Forse ce la faremo a portare a casa la pelle in questo agosto
complicato. O forse no. Può darsi che l’asse Monti-Draghi, con
l’appoggio esterno di Hollande e l’alleanza «interna» con la
Confindustria tedesca, riescano ad arginare la voglia dell’alleanza del
Nord di spaccare l’Eurozona e di sganciare la zavorra mediterranea dal
treno mitteleuropeo. O è possibile che i falchi della Bundesbank
riescano ad accelerare ancora la marcia verso un’Armageddon finanziaria,
quando si decidano una volta per tutte i sommersi e i salvati, magari
nella convinzione che un euro limitato all’area dei paesi optimo iure –
dei virtuosi finalmente liberi dalla cicale del sud – sia più adatto ad
affrontare il prossimo big one, quando esploderà la grana dell’immenso
debito americano.
Comunque vada, è chiaro che i giochi per noi verranno fatti fuori dai
nostri confini. I compiti – sempre più impegnativi, sempre più estremi –
verranno stabiliti a Berlino, o a Francoforte, non certo «a casa». Per
chi crede che la costituzione materiale europea sia scritta una volta
per tutte sulle tavole di pietra del dogma neoliberista, e che sia per
sua natura immodificabile (lo credono tutte le principali forze
politiche italiane, lo crede Monti, lo credono Bersani e Casini, lo
crede – forse – Alfano…), la strada per restare nell’euro è segnata. E
si fa sempre più ripida.
Sia che si debba sottostare esplicitamente all’accettazione del
famigerato Memorandum, o che a ogni riunione dell’Eurogruppo si sia
obbligati a portare sul tavolo una nuova offerta sacrificale, è certo
che le linee guida nel campo delle politiche sociali nel prossimo
quinquennio resteranno quelle seguite dal governo Monti in questo primo
squarcio di 2012, con un ulteriore incrudelimento dettato da
un’emergenza permanente. D’altra parte c’è già chi, in Europa, dice che
la riforma del mercato del lavoro non basta ancora, che la flessibilità
in uscita, pur dopo il taglio dell’art. 18, è insufficiente, che le
remunerazioni pubbliche e private sono ancora eccessive (anche se stanno
al fondo della graduatoria Ocse), che l’occupazione nel pubblico
impiego è pletorica. I mercati e i banchieri centrali teutonici ce
l’anno ormai insegnato, che «non gli basta mai».
Che su questa strada, dentro questo quadro rigido e immodificabile di
compatibilità, i compiti, come gli esami, «non finiscono mai».
Ora è evidente che, se inserite in questo contesto, e se limitate
alle attuali forze in campo, le prossime elezioni politiche appaiono in
larga misura già segnate. Per certi versi potremmo dire «inutili».
Chiunque vinca, tra gli attuali «insiders» – centro-destra o
centro-sinistra – si troverà l’agenda già scritta. Qualunque governo
scaturisca nell’attuale sistema dei partiti, dovrà seguire una road map
che permette pochissimi scarti, e nessuna «svolta» rispetto alla linea
seguita finora. Dopo Monti, sembra chiaro, non può che esserci Monti, o
la sostanza del «montismo» probabilmente ulteriormente incrudelita, sia
che l’ex presidente della Bocconi ascenda al Quirinale, o che rimanga
alla guida del governo per un nuovo accordo bipatisan da stipulare prima
o più probabilmente dopo le elezioni o, ancora, che conservi un qualche
ruolo di garante grazie a un qualche nuovo espediente istituzionale a
cui siamo ormai abituati.
E d’altra parte – se la politica volesse davvero «fare un passo
avanti» oltre il governo dei tecnici – ve lo immaginate voi un governo
di centro-sinistra con Bersani in giro per il mondo – come ha fatto il
«professore» in questi mesi – a tranquillizzare i guru di Wall Street o
gli scettici finlandesi o i tecnocrati della Buba con il suo linguaggio
da Crozza e un partito diviso su tutto? O, nel caso improbabile di una
vittoria del centro-destra, un nuovo governo Berlusconi con lo spread a
2500 fin dalla prima settimana?
