martedì 13 gennaio 2015

Crisi globale e lotta di classe in Europa. Intervista alla redazione di «Cuneo Rosso»

giICUL00011220081017Nell’intervista che qui proponiamo, un redattore de «Il Cuneo Rosso» ci espone i contenuti del secondo numero della rivista dedicato a Crisi globale e lotta di classe in Europae caratterizzato da un’ampiezza di sguardo e da uno sforzo analitico che hanno pochi termini di paragone in Italia. Ovviamente, come si evince anche dalle risposte ai nostri quesiti, le singole conclusioni cui sono giunti i compagni de “il cuneo rosso” possono suscitare discussioni anche accese. Si pensi, ad esempio, all’aspra critica che viene riservata alle campagne per il recupero della sovranità monetaria, che però viene sviluppata su un piano coerentemente classista, distante anni lue da certo europeismo “progressista”. Per non dire delle drastiche valutazioni sullo stato del proletariato a livello continentale, che si prestano ad approfondimenti e disamine, da svolgersi possibilmente in occasione di presentazioni della rivista.
Questo secondo numero de «Il Cuneo Rosso», dedicato allo scontro di classe in Europa e in Italia nella crisi globale, viene dopo un primo incentrato sull’Intifada araba. Qual è, secondo voi, il nesso tra i due temi?
Il nesso fortissimo è quello della grande crisi capitalistica esplosa nel 2007-2008, e tuttora irrisolta. Che è stata, è una crisi globale, storica del capitalismo, la prima grande crisi del capitalismo compiutamente globalizzato. Nel n. 1 della rivista abbiamo inquadrato e salutato la grande Intifada araba del 2011-2012 come il primo segno di una riscossa planetaria degli sfruttati “comandata” dallo scoppio della crisi, ed è ancora la crisi capitalistica la grande “regista” degli avvenimenti europei degli ultimi anni. Sulla sua portata, e le sue conseguenze in tutti i campi, non c’è ancora, crediamo, una adeguata attenzione da parte dei militanti anti-capitalisti, siano essi comunisti o anarchici.
In termini generali, qual è la vostra lettura delle cause della crisi?
A sinistra, spesso anche all’estrema sinistra, dominano spiegazioni della crisi superficiali e perfino mistificanti che ne individuano le cause nelle politiche economiche degli stati, nell’abnorme sviluppo della speculazione finanziaria, nella esasperazione delle disuguaglianze sociali. Queste spiegazioni hanno il difetto radicale di puntare l’indice, nel migliore dei casi, sugli effetti della crisi scambiandoli per le cause, e finiscono quasi sempre nella invocazione di una nuova politica economica “espansiva” per uscire dal tunnel. Invece è solo entrando nel laboratorio segreto della produzione (come lo chiama Marx), della produzione di valore, della produzione di plusvalore, che si può afferrare la causa ultima dell’attuale caos dell’economia mondiale. E questa causa è, ancora una volta, l’insufficiente profittabilità del capitale, la crescente difficoltà del capitale globale a far progredire la propria profittabilità.
Sembra incredibile (se non si fa mente locale su cosa è il capitalismo), ma è vero: nell’era neo-liberista si è verificato un inaudito allargamento dell’accumulazione capitalistica su scala mondiale, gli addetti all’industria – solo per restare all’industria – si sono quasi triplicati arrivando a più di 600 milioni; il saggio di profitto è risalito dal 1982, quando aveva toccato il minimo dal 1945, fino al 1997 (senza tuttavia raggiungere i picchi dei primi venti anni del dopoguerra); ma dal 1997 in poi questa risalita si è scontrata con una serie di ostacoli sempre più coriacei, per cui la profittabilità del capitale non è riuscita a salire ulteriormente, anzi ha preso a stagnare o in tendenza a scendere, seppur di poco. E questo, nonostante il supersfruttamento del lavoro in Cina e nei “nuovi” capitalismi; nonostante un indebitamento generale, degli stati, delle imprese, delle famiglie dei proletari, semplicemente stratosferico; nonostante il doping delle guerre scatenate da Stati Uniti e dalla Europa (Jugoslavia, Iraq, Afghanistan, etc.); nonostante un’aggressione alla natura senza precedenti; nonostante le contro-riforme del mercato del lavoro, la precarizzazione strutturale e l’intensificazione dello sfruttamento del lavoro avvenute in tutto l’Occidente. Nonostante ciò, non è poco!, la profittabilità del capitale è risultata insufficiente perché il capitale, a seguito dell’ultima rivoluzione tecnica e organizzativa, fortissima risparmiatrice di lavoro vivo, deve cavare profitti crescenti da un quantità di lavoro vivo che è relativamente sempre più ridotta rispetto al lavoro morto (macchine, materie prime, etc.) che muove o controlla. E’ sempre qui, anzi: più che mai qui, in questo rapporto tra il lavoro vivo e il lavoro morto, il centro di tutto il processo dell’accumulazione di capitale, del suo sviluppo come della sua crisi. E anche la spettacolare crescita del capitale fittizio che è avvenuta negli ultimi decenni, specie a ridosso dell’esplosione della crisi, è l’effetto della crescente difficoltà dei capitali globali a valorizzarsi in modo adeguato dentro il processo produttivo, ha espresso ed esprime – all’ennesima potenza – la tendenza ritornante del capitale a cercare una illusoria valorizzazione fuori dalla produzione, o a lanciarsi a capofitto nella corsa ad ipotecare i profitti futuri.
