Può essere utile fornire ai
lettori una “traduzione” della Carta di Intenti presentata martedì da
Pier Luigi Bersani, segretario del Partito Democratico. La carta di
intenti è stata intitolata – con un imponente sforzo creativo - “Italia.
Bene comune”: un modo come un altro per tentare di strizzare l’occhio
agli elettori di sinistra del PD, appropriandosi del concetto di “Beni
Comuni” e di una battaglia che, allo stato attuale, è tra le più
distanti dalla linea politica del Partito Democratico, che praticamente
ovunque ha dato il là alle più selvaggie privatizzazioni (a Torino come a
Genova, per fare due esempi). Altro che beni comuni…
La carta di intenti si apre con “L’Italia ce la farà se ce la faranno gli italiani. Se il paese che lavora, o che un lavoro lo cerca, che studia, che misura le spese, che dedica del tempo al bene comune, che osserva le regole e ha rispetto di sé, troverà un motivo di fiducia e di speranza”. Che è esattamente come dire che la pace è bella, la guerra è brutta, le margheritine profumano, l’acqua è bagnata. Ma vabbè, serviva un modo per introdurre i noccioli programmatici del patto tra “democratici e progressisti”.
Veniamo dunque alla traduzione per “comuni mortali” di “Italia. Bene comune”. Le parti scritte in corsivo sono stralci del documento originale redatto dagli strateghi del Partito democratico, a cui seguiranno alcuni chiarimenti fondati su dati oggettivi. Naturalmente procederemo per “stralci”, concentrandoci sui punti cruciali e ignorando quelli maggiormente “retorici” o discorsivi.
1. VISIONE
“Noi non crediamo all’ottimismo delle favole, quello venduto nel decennio disastroso della destra. Crediamo, invece, in un risveglio della fiducia e soprattutto nel futuro degli italiani, a cominciare dai più giovani e dalle donne. I problemi sono enormi e il tempo per aggredirli si accorcia. Le scelte da compiere non sono semplici né scontate”.
In realtà il PD e il PDL sostengono insieme, come è noto, il Governo Monti. I due partiti, apparentemente avversari, stanno di fatto governando insieme il Paese: hanno infatti votato a favore tutte le più significative misure approvate dal Governo. A titolo esemplificativo: il 30 novembre vi è stato il sì unanime della Camera in prima lettura al ddl costituzionale contenente il pareggio di bilancio in Costituzione approvato con 464 sì, nessun contrario e 6 astenuti. Il testo era già stato approvato unanimemente dal Senato con 255 sì nessun contrario e 14 astenuti. Ma PD e PDL si sono trovati d’accordo anche su tutti gli altri provvedimenti: dalla riforma del mercato del lavoro alla spending review, passando per la recentissima approvazione del fiscal compact. Tutte misure spacciate per “risolutive della crisi” che, tuttavia, hanno incrementato povertà e disoccupazione.
“La realtà è che mai come oggi nessuno si salva da solo. E nessuno può stare bene davvero, se gli altri continuano a stare male: è questo il principio a base del nostro progetto, sia nella sfera morale e civile che in quella economica e sociale.
Bello, bellissimo, se non fosse che il PD ha recentemente approvato la modifica dell’articolo 18, che di fatto facilita la libertà di licenziamento, anche in assenza di giusta causa. Giorgio Cremaschi spiegò i risvolti in un chiarissimo articolo, mentre il “rottamatore” Matteo Renzi, laconicamente, dichiarò: “Per usare un tecnicismo, a me dell’articolo 18 non me ne pò frega’ de meno”. E’ in questo modo che il PD intende appiattire il dislivello tra chi sta bene e chi sta male? Strano modo.
Vogliamo che il destino dell’Italia sia figlio della migliore civiltà dell’Europa e che insieme riscopriamo la necessità di sentirci vicino a chi nel mondo si batte per la libertà e l’emancipazione di ogni essere umano. Lo scriviamo nella coscienza che la grandezza e la tragedia del ‘900 in Europa si misurano in una sola parola: la pace. La conquista faticosa di un continente che, con la tragica eccezione dei Balcani, ha conosciuto nella seconda metà del secolo la sua riconciliazione”.
