al congresso nazionale della confederazione che partirà in autunno e si concluderà dopo le elezioni di primavera, quando (in corso d’Italia si spera che) a Palazzo Chigi potrebbe esserci un governo, verrebbe da dire, amico. Ammesso e non concesso che per chi rappresenta i lavoratori possa esistere un governo amico, a prescindere dalle politiche messe in campo. A Susanna Camusso serve un’organizzazione che si muova come un sol uomo, o più correttamente come una sola donna. I dubbi e le posizioni critiche che qua e là affiorano, la voglia di maggior autonomia che si respira in settori, come si diceva una volta, fedeli nei secoli come i pensionati dello Spi, oppure nel sindacato della conoscenza, oppure in regionali importanti come l’Emilia Romagna o in camere del lavoro di peso come Torino, rischiano di rappresentare, per la maggioranza, più un problema che una risorsa. Autonomia sindacale, politiche contrattuali, art.18, mercato del lavoro sono i titoli politici del confronto che si aprirà in sede congressuale. E sullo sfondo pesano una pesante crisi finanziaria dell’organizzazione e il rischio che saltino le forme di rapporto istituzionale che hanno garantito finora ai sindacati una vita economica serena. La riduzione dei distacchi sindacali fa parte di questo scenario.
La Cgil patisce questa situazione. Sul versante politico la tematica del lavoro è stata persa per strada dalle forze di centrosinistra, d’opposizione al governo Berlusconi prima e oggi pilastro principale – per affidabilità – di Monti. I lavoratori e le fasce più deboli non hanno più da tempo una rappresentanza politica, questo la Cgil di Susanna Camusso lo sa bene. Eppure la sua autonomia dal centrosinistra, meglio dire dal Partito democratico, si riduce progressivamente pur non essendo chiaro, o essendolo forse troppo, l’orizzonte politico di Bersani. È passata senza una vera protesta sociale la peggior riforma delle pensioni degli ultimi decenni, salvo poi scoprire, Cgil Cisl e Uil insieme, che è ingiusta e sbagliata perché l’allungamento dell’età lavorativa in una fase di espulsione dal lavoro di centinaia di migliaia di persone non può che provocare uno shock nello shock. È passata una riforma del mercato del lavoro pessima, che non interviene sulla precarietà anzi ne conferma le forme peggiori, e si prepara un taglio negli ammortizzatori sociali che trasformerà i cassintegrati in disoccupati. Infine, i tre milioni di cittadini chiamati in correo dalla Cgil di Cofferati che avevano impedito dieci anni fa la cancellazione dell’art.18 voluta da Berlusconi, sono stati lasciati a casa e Monti è riuscito là dove le destre peggiori avevano fallito. L’unica vera levata di scudi della Cgil riguarda la sorte degli esodati.
La priorità, per la Cgil di Camusso, è la ricostruzione dell’unità con Cisl e Uil. È un obiettivo difficilmente contestabile: in tutt’Europa i sindacati marciano uniti contro le politiche liberiste, tranne che nel nostro paese. Ma l’unità, distrutta non per volere della Cgil, bensì da dieci anni almeno di politiche subalterne ai governi di Cisl e Uil, non si ricostruisce a tavolino, né in un confronto tra i vertici sindacali. La pratica, favorita dai governi Berlusconi, degli accordi e dei contratti separati ha lasciato il segno nella carne dei cinque milioni di iscritti alla Cgil. Non è un problema che riguardi soltanto i ribelli della Fiom ma l’intero corpo confederale, e senza la capacità di rimuovere concretamente le cause che hanno provocato la rottura e senza una legge certa sulla rappresentanza e la democrazia che da tempo chiede la Fiom, nessuna buona volontà, da sola, potrà riportare indietro, o meglio avanti, le lancette della storia. Così è andata dopo la rottura dell’unità sindacale negli anni Cinquanta, quando ci vollero un duro lavoro di ricostruzione di una decina l’anni e infine la rottura del biennio ’68-’69 per riconquistare una nuova unità.