Ma voi stessi riconoscete che nel quarantennio “neo-liberista” il capitale ha accumulato su scala mondiale una massa di profitti impressionante…
Certo! Ma il fatto è che al capitale, ai capitalisti interessa molto la massa dei profitti realizzati, ma gli interessa ancora di più la misura della valorizzazione del capitale “anticipato”, il saggio del profitto. E non accetta/no di lucrare un profitto qualsiasi: è/sono alla spasmodica ricerca di un profitto, di un plusvalore senza limiti, in quantità sempre crescenti e, soprattutto, in progressione continua. Per questo i dieci anni dal 1997 al 2007 sono stati segnati da una serie di furiosi tentativi per sbloccare l’impasse e ripartire alla grande. L’insolvenza di alcuni milioni di famiglie povere statunitensi, da un lato, le lotte per gli incrementi salariali di molti milioni di operaie e operai cinesi e asiatici dall’altro, hanno portato alla luce l’insostenibilità sociale delle ulteriori forzature per far risalire la profittabilità del capitale, l’antagonismo di fondo tra le forze produttive impiegate dal capitale e i rapporti di produzione capitalistici. E si è innescata così una serie di effetti a catena, che sono ben lungi dall’essere finiti. La crisi, che ha avuto e continua ad avere il suo epicentro nel centro di comando dell’accumulazione globale, Stati Uniti/Europa occidentale/Giappone, sta coinvolgendo via via anche i cosiddetti Brics, e ha già portato alcuni di essi (Russia, Brasile) alla recessione e alla stagnazione, altri (Cina, India) ad un netto rallentamento del loro sviluppo.
Naturalmente l’identificazione della causa di fondo, ultima dell’attuale crisi, non chiude il discorso. Bisogna cercare di comprendere le caratteristiche specifiche di questa crisi. Ed è per questo che abbiamo dato particolare attenzione alla crescita del debito di stato e al processo di generale indebitamento verificatosi negli ultimi 40 anni, all’impoverimento dei lavoratori, all’impatto disuguale della crisi nelle tre diverse Europa (Nord, Sud, Est) di cui si compone e in cui si scompone l’Europa, con analisi specifiche sulla Germania, l’Italia, la Grecia, la Spagna, il Portogallo e i paesi dell’Est.
Da questa nostra lettura della crisi deriva che, lungi dal poter scegliere la strada di un allentamento della cd. “austerità”, e cioè dei brutali sacrifici imposti ai proletari con e senza lavoro, anche in Italia e in Europa, la sola via d’uscita che i capitali e i capitalisti nazionali e globali stanno battendo e continueranno a battere sarà quella della ulteriore intensificazione dello sfruttamento del lavoro, della ulteriore svalorizzazione generale del lavoro, e di un accresciuto controllo repressivo su di esso. Abbiamo anche provato a guardare cosa ci si sta preparando in alcuni dei loro laboratori-Frankestein…
Nella rivista fate riferimento a una sorta di multidimensionalità della crisi, ben oltre il solo dato economico…
Hai colto un aspetto essenziale della nostra analisi. Una delle “particolarità” di questa crisi è, infatti, nel suo intreccio con una crisi ecologica e una crisi politica entrambe di grandissima portata.