Anche qui, Bersani e soci non dicono che in realtà l’Italia è un Paese in guerra, che ha bombardato la Libia dell’ex amico Gheddafi e oggi sta bombardando l’Afghanistan, come rivelato a Il Giornale proprio da un pilota di Caccia. La pace a casa nostra è la guerra in casa di altri, con il suo contorno di vittime civili. Per non parlare dell’acquisto dei Caccia F-35, nei confronti del quale il PD ha talvolta, ma solo blandamente, levato qualche protesta.
2. DEMOCRAZIA
Dobbiamo sconfiggere l’ideologia della fine della politica e delle virtù prodigiose di un uomo solo al comando. E’ una strada che l’Italia ha già percorso, e sempre con esiti disastrosi. In democrazia ci sono due modi di concepire il potere. Usare il consenso per governare bene. Oppure usare il governo per aumentare il consenso. La prima è la via del riformismo. La seconda è la scorciatoia di tutti i populismi e si traduce in una paralisi della decisione.
Vero. Solo che possiamo prendere la Val di Susa come esempio di un’opera costosissima e priva del benché minimo consenso popolare, imposta dall’alto e per niente discussa con il territorio. I No Tav, nel frattempo, hanno allargato la loro base di sostenitori in tutta Italia e soprattutto prodotto documenti con il sostegno di importanti studiosi che dimostrano come il progetto dell’alta velocità sia oggettivamente assurdo e ingiustificato. Bersani, mesi fa, riassunse così la posizione del suo partito: Il PD è pronto a discutere con tutti, ma poi si fa come diciamo noi. Bell’esempio di democrazia.
Per noi il populismo è il principale avversario di una politica autenticamente popolare. In questi ultimi anni esso è stato alimentato da un liberismo finanziario che ha lasciato i ceti meno abbienti in balia di un mercato senza regole. La destra populista ha promesso una illusoria protezione dagli effetti del liberismo finanziario innalzando barriere culturali, territoriali e a volte xenofobe. Anche quando questo populismo ha pescato il suo consenso all’interno di un disagio diffuso e reale, il suo esito è sempre stato antipopolare.
La critica al liberismo finanziario è apprezzabile. Ma giova ricordare che il PD ha appena provato il Fiscal Compact, la più importante misura economica – di stampo liberista – varata dal Governo Monti che, di fatto, impone all’Italia manovre finanziarie da 45-50 miliardi di euro all’anno per i prossimi 20 anni. Dove verranno trovati quei soldi? La strada è stata segnata: riduzione dello stato sociale e privatizzazioni. Alla faccia dei beni comuni: più “finanza” di così si muore…
3. EUROPA
La crisi che scuote il mondo mette a rischio l’Europa e le sue conquiste di civiltà. Ma noi siamo l’Europa, nel senso che da lì viene la sola possibilità di affrancare l’Italia dai guasti del collasso liberista, e quindi le sorti dell’integrazione politica
coincidono largamente col nostro destino. Insomma non c’è futuro per l’Italia se non dentro la ripresa e il rilancio del progetto europeo. La prossima maggioranza dovrà avere ben chiara questa bussola: nulla senza l’Europa.
Per riuscirci agiremo in due direzioni. In primo luogo, rafforzando la piattaforma dei progressisti europei. Se l’austerità e l’equilibrio dei conti pubblici, pur necessari, diventano un dogma e un obiettivo in sé – senza alcuna attenzione per occupazione, investimenti, ricerca e formazione – finiscono per negare se stessi. Adesso c’è bisogno di correggere rotta, accelerando l’integrazione politica, economica e fiscale, vera condizione di una difesa dell’Euro e di una riorganizzazione del nostro modello sociale.
Ma il rigore dei conti pubblici chi l’ha votato, se non il PD, arrivando a imporre il Pareggio di Bilancio in Costituzione?
4. LAVORO
(…) La battaglia per la dignità e l’autonomia del lavoro, infatti, riguarda oggi il lavoratore precario come l’operaio sindacalizzato, il piccolo imprenditore o artigiano non meno dell’impiegato pubblico, il giovane professionista sottopagato al pari dell’insegnante o del ricercatore universitario.
