La logica neoliberista di cancellazione del welfare state viene
proposta nonostante questo modello di sviluppo economico sia all’origine
della crisi economica. Una ideologia che rimuove qualsiasi accurata
analisi della realtà sociale
L’editoriale di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi pubblicato sul
Corriere della Sera di domenica scorsa con il titolo «C’era una volta lo
stato sociale» ribadisce con chiarezza alcuni luoghi comuni conformi
alla visione neoliberista la cui applicazione ha concretamente
contribuito alla crisi globale; la loro convinta riproposizione è un
segno della difficoltà di uscire da quella visione e dalle sue
conseguenze (per timore che ciò possa accadere, in un precedente
articolo Giavazzi ha proposto perfino che il Parlamento attuale blindi
per la futura legislatura quanto già attuato della «Agenda Monti»!).
Secondo i due economisti, il nostro sistema di welfare non è compatibile
con la crescita, dunque dovrebbe essere «profondamente» ripensato
affinché garantisca i suoi servizi solo alle classi meno abbienti e non
anche alle classi medio-alte le quali, però, dovrebbero essere sgravate
dai corrispondenti oneri fiscali e contributivi; in tal modo si
eliminerebbe quello che viene definito «un giro di conto» che «scoraggia
il lavoro e la produzione»: «… se anziché essere tassato con
un’aliquota del 50% dovessi pagare un premio assicurativo a una
compagnia privata, lavorerei di più per non rischiare di mancare le
rate».
Una crudele demografia
Questa indicazione sarebbe rafforzata e resa urgente dall’invecchiamento demografico che avrebbe incrementato in modo straordinario la spesa previdenziale e quella sanitaria; le corrispondenti prestazioni, seguendo la logica dei due economisti, dovrebbero essere privatizzate, salvo garantirne un livello minimo di tipo assistenziale (o caritatevole).
I due autori ricordano che anche a seguito dell’invecchiamento della popolazione (ma non solo), «relativamente pochi ‘lavoratori’ devono farsi carico di tutti quelli che non lavorano». Ciò è naturalmente vero (nel senso letterale). Tuttavia, una prima considerazione generale è che, crescendo la quota della popolazione anziana, non dovrebbe esserci nulla di stupefacente e riprovevole se anche l’incidenza sul Pil dei beni e servizi da essi assorbita tendesse ad aumentare; specialmente se si fa specifico riferimento a beni e servizi che – almeno in parte – hanno negli anziani i loro più naturali destinatari. D’altra parte, se la quota sul Pil della spesa previdenziale e sanitaria rimanesse costante o addirittura diminuisse pur crescendo il numero relativo degli anziani, la partecipazione di ciascuno di essi al reddito nazionale si ridurrebbe rispetto a quella media pro capite nazionale. Questo è in effetti l’obiettivo di chi – sottacendo o negando le responsabilità del modello neoliberista sul peggioramento generale delle condizioni di vita e di lavoro – strumentalizza i reali problemi della condizione giovanile sviando l’attenzione su improbabili contrasti intergenerazionali. I giovani sono più penalizzati dalla crisi perché colpisce tutto il mondo del lavoro e, quindi, particolarmente chi cerca d’entrarci; ma pagano anche gli effetti controproducenti delle politiche spacciate in loro favore che peggiorano la condizione dei lavoratori più anziani e dei pensionati.
Queste politiche, oltre ad avere un’impronta regressiva rispetto ai valori etico-sociali che hanno contribuito a sostanziare il progresso civile dei paesi occidentali, sono tuttavia infondate anche dal punto di vista dell’efficienza economica e controproducenti ai fini di una ripresa quantitativa e qualitativa della crescita.
La spesa sanitaria italiana è leggermente inferiore (la nostra distanza cresce se confrontiamo la spesa procapite) rispetto alla media europea e quest’ultima è nettamente minore di quella statunitense che, come quota di Pil, è quasi doppia e in termini procapite è ancora più elevata (rispetto a quella italiana è quasi il triplo). Eppure non esiste una evidenza empirica che faccia ritenere la situazione sanitaria Usa migliore di quella europea; anzi, nel paese più ricco del mondo continua ad esserci circa un 15% della popolazione che è troppo ricca per poter accedere al sistema pubblico e troppo povera per permettersi un’assicurazione privata. Questo forte divario, sia di maggiore spesa che di minore copertura rispetto all’Europa, è strettamente connesso al fatto che mentre da noi la componente pubblica gestisce mediamente il 75% dei sistemi complessivi, negli Usa la componente privata è prevalente. Questi dati confermano risultati consolidati della letteratura economica e, in particolare, quanto sia infondata l’affermazione secondo cui ridurre le prestazioni e i corrispondenti costi di un sistema di welfare pubblico dovrebbe renderci necessariamente più soddisfatti e produttivi: spesso, ciò che accade quando si procede in quella direzione è che aumentano i costi a fronte di un peggioramento della copertura assicurativa.