La crisi ecologica: mai come negli ultimi due decenni, con i grossi cambiamenti climatici e i connessi disastri, con le ripetute crisi alimentari in Africa, con la corsa alla produzione di “bio-carburanti” (o necro-carburanti, come li chiamano in America Latina), con la accelerata trasformazione capitalistica (e neo-colonialista) della agricoltura nei continenti “di colore”, con l’espansione rapida del land grabbing, con l’avvento del devastante metodo del fracking nell’estrazione di gas e petrolio, è stato evidente che il saccheggio capitalistico delle risorse naturali, parallelo e combinato con quello del lavoro vivo, è arrivato ad un punto tale da intaccare in profondità tanto l’ecosistema globale quanto gli ecosistemi locali e la loro riproduzione, provocando al contempo un esodo forzato dalle campagne di estensione senza precedenti e la distruzione dell’agricoltura contadina (come denunciato ad Agadir nello scorso marzo da Via Campesina).
La congiunzione tra crisi economica e crisi ecologica è resa più esplosiva dal progressivo logoramento della egemonia yankeuropea sul mondo. L’ultimo secolo si è svolto interamente sotto il segno di tale egemonia. Gli Stati Uniti sono stati il motore dell’innovazione tecnologica/organizzativa e dell’accumulazione su scala mondiale, il centro di comando della finanza e della speculazione finanziaria mondiale, la fucina dei pensieri da pensare, il gendarme onnipresente dell’ordine capitalistico mondiale. Specie dopo il collasso dell’Urss e dei regimi del “socialismo reale”, questa funzione egemonica del blocco Usa/Europa occidentale/Giappone (pur percorso da tanti conflitti) sembrava rilanciata per un lunghissimo periodo. Ed invece mai come ora essa è traballante e contestata nel mondo, e anche, seppur più timidamente, all’interno degli Stati Uniti – vedi le giornate di Seattle da cui è nato il movimento “no global”, il formidabile sciopero nazionale degli immigrati del 1° maggio 2006 (che curiosamente nessuno ricorda), Occupy Wall Street, le recenti proteste di piazza inter-razziali contro i delitti a sfondo razziale della polizia, la People’s Climate March del 21 settembre scorso.
Il logoramento dell’egemonia yankeuropea sul mondo apre una crisi politica profondamente destabilizzante per due ragioni. La prima è che per quanto non pianificato e non pianificabile sia, il capitalismo si è diffuso nel mondo con l’apporto determinante di alcuni poteri statali che hanno svolto in tale diffusione una funzione “guida”. E questa funzione è divenuta nel tempo sempre più importante a misura che le contraddizioni ineliminabili del modo di produzione capitalistico si sono, con la sua senilità, acuite. La seconda è che, posti davanti al proprio evidente declino di unica potenza globale, gli Stati Uniti e l’Europa stanno mettendo in atto una serie di violente reazioni dagli effetti ulteriormente destabilizzanti, in particolare proprio su quei paesi capitalistici ascendenti (Russia, Brasile, India, Cina, etc.) a cui si chiede, d’altra parte, di svolgere un ruolo fondamentale nel portare l’economia mondiale fuori dall’attuale incasinamento.
In questo modo crisi economica, crisi ecologica e crisi dell’ordine internazionale si alimentano a vicenda, e non è certo un caso che si sia tornati a parlare di “guerra fredda”, specie tra Usa e Russia, che non è più così fredda, come mostrano gli avvenimenti ucraini, nei quali è palese la manomissione del paese da parte di Stati Uniti ed Europa.
Alla luce della vostra analisi, come giudicate le proposte di chi – muovendo dall’idea che la crisi non colpisca in modo omogeneo tutti i paesi europei – propone alleanze fra gli stati più colpiti, ritenendo centrale il recupero della sovranità nazionale e, addirittura, monetaria?