Il primo passo da compiere è un ridisegno profondo del sistema fiscale che alleggerisca il peso sul lavoro e sull’impresa, attingendo alla rendita dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari. Quello successivo è contrastare la precarietà, rovesciando le scelte della destra nell’ultimo decennio e in particolare l’idea di una competitività al ribasso del nostro apparato produttivo, quasi che rimasti orfani della vecchia pratica che svalutava la moneta, la risposta potesse stare nella svalutazione e svalorizzazione del lavoro. Il terzo passo è spezzare la spirale perversa tra bassa produttività e compressione dei salari e dei diritti, aiutando le produzioni a competere sul lato della qualità e dell’innovazione, punti storicamente vulnerabili del nostro sistema.
Sulla prima parte nulla da obiettare. Non ci sono in Italia formazioni politiche che non considerino “classe subalterna” non solo gli operai, ma anche impiegati, piccoli artigiani, lavoratori precari di tutti i settori. Ma sulla seconda parte appare quantomeno scorretto dare la colpa dell’eccessiva precarizzazione ai governi di centro-destra: basta ricordare che il “pacchetto Treu” fu ideato in un governo di centro-sinistra e che negli ultimi 10 anni il Governo Prodi ha avuto le sue responsabilità. Per non parlare della già menzionata manomissione dell’articolo 18, o della “compressione dei diritti” voluta dal ministro Fornero e votata dal PD. La Fornero, per giunta, fu quella che qualche settimana fa dichiarò: “Il lavoro non è più un diritto”.
6. SAPERE
Abbiamo letto per intero questo capitolo, e a fianco alle parole scuola, istruzione o ricerca non compare mai l’aggettivo “pubblica“. Sarà una svista? Difficile che lo sia: intanto, mentre il PD denuncia lo scontento di un personale docenti sottopagato, parecchi presidenti di Provincia hanno lamentato la drammatica condizione in cui versano alcuni istituti, molti dei quali rischiano di non essere agibili in autunno: uno, recentemente, è statoAntonio Saitta (Partito Democratico), della provincia di Torino, che ha dichiarato: “Con i tagli previsti dalla spending review non siamo nelle condizioni di assicurare l’apertura dell’anno scolastico”. Okay, ma la spending review chi l’ha votata? Indovinate…
8. BENI COMUNI
La difesa dei beni comuni è la risposta che la politica deve a un bisogno di comunità che è tornato a manifestarsi anche tra noi. I referendum della primavera del 2011 ne sono stati un’espressione fondamentale. È tramontata l’idea che la privatizzazione e l’assenza di regole siano sempre e comunque la ricetta giusta.
Vorremmo credergli, ma i recenti fatti di Torino e Genova, i cui sindaci intendono vendere importanti quote azionarie delle società di trasporti ad aziende private, non rassicurano. Certo, si dirà: “A Torino venderemo il 49%, il restante 51 rimane in mano pubblica”, ma sullo strapotere dei privati, anche in minoranza, si è discusso abbondantemente anche l’anno scorso prima del Referendum ed è inutile ripetersi.
Intanto è utile sapere che il premier Monti ha dichiarato recentemente: “Non solo non escludiamo la cessione di quote dell’attivo del settore pubblico, ma la stiamo preparando come abbiamo già annunciato e presto seguiranno degli atti concreti: abbiamo predisposto dei veicoli, fondi immobiliari e mobiliari attraverso i quali convogliare in vista di cessioni attività mobiliari e immobiliari del settore pubblico, prevalentemente a livello regionale e comunale”. E in fondo è normale: hanno approvato il fiscal compact, devono per forza di cose fare cassa e devono svendere patrimonio pubblico. Abbiamo già spiegato che il PD ha votato favorevolmente a questo provvedimento.