La crisi di autonomia della Cgil rischia di lasciar procedere indisturbato il manovratore che sta riscrivendo l’intero sistema di regole nelle relazioni sociali e sindacali. Il modello Marchionne che consente al padronato di scegliersi gli interlocutori e cancella il contratto nazionale è diventato modello generale. L’assoluta libertà dei capitali sta trasformando il lavoro in pura variabile dipendente dei mercati e dei profitti. Così capita che nel pieno dell’attacco all’occupazione e alla sua qualità mentre le grandi, piccole e medie aziende languiscono in cassa integrazione, se non sono direttamente in chiusura, si firmino accordi sindacali che aumentano l’orario di lavoro, intensificano la produzione e addirittura sanciscono la fine dell’aureo principio «a parità di prestazione parità di trattamento». È avvenuto con il contratto dei ferrovieri che prevede, insieme all’aumento dell’orario di lavoro, un diverso trattamento tra vecchi e nuovi assunti.
Di tutto questo si discute, forse troppo poco e non nelle sedi istituzionali della Cgil. Susanna Camusso dispone di una maggioranza nettissima, di cui per altro fa parte con qualche mal di pancia anche quella che una volta si chiamava sinistra sindacale, «Lavoro e società». All’opposizione soltanto l’area programmatica «La Cgil che vogliamo», nettamente maggioritaria tra i metalmeccanici della Fiom. A questa minoranza non è riconosciuta una presenza negli organi di governo della Cgil, e questa è una novità certamente negativa. Le decisioni che contano vengono prese in segreteria, invece che negli organismi preposti come il Direttivo nazionale, chiamato a giochi fatti a ratificare con voti sostanzialmente di fiducia alla segretaria generale decisioni già prese e annunciate alla stampa. Così è andata con la riforma del mercato del lavoro, con annesso omicidio dell’art.18.
La messa fuori gioco della minoranza non basta a rassicurare il vertice della Cgil che pretende obbedienza assoluta, a discapito del dibattito interno. Nella maggioranza è in atto un regolamento di conti, con spostamenti di uomini, ricambi, «ringiovanimenti», mondifiche dei gruppi dirigenti prima della scadenza naturale, o mancati ricambi al termine dei mandati. Può essere sufficiente una critica alla mancanza di ascolto di posizioni diverse, oppure il dubbio sulle politiche salariali, o peggio ancora sulla disponibilità ad aumentare gli orari di lavoro, a compromettere i rapporti tra un segretario di categoria e la segretaria generale: è il caso di Alberto Morselli, segretario generale della Filctem che intervistiamo in questa pagina.
C’è chi pensa che le grandi manovre in atto nella Cgil siano propedeutiche al congresso nazionale della confederazione che partirà in autunno e si concluderà dopo le elezioni di primavera, quando (in corso d’Italia si spera che) a Palazzo Chigi potrebbe esserci un governo, verrebbe da dire, amico. Ammesso e non concesso che per chi rappresenta i lavoratori possa esistere un governo amico, a prescindere dalle politiche messe in campo. A Susanna Camusso serve un’organizzazione che si muova come un sol uomo, o più correttamente come una sola donna. I dubbi e le posizioni critiche che qua e là affiorano, la voglia di maggior autonomia che si respira in settori, come si diceva una volta, fedeli nei secoli come i pensionati dello Spi, oppure nel sindacato della conoscenza, oppure in regionali importanti come l’Emilia Romagna o in camere del lavoro di peso come Torino, rischiano di rappresentare, per la maggioranza, più un problema che una risorsa. Autonomia sindacale, politiche contrattuali, art.18, mercato del lavoro sono i titoli politici del confronto che si aprirà in sede congressuale. E sullo sfondo pesano una pesante crisi finanziaria dell’organizzazione e il rischio che saltino le forme di rapporto istituzionale che hanno garantito finora ai sindacati una vita economica serena. La riduzione dei distacchi sindacali fa parte di questo scenario.
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