Beh, se si tratta di Marine Le Pen o di Salvini o di Grillo, le giudichiamo scontate. I capitali francesi di minore tacca che si sentono penalizzati dalla Germania (in Francia per ora i grandi gruppi industriali e le banche non sostengono apertamente il FN), i sciur Brambilla italiani che si sentono penalizzati dall’euro per il fatto di non poter più svalutare i salari operai, cercano una illusoria via d’uscita dalle proprie difficoltà – che sono dovute essenzialmente non all’euro o alla Germania, ma alla crisi economica globale, alla mondializzazione della concorrenza, e alla loro pidocchiosa micro-taglia – attraverso un fronte anti-tedesco e anti-immigrati. Nulla di particolarmente nuovo in tutto ciò. Sono varianti della politica capitalistica esiziali per i proletari che si propongono di approfondire il solco tra proletari autoctoni e proletari immigrati, e tra i proletari di tante nazionalità che sono sul suolo tedesco e i proletari degli altri paesi europei, a tutto e solo vantaggio del proprio capitalismo nazionale. Le Pen, Salvini, Grillo e simili sono nemici di classe da combattere senza nessuno sconto, nessun suicida calcolo “tattico” sul fatto che, non volendo, possano fare il nostro gioco. Da combattere, si capisce, non invocando i fronti anti-fascisti o anti-razzisti con i “democratici”, o confidando su leggi e misure statali punitive del fascismo e del razzismo, ma contendendo loro attivamente sul campo i settori sociali più marginali, più disgregati, più disperati, più disorientati del proletariato (in certi casi anche piccoli settori di immigrati) su cui la loro demagogia ha presa.
Ma la proposta di uscire dall’euro non viene soltanto da destra…
Vero, purtroppo!
Alcuni gruppi di sinistra, anche “radicale”, credono di aver trovato la soluzione di tutti i problemi dei lavoratori di paesi come Spagna, Portogallo, Grecia, Italia, nella uscita volontaria dall’euro, che infatti sta facendo sempre più proseliti. Di questa proposta, e della logica che l’ha generata, crediamo vada fatta una critica dal punto di vista degli interessi di classe.
Alla sua base c’è un’analisi completamente falsante della crisi, che non è stata, e non è, una crisi monetaria, bensì una crisi della produzione di profitti, con ovvii riflessi (anche) in campo monetario. Non si vede quindi come una misura monetaria possa essere risolutiva per superare una crisi che monetaria non è stata e non è. Ma la “soluzione” proposta è ancor peggio dell’analisi, e si condensa in questo: passare dall’euro ad una serie di monete nazionali di minor valore, con una svalutazione secca della nuova moneta sull’euro, che significherebbe anzitutto una valutazione secca dei salari (in qualche caso si ipotizza anche del 50!), per cercare in questo modo, abbattendo cioè i costi di produzione, di riconquistare spazi di mercato alle singole economie nazionali e, di conseguenza (!?), migliorare la condizione di vita dei proletari dei paesi tornati alle belle, vecchie monete di un tempo. Per quanto si voglia combinare e aromatizzare questa prospettiva con una serie di misure sociali pro-lavoratori, la sua sostanza di classe non muta: gira e rigira ciò che si prospetta è un diverso contesto di competizione capitalistica sul mercato mondiale tra nazioni e tra proletari, presuntamente più favorevole a questi ultimi.
Per noi l’alternativa tra “morire per l’euro e il Fiscal Compact”, proposta dagli squallidi Renzi di tutta Europa, galoppini delle banche e del grande capitale, e “sfasciare l’euro per tornare alle monete nazionali”, da chiunque proposta, è una alternativa falsa, da respingere. E’ l’alternativa tra la padella e la brace, tra l’essere alla coda dei grandi capitalisti o l’essere alla coda dei piccoli accumulatori, e nell’uno come nell’altro caso a rimetterci la pelle sono i proletari di tutte le condizioni e generazioni. Ciò di cui abbiamo bisogno, invece, è un immenso sforzo collettivo, combinato, internazionalista per combattere insieme la Troika e i nostri governi, i padroni dell’euro e dei debiti di stato che ci stanno soffocando con le regole strangolatorie del Fiscal Compact e delle controriforme. Combatterli insieme anche agli sfruttati del Sud del mondo, a iniziare da quelli arabi e africani, che sono schiacciati dall’imperialismo europeo e dai suoi sgherri locali. Questa è la nostra prospettiva, la prospettiva di classe, per difficile che sia metterla in atto.
La tematica della “sovranità monetaria”, infine, ci fa francamente sorridere. Prima del 1999 era forse sovrana la lira nei confronti del marco o del dollaro, o lo erano forse prima di accedere all’euro la dracma greca o la peseta spagnola? Stiamo scherzando? Non lo erano affatto in tempi di globalizzazione meno spinta di oggi, figurarsi oggi, con una concentrazione-centralizzazione del capitale finanziario che ha avuto – nell’era neo-liberista – un formidabile balzo in avanti.