Insomma, ancora una volta, l’ennesima, il partito Democratico sembra giocare con i cittadini. Con una mano ha scritto una carta di intenti apparentemente “di sinistra” – a partire dal richiamo ai Beni Comuni nel titolo; con l’altra mano negli ultimi mesi ha votato favorevolmente a tutte le misure di rigore e austerity del Governo Monti, contribuendo a cancellare decenni di conquiste sociali (si pensi all’articolo 18). Ma non solo: il patto tra moderati e progressisti non è minimamente in discussione. Ed è nota la posizione di Casini su diritti civili, mercato del lavoro e beni comuni…
La carta di intenti si apre con “L’Italia ce la farà se ce la faranno gli italiani. Se il paese che lavora, o che un lavoro lo cerca, che studia, che misura le spese, che dedica del tempo al bene comune, che osserva le regole e ha rispetto di sé, troverà un motivo di fiducia e di speranza”. Che è esattamente come dire che la pace è bella, la guerra è brutta, le margheritine profumano, l’acqua è bagnata. Ma vabbè, serviva un modo per introdurre i noccioli programmatici del patto tra “democratici e progressisti”.
Veniamo dunque alla traduzione per “comuni mortali” di “Italia. Bene comune”. Le parti scritte in corsivo sono stralci del documento originale redatto dagli strateghi del Partito democratico, a cui seguiranno alcuni chiarimenti fondati su dati oggettivi. Naturalmente procederemo per “stralci”, concentrandoci sui punti cruciali e ignorando quelli maggiormente “retorici” o discorsivi.
1. VISIONE
“Noi non crediamo all’ottimismo delle favole, quello venduto nel decennio disastroso della destra. Crediamo, invece, in un risveglio della fiducia e soprattutto nel futuro degli italiani, a cominciare dai più giovani e dalle donne. I problemi sono enormi e il tempo per aggredirli si accorcia. Le scelte da compiere non sono semplici né scontate”.
In realtà il PD e il PDL sostengono insieme, come è noto, il Governo Monti. I due partiti, apparentemente avversari, stanno di fatto governando insieme il Paese: hanno infatti votato a favore tutte le più significative misure approvate dal Governo. A titolo esemplificativo: il 30 novembre vi è stato il sì unanime della Camera in prima lettura al ddl costituzionale contenente il pareggio di bilancio in Costituzione approvato con 464 sì, nessun contrario e 6 astenuti. Il testo era già stato approvato unanimemente dal Senato con 255 sì nessun contrario e 14 astenuti. Ma PD e PDL si sono trovati d’accordo anche su tutti gli altri provvedimenti: dalla riforma del mercato del lavoro alla spending review, passando per la recentissima approvazione del fiscal compact. Tutte misure spacciate per “risolutive della crisi” che, tuttavia, hanno incrementato povertà e disoccupazione.
“La realtà è che mai come oggi nessuno si salva da solo. E nessuno può stare bene davvero, se gli altri continuano a stare male: è questo il principio a base del nostro progetto, sia nella sfera morale e civile che in quella economica e sociale.
Bello, bellissimo, se non fosse che il PD ha recentemente approvato la modifica dell’articolo 18, che di fatto facilita la libertà di licenziamento, anche in assenza di giusta causa. Giorgio Cremaschi spiegò i risvolti in un chiarissimo articolo, mentre il “rottamatore” Matteo Renzi, laconicamente, dichiarò: “Per usare un tecnicismo, a me dell’articolo 18 non me ne pò frega’ de meno”. E’ in questo modo che il PD intende appiattire il dislivello tra chi sta bene e chi sta male? Strano modo.
Vogliamo che il destino dell’Italia sia figlio della migliore civiltà dell’Europa e che insieme riscopriamo la necessità di sentirci vicino a chi nel mondo si batte per la libertà e l’emancipazione di ogni essere umano. Lo scriviamo nella coscienza che la grandezza e la tragedia del ‘900 in Europa si misurano in una sola parola: la pace. La conquista faticosa di un continente che, con la tragica eccezione dei Balcani, ha conosciuto nella seconda metà del secolo la sua riconciliazione”.
Anche qui, Bersani e soci non dicono che in realtà l’Italia è un Paese in guerra, che ha bombardato la Libia dell’ex amico Gheddafi e oggi sta bombardando l’Afghanistan, come rivelato a Il Giornale proprio da un pilota di Caccia. La pace a casa nostra è la guerra in casa di altri, con il suo contorno di vittime civili. Per non parlare dell’acquisto dei Caccia F-35, nei confronti del quale il PD ha talvolta, ma solo blandamente, levato qualche protesta.