È per tutte queste ragioni che mi è apparsa del tutto dissennata, e
in fondo suicida, la decisione di Nichi Vendola di riunirsi a coorte con
il Pd. E di legare le proprie sorti ai risultati di consultazioni
primarie in cui, bene che vada, potrà contendere il secondo posto a un
qualche Renzi, e dopo le quali si troverà vincolato al programma del
vincitore: lo stesso che ha approvato la riforma Fornero con art. 18
incluso (su cui non mi pare che Vendola fosse d’accordo), la
riorganizzazione del sistema pensionistico con esodati annessi, la
modifica dell’art. 81 della Costituzione, con la messa fuori legge delle
politiche keynesiane, la spending review… ecc. ecc. E che per questa
ragione non potrà che farsi garante della continuità con quelle
politiche.
Questo è lo scenario, se ci si ferma al «mondo sparito» (come lo
chiama Ilvo Diamanti) su cui ragiona la politica ufficiale: se si
continuano a consultare «le vecchie mappe» di un’Italia che non c’è più.
Se però solo si sposta un po’ più in là lo sguardo, sul mondo reale che
viene avanti, il quadro cambia radicalmente. I partiti su cui sono
incentrate tutte le ipotesi di governo del dopo-elezioni tutti insieme,
Pdl e Udc, Pd e Sel, non superano il 60% dei potenziali elettori
(elettori, non «aventi diritto al voto»). Cioè, supposto che non
subiscano ancora ulteriori emorragie, stanno poco al di sopra della metà
di quel meno di due terzi di cittadini ancora disposti a votare.
Fuori dal loro cerchio magico c’è un popolo esteso, in potenziale
espansione, che in quelle sigle, in quelle facce, in quei linguaggi non
ci crede più. E che probabilmente non ci sta a rassegnarsi
all’alternativa tra morire subito di default o entrare in una lunga
agonia sociale in cui la fine del tunnel non solo non si vede ma viene
via via allontanata dalle misure di «risanamento» subìte. Intuisce che
occorre un’alternativa di modello allo stato di cose presente: uno
scarto, o uno scatto d’immaginazione e di progettazione, che ci porti
fuori dall’impasse. In parte si posteggia nelle liste del Movimento 5
stelle. Segna, urlando, la propria demarcazione rispetto al «mondo
sparito» in cui non crede più. In parte cerca conforto in ipotetiche
liste civiche, nei Sindaci che hanno dato segnali di diversità, nelle
pieghe del «locale» dove la fiducia negli uomini tenta di compensare la
sfiducia negli apparati. Ma è e resta «in attesa».
A loro bisognerà dare una risposta in avanti. Pensando in grande: a
un’altra Europa, in primo luogo. Un’altra politica estera che ipotizzi
la strutturazione di un’area mediterranea in grado di negoziare da
posizioni di parità con il centro berlinese e l’area dei «virtuosi» e di
contrastarne i dogmi falliti. E poi un’altra politica sociale, che
metta al centro i diritti del lavoro, e il lavoro in quanto tale, come
entità reale, contro la virtualità del «finanz-capitalismo» e dei suoi
circuiti astratti. Un’altra politica economica, fondata su quei processi
di riorganizzazione capillare del sistema produttivo intorno a una
generale messa in sicurezza delle nostre vite e del nostro ambiente di
cui ha scritto su questo giornale Guido Viale. Un altro stile di «far
politica», che restituisca dignità e parola ai cittadini e ai territori.
C’è uno spazio immenso, per una galassia che sappia riconoscersi e
condensarsi intorno a pochi, semplici punti da non negoziare, senza gli
esercizi bizantini del vecchio Arcobaleno, senza bilancini e
intergruppi, senza estenuanti mediazioni. Semplicemente per un atto di
riconoscimento del «reale».
Può sembrare banale. Ma «se non ora, quando»?
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