Anche voi, però, prospettate un’ipotesi che può far discutere: quella di espulsione dall’euro per un paese che non voglia accettare il Fiscal Compact e le regole della Troika…
Sarebbe tutt’altra storia! Ed è un’ipotesi che potrebbe, forse, non essere lontana per la Grecia, se davvero Syriza dovesse andare al governo, e se in Grecia il movimento proletario e popolare fosse così forte da imporre a Tsipras delle misure di politica economica e sociale ritenute inaccettabili dai poteri forti che dettano legge in Europa. Intendiamoci: da anni vediamo la direzione di Syriza spostarsi progressivamente su posizioni sempre più moderate, verso un governo di coalizione con il centro, e sfumare sempre di più le iniziali posizioni conflittuali verso la Troika. Ma non si possono fare i conti senza l’oste. E se da un lato è in atto una campagna terroristica da parte delle forze grandi-borghesi greche ed europee contro l’avvento di un governo Tsipras, dall’altro lato è possibile che, intensificandosi lo scontro di classe, il movimento dei lavoratori e dei giovani, ritrovando il protagonismo in parte appannatosi negli ultimi tempi, faccia valere nei confronti del nuovo governo, o di un successivo governo più di sinistra, le proprie aspettative spingendolo (anche per effetto dell’azione della minoranza interna a Syriza, più radicale rispetto a Tsipras) a decisioni non programmate in materia di salari, di ripristino dei diritti dei lavoratori, di moratoria immediata del pagamento del debito (in vista del suo annullamento), di nazionalizzazioni sotto il controllo dei lavoratori, di misure fiscali di tipo fortemente progressivo, etc. Ed è prevedibile che da questa eventuale doppia radicalizzazione i poteri forti europei, a cominciare dalla BCE di Draghi, sarebbero portati a un diktat stringente: o fate subito tutto quello che vi ordiniamo, o andate fuori dall’euro. Il rifiuto di questo diktat anche a costo di essere cacciati dall’euro avrebbe un chiaro segno di classe (di “sovranità proletaria”, se proprio si vuole usare questo termine) tanto quanto l’eventuale decisione della Troika di cacciare la Grecia ribelle dall’euro. E la resistenza alle conseguenze di questa espulsione, in Grecia e altrove, unita ad un appello alla solidarietà dei lavoratori degli altri paesi che sono già sottoposti, o sono vicini, a simili diktat, assumerebbe una valenza realmente internazionalista, anti-capitalista, proprio quella che viene proclamata, ma è nello stesso tempo assente, in tutte le varianti di sinistra dell’uscita volontaria dall’euro per tornare alle vecchie monete o fondare una nuova moneta, competitiva, di area.
Uno dei motivi per cui le ipotesi di uscita volontaria dall’euro si stanno affermando è che ad esse non sembra opporsi un’alternativa valida: la parola d’ordine dell’unità dei proletari su scala continentale, allo stato, pare piuttosto retorica e astratta…
E’ così, non c’è dubbio.
E non ci nascondiamo affatto che lo stato attuale della classe in Europa è – all’immediato – drammatico, per la sua mancanza di autonomia politica e ideologica dalle forze e dalle tematiche borghesi. Abbiamo alle spalle 40 anni di ininterrotti attacchi capitalistici che hanno lasciato il segno, prima con la nazionalizzazione e poi con l’aziendalizzazione dell’organizzazione e della mentalità dei lavoratori, su cui si è innestata nell’ultimo ventennio la disgregatrice logica individualistica del “ciascuno per sé”, una logica favorita dal riflusso delle lotte e dall’enorme disoccupazione. Il vecchio movimento operaio è al suo pressoché completo disfacimento e in certo senso il movimento proletario è obbligato a ripartire da zero. La risalita da questo baratro non sarà facile, e neppure breve. Dobbiamo accettarlo. Non ci sono scorciatoie.
Noi abbiamo però una grande fiducia nella oggettività dei processi sociali. Andiamo verso un’intensificazione dello scontro di classe in Europa e nel mondo proprio perché la grande crisi non è risolta, su questo non c’è il minimo dubbio. E l’unico modo di cui dispongono i poteri globali per risolverla è un attacco ancor più brutale ai lavoratori, alla natura, e uno scatenamento dei conflitti inter-capitalistici. Da qui non si scappa. Ai proletari europei, come già a quelli arabi, con tutte le differenze del caso, non resterà che sollevarsi a milioni e con forza contro i padroni e i propri governi, a meno di accettare un destino di impoverimento, di autentica schiavizzazione del lavoro, di repressione da tempi di guerra (vedi la Ley mordaza del governo Rajoy in Spagna e le nuove misure repressive prese pressoché ovunque contro immigrati, richiedenti asilo e rom). E in questa sollevazione, per noi comunisti, sarà ben più efficace di oggi (quando appare astratto) mettere avanti ciò che unisce tra loro i proletari tedeschi e greci, italiani e britannici, jugoslavi e spagnoli, immigrati e autoctoni, e ciò che li unisce ai proletari del resto dell’Occidente, alle prese con analoghi attacchi capitalistici, e ai proletari del Sud del mondo che sempre meno accettano di essere trattati da paria, e le cui lotte infondono coraggio.