2. DEMOCRAZIA
Dobbiamo sconfiggere l’ideologia della fine della politica e delle virtù prodigiose di un uomo solo al comando. E’ una strada che l’Italia ha già percorso, e sempre con esiti disastrosi. In democrazia ci sono due modi di concepire il potere. Usare il consenso per governare bene. Oppure usare il governo per aumentare il consenso. La prima è la via del riformismo. La seconda è la scorciatoia di tutti i populismi e si traduce in una paralisi della decisione.
Vero. Solo che possiamo prendere la Val di Susa come esempio di un’opera costosissima e priva del benché minimo consenso popolare, imposta dall’alto e per niente discussa con il territorio. I No Tav, nel frattempo, hanno allargato la loro base di sostenitori in tutta Italia e soprattutto prodotto documenti con il sostegno di importanti studiosi che dimostrano come il progetto dell’alta velocità sia oggettivamente assurdo e ingiustificato. Bersani, mesi fa, riassunse così la posizione del suo partito: Il PD è pronto a discutere con tutti, ma poi si fa come diciamo noi. Bell’esempio di democrazia.
Per noi il populismo è il principale avversario di una politica autenticamente popolare. In questi ultimi anni esso è stato alimentato da un liberismo finanziario che ha lasciato i ceti meno abbienti in balia di un mercato senza regole. La destra populista ha promesso una illusoria protezione dagli effetti del liberismo finanziario innalzando barriere culturali, territoriali e a volte xenofobe. Anche quando questo populismo ha pescato il suo consenso all’interno di un disagio diffuso e reale, il suo esito è sempre stato antipopolare.
La critica al liberismo finanziario è apprezzabile. Ma giova ricordare che il PD ha appena provato il Fiscal Compact, la più importante misura economica – di stampo liberista – varata dal Governo Monti che, di fatto, impone all’Italia manovre finanziarie da 45-50 miliardi di euro all’anno per i prossimi 20 anni. Dove verranno trovati quei soldi? La strada è stata segnata: riduzione dello stato sociale e privatizzazioni. Alla faccia dei beni comuni: più “finanza” di così si muore…
3. EUROPA
La crisi che scuote il mondo mette a rischio l’Europa e le sue conquiste di civiltà. Ma noi siamo l’Europa, nel senso che da lì viene la sola possibilità di affrancare l’Italia dai guasti del collasso liberista, e quindi le sorti dell’integrazione politica
coincidono largamente col nostro destino. Insomma non c’è futuro per l’Italia se non dentro la ripresa e il rilancio del progetto europeo. La prossima maggioranza dovrà avere ben chiara questa bussola: nulla senza l’Europa.
Per riuscirci agiremo in due direzioni. In primo luogo, rafforzando la piattaforma dei progressisti europei. Se l’austerità e l’equilibrio dei conti pubblici, pur necessari, diventano un dogma e un obiettivo in sé – senza alcuna attenzione per occupazione, investimenti, ricerca e formazione – finiscono per negare se stessi. Adesso c’è bisogno di correggere rotta, accelerando l’integrazione politica, economica e fiscale, vera condizione di una difesa dell’Euro e di una riorganizzazione del nostro modello sociale.
Ma il rigore dei conti pubblici chi l’ha votato, se non il PD, arrivando a imporre il Pareggio di Bilancio in Costituzione?
4. LAVORO
(…) La battaglia per la dignità e l’autonomia del lavoro, infatti, riguarda oggi il lavoratore precario come l’operaio sindacalizzato, il piccolo imprenditore o artigiano non meno dell’impiegato pubblico, il giovane professionista sottopagato al pari dell’insegnante o del ricercatore universitario.
