Dal giugno scorso, e fino al prossimo dicembre, è attiva la
campagna per la raccolta di 50 mila firme per una proposta di legge di
iniziativa popolare che introduca il reddito minimo garantito in Italia,
unico Paese nell'attuale Unione europea, insieme con la Grecia, a non
prevedere una qualche forma di garanzia di un reddito di base.
Dal 15 al 21 ottobre si terrà una settimana dedicata a questo tema,
per tutti coloro che partecipano o vogliono partecipare alla campagna e
alla raccolta firme. Sono previsti concerti, dibattiti, spettacoli
teatrali, volantinaggi, reading, presentazioni di libri, seminari, dance
hall, cineforum, performance e quant’altro possa essere utile a
comunicare, approfondire, rendere visibile il tema del reddito garantito
nei mercati rionali, nelle sedi delle associazioni, nelle piazze delle
città, librerie, centri sociali, fuori i supermercati, i posti di
lavoro, le università, i luoghi di ritrovo. Abbiamo intervistato Sandro
Gobetti, coordinatore di Bin Italia (Basic Incom Network).
Finalmente sul reddito minimo c’è qualcosa di concreto
La settimana è all’interno della campagna iniziata a giugno del 2012
con una proposta di iniziativa popolare di legge e che prevede
cinquantamila firme entro dicembre. Una iniziativa alla quale hanno
aderito tantissime realtà dagli studenti ai precari, lavoratori autonomi
e realtà dell’economia solidale. Anche partiti e sedi locali di Prc,
Pdci, Sel. Ed inoltre hanno aderito anche tantissime personalità,
intellettuali e uomini politici anche del Pd come Sergio Cofferati e
Francesca Balzani. C’è anche una significativa presenza di sindaci.
Sul reddito minimo garantito c’è stato da anni un dibattito molto articolato. Ci sono stati dei progressi?
Il dibattito è ricco e pieno di iniziative. Non c’è una univocità ma
questa è una ricchezza per noi. Alcuni approcciano ad un reddito per
tutti mentre altri puntano al reddito minimo garantito di ispirazione
europea e quindi dentro al modello sociale europeo. Questa campagna non
entra nel merito del dibattito ma mira alla proposta di legge che
prevede una serie di articoli sulla costituzione di un minimo garantito
di 600 euro al mese per tutti coloro che sono sotto la soglia degli
ottomila euro all’anno. Poi ci sono le misure di reddito indiretto,
dalla sanità alla casa ai trasporti.
Quindi andiamo oltre una concezione prettamente lavorista…
La precarietà non è più un concetto lavoratistico ma è entrata nella
società. La catena stessa della solidarietà famigliare che prima agiva
da ammortizzatore sociale si è spezzata a causa della crisi. Questo deve
portaci a qualche riflessione in più sulle modificazioni sociali macro
che produce. Partiamo dal concetto di “Denizen”, ovvero un cittadino
ormai anche senza cittadinanza. E’ questo quello che la crisi sta
producendo. Quindi occorre creare una forma di garanzia di base che però
rappresenta un avanzamento sul piano dei diritti. Se un cittadino
italiano che si trova in Irlanda ha diritto ad alcune garanzie non
accade però il contrario. Ovvero non c’è il principio di reciprocità.
L’Italia è un paese di serie B e lo spread dei diritti è ancora più
evidente. Il punto qualificante della proposta di legge di iniziativa
popolare è la residenza e non una qualche forma di nazionalità.
E’ la solita Europa a metà che piace così tanto ai vari governi italiani, tecnici e non.
Al centro c’è l’autonomia reale degli individui. Non a caso siamo gli
ultimi nella classifica europea. La proposta di legge che fa parte di
questa campagna prevede anche alcune cose altrettanto interessanti come
un salario orario minimo. Questo è in relazione naturalmente con la
condizione dei precari. Questa legge risponde in qualche modo anche alla
riforma di Fornero perché prevede un susssidio di disoccupazione per i
precari. Terza questione è che questa proposta di legge riformula alcune
competenze nel definire il carattere nazionale di applicazione della
legge invitando le Regioni italiane ad intervenire o aumentando
l’importo dell’assegno per casi particolari oppure in settori come la
scuola e l a sanità. Un modello “welfaristico” nuovo in cui attorno al
reddito garantito si sviluppano altri diritti sociali.
Il percorso è lungo…
C’è da lavorare molto perché in Italia siamo davvero indietro. Le
Regioni italiane hanno cercato di individuare delle formule, ma il dato
rimane quello di un paese indietro di anni. Chi perde lavoro è
sostanzialmente abbandonato a se stesso. Da qui a qualche anno avremo
non la semplice povertà ma la povertà estrema e l’emarginazione. Il tema
deve far parte dell’agenda politica nazionale. I primi richiami della
commissione europea sono del ’92. E poi vorrei ricordare che i soggetti
ricattati sono quelli che più si allontanano dalle istituzioni. E questo
mette in grave crisi l’assetto sociale e il funzionamento della
democrazia.
Come siete arrivati a maturare questo passaggio politico della proposta di legge?
Non c’era tempo per elaborare attraverso i social forum. Si è seguito
il metodo delle adesioni diffuse. Il risultato è quello di una rete di
esperienze molto diffusa nei territori. Tante persone parlano con le
altre persone. Si sta determinando una forte discussione nel paese che
esce un po dai canoni classici dei movimenti. Detto questo, è chiaro che
lo spazio è aperto a tutti. E quindi tutte le organizzazioni politiche e
sindacali possono e debbono misurarsi.
Come si lega questa raccolta delle firme con la campagna sul referendum sull’Art. 18?
La campagna sull’articolo 18 è stata lanciata da una serie di forze
ben chiare come dimostra la foto della consegna delle firme. Noi
crediamo che i diritti del lavoro camminano insieme ai diritti sociali.
La battaglia è comune anche se le due campagne hanno un oggetto diverso:
referendum e proposta di legge. Camminano parallele ma colpiscono però
lo stesso obiettivo.
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