Ad oggi, questa sollevazione non appare imminente, e forse neppure vicina, per quanto a nessuno è dato divinare i tempi degli avvenimenti storici. Ma c’è un altro dato oggettivo fondamentale che gioca per noi, sempre a condizione – si capisce – che noi comunisti giochiamo la nostra partita: il crescente discredito e la crescente delegittimazione della classe dominante che ci ha precipitato in questo caos, e non sa come uscirne, il crescente rifiuto di massa, anche in strati sociali non proletari, dei suoi super-privilegi, della sua distanza siderale dalla vita della comune umanità lavoratrice, della sua incompetenza, della sua corruzione. Una volta tolto di mezzo il campo (fintamente) socialista, una volta scomparsi o assassinati i piccoli/grandi “demoni” Khomeini, Saddam, Milosevic, Gheddafi, Bin Laden, Chavez, etc., i super-capitalisti globali e i loro funzionari al governo, restati i padroni assoluti del globo, esibiscono al mondo da loro “liberato” un immane disastro di cui portano per intero la responsabilità. E di cui dovranno rendere conto!
Stante questo quadro complessivo, ci sono però episodi conflittuali da cui partire per rifondare un’opzione anticapitalistica?
Risposta: Negli ultimi anni le lotte non sono mancate del tutto né in Italia, né in altri paesi europei, inclusa la Germania e i disastrati paesi dell’Est. Nella rivista richiamiamo le lotte più significative. Ma sono state fino ad oggi molto inferiori alle necessità dello scontro e sono rimaste quasi sempre non comunicanti, isolate le une dalle altre. Qualche compagno direttamente impegnato in singole lotte (come anche noi siamo) potrà trovare forse “pessimistico” il quadro che facciamo all’oggi, ma, se ci limitiamo all’Italia, anche lo sciopero generale ultimo non ha dato una vera e propria scossa alla situazione; anche dopo di esso sulla rabbia e sulla volontà di lottare a fondo contro Renzi&Co. a prevalere, sui posti di lavoro e nella marea dei precari, sono ancora la paura e, soprattutto, la sfiducia nella possibilità di ribaltare gli attuali rapporti di forza con il padronato e il governo.
Non c’è solo un deficit di quantità e di energia delle lotte; c’è anche un pesante silenzio di teoria, un deficit di autonomia dei proletari dal pensiero dominante, a cominciare dalla stessa analisi delle cause della crisi, per non parlare delle soluzioni, della soluzione rivoluzionaria alternativa. C’è un profondo disorientamento ideologico. Il futuro, il futuro nostro, del socialismo, del comunismo, è al momento praticamente assente.
La guerra di classe in Europa è ancora oggi condotta più dall’alto, dalla classe sfruttatrice, che dal basso, dal proletariato. Ma è proprio l’attacco capitalistico ad indicare i terreni obbligati dello scontro e della ripresa dell’iniziativa di classe. Ci occupiamo ampiamente di questo: da dove si riparte dopo 40 anni di attacchi capitalistici. Il come chiediamo ai lettori di questa intervista di scoprirlo da sé leggendo questo nuovo numero de «Il Cuneo Rosso»… richiedetelo a com.internazionalista@gmail.com

1 commento:

  1. Percorrerei la strada spianata da Tsipras – in attesa di tempi più favorevoli. # Il Consumismo – frutto ed alimento del Capitalismo Selvaggio – sarebbe da abbandonare. # Vivere con poco e mettere in ginocchio il Capitalismo e rifiutare nettamente il suo Squallido Consumismo, mi sembra l’unica arma di cui al momento disponiamo. # Abbiamo il coraggio di vivere con poco – affinché tutti possano vivere con poco? # Abbiamo il coraggio di mettere a disposizione per la comunità, il nostro conto in banca? – anche se ci è costato lacrime e sangue? # Questo coraggio l’avrei…. Se non l’abbiamo, di cosa parliamo?

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