Il primo passo da compiere è un ridisegno profondo del sistema fiscale che alleggerisca il peso sul lavoro e sull’impresa, attingendo alla rendita dei grandi patrimoni finanziari e immobiliari. Quello successivo è contrastare la precarietà, rovesciando le scelte della destra nell’ultimo decennio e in particolare l’idea di una competitività al ribasso del nostro apparato produttivo, quasi che rimasti orfani della vecchia pratica che svalutava la moneta, la risposta potesse stare nella svalutazione e svalorizzazione del lavoro. Il terzo passo è spezzare la spirale perversa tra bassa produttività e compressione dei salari e dei diritti, aiutando le produzioni a competere sul lato della qualità e dell’innovazione, punti storicamente vulnerabili del nostro sistema.
Sulla prima parte nulla da obiettare. Non ci sono in Italia formazioni politiche che non considerino “classe subalterna” non solo gli operai, ma anche impiegati, piccoli artigiani, lavoratori precari di tutti i settori. Ma sulla seconda parte appare quantomeno scorretto dare la colpa dell’eccessiva precarizzazione ai governi di centro-destra: basta ricordare che il “pacchetto Treu” fu ideato in un governo di centro-sinistra e che negli ultimi 10 anni il Governo Prodi ha avuto le sue responsabilità. Per non parlare della già menzionata manomissione dell’articolo 18, o della “compressione dei diritti” voluta dal ministro Fornero e votata dal PD. La Fornero, per giunta, fu quella che qualche settimana fa dichiarò: “Il lavoro non è più un diritto”.
6. SAPERE
Abbiamo letto per intero questo capitolo, e a fianco alle parole scuola, istruzione o ricerca non compare mai l’aggettivo “pubblica“. Sarà una svista? Difficile che lo sia: intanto, mentre il PD denuncia lo scontento di un personale docenti sottopagato, parecchi presidenti di Provincia hanno lamentato la drammatica condizione in cui versano alcuni istituti, molti dei quali rischiano di non essere agibili in autunno: uno, recentemente, è statoAntonio Saitta (Partito Democratico), della provincia di Torino, che ha dichiarato: “Con i tagli previsti dalla spending review non siamo nelle condizioni di assicurare l’apertura dell’anno scolastico”. Okay, ma la spending review chi l’ha votata? Indovinate…
8. BENI COMUNI
La difesa dei beni comuni è la risposta che la politica deve a un bisogno di comunità che è tornato a manifestarsi anche tra noi. I referendum della primavera del 2011 ne sono stati un’espressione fondamentale. È tramontata l’idea che la privatizzazione e l’assenza di regole siano sempre e comunque la ricetta giusta.
Vorremmo credergli, ma i recenti fatti di Torino e Genova, i cui sindaci intendono vendere importanti quote azionarie delle società di trasporti ad aziende private, non rassicurano. Certo, si dirà: “A Torino venderemo il 49%, il restante 51 rimane in mano pubblica”, ma sullo strapotere dei privati, anche in minoranza, si è discusso abbondantemente anche l’anno scorso prima del Referendum ed è inutile ripetersi.
Intanto è utile sapere che il premier Monti ha dichiarato recentemente: “Non solo non escludiamo la cessione di quote dell’attivo del settore pubblico, ma la stiamo preparando come abbiamo già annunciato e presto seguiranno degli atti concreti: abbiamo predisposto dei veicoli, fondi immobiliari e mobiliari attraverso i quali convogliare in vista di cessioni attività mobiliari e immobiliari del settore pubblico, prevalentemente a livello regionale e comunale”. E in fondo è normale: hanno approvato il fiscal compact, devono per forza di cose fare cassa e devono svendere patrimonio pubblico. Abbiamo già spiegato che il PD ha votato favorevolmente a questo provvedimento.
Insomma, ancora una volta, l’ennesima, il partito Democratico sembra giocare con i cittadini. Con una mano ha scritto una carta di intenti apparentemente “di sinistra” – a partire dal richiamo ai Beni Comuni nel titolo; con l’altra mano negli ultimi mesi ha votato favorevolmente a tutte le misure di rigore e austerity del Governo Monti, contribuendo a cancellare decenni di conquiste sociali (si pensi all’articolo 18). Ma non solo: il patto tra moderati e progressisti non è minimamente in discussione. Ed è nota la posizione di Casini su diritti civili, mercato del lavoro e beni comuni…
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