Per i bilanci pubblici i sistemi previdenziali possono costituire un aggravio se il saldo dei loro flussi finanziari è negativo; ma in Italia la differenza tra le entrate contributive e le uscite effettive, cioè al netto delle ritenute fiscali, è invece positiva fin dal 1998 (le riforme dei primi anni ’90 erano state rapidamente efficaci sul piano finanziario, anche se successivamente, quasi ogni anno, ci sono state ulteriori misure restrittive), per un ammontare che è andato crescendo, attestandosi attualmente a circa l’1,8% del Pil.
Secondo Alesina e Giavazzi, «il lavoro e la produzione» sarebbero avvantaggiati e ciascuno sarebbe più attivo se potesse ridurre la propria assicurazione previdenziale con il sistema pubblico e sostituirla con una privata. Eppure la matematica attuariale dimostra che coprire un rischio è tanto meno costoso quanto più ampio è il numero di interessati che si assicurano insieme; i dati confermano inequivocabilmente che i costi di gestione dei sistemi pubblici a ripartizione estesi ad un’intera collettività sono nettamente inferiori rispetto a quelli privati gestiti a capitalizzazione poiché i secondi usufruiscono di minori economie di scala e debbono affrontare consistenti spese per la gestione finanziaria e per la rete commerciale che quelli pubblici non hanno.
La volatilità finanziaria
Le prestazioni di un sistema a ripartizione nazionale, legate grosso modo all’andamento del Pil, sono poi nettamente più stabili rispetto a quelle dei fondi a capitalizzazione legate agli andamenti molto più volatili dei mercati finanziari; e poiché la ragion d’essere dei sistemi pensionistici è «assicurare» il reddito negli anni della vecchiaia, la maggior sicurezza offerta da quelli pubblici è un requisito dirimente per affidare loro la parte essenziale della copertura pensionistica di una collettività. I fondi privati possono assolvere un’utile funzione integrativa per chi può permettersela, ma non possono assumere un ruolo sostitutivo che, invece, continua ad essere propugnato nonostante l’eclatante dimensione finanziaria della crisi globale. Proprio la dirompente incertezza economico-sociale accresciuta nei sistemi economici dall’applicazione delle teorie neoliberiste (che pensavano di averla esorcizzata derubricandola teoricamente a rischio probabilisticamente prevedibile) richiede iniezioni di stabilità.
La crisi globale, peraltro, affonda le sue radici strutturali in aspetti reali del sistema economico che lascia inoccupate forza lavoro e impianti e, allo stesso tempo, non è in grado di soddisfare bisogni anche primari negli stessi paesi economicamente più sviluppati (non parliamo dei miliardi di persone che combattono con la fame). Alesina e Giavazzi apprezzano i recenti aumenti dell’età di pensionamento (anzi considerati tardivi), però devono anche ammettere che, nonostante l’invecchiamento demografico abbia fatto diminuire la quota delle persone in età lavorativa, una parte crescente di esse rimane disoccupata o addirittura fuori dal mercato del lavoro.
Evidentemente, il problema non è tanto nelle tendenze demografiche, ma nel sistema produttivo che dopo tre decenni di «riforme» neoliberiste non è in grado di creare sufficienti posti di lavoro. Continuare ad ignorare questo dato di fatto e il contributo che un welfare state adeguato può dare (come già storicamente è accaduto) alla stabilità economico-sociale, alla capacità innovativa del sistema produttivo e, dunque, sia alle condizioni della domanda che dell’offerta rappresenta un serio ostacolo per il superamento positivo della crisi.
Questa indicazione sarebbe rafforzata e resa urgente dall’invecchiamento demografico che avrebbe incrementato in modo straordinario la spesa previdenziale e quella sanitaria; le corrispondenti prestazioni, seguendo la logica dei due economisti, dovrebbero essere privatizzate, salvo garantirne un livello minimo di tipo assistenziale (o caritatevole).
I due autori ricordano che anche a seguito dell’invecchiamento della popolazione (ma non solo), «relativamente pochi ‘lavoratori’ devono farsi carico di tutti quelli che non lavorano». Ciò è naturalmente vero (nel senso letterale). Tuttavia, una prima considerazione generale è che, crescendo la quota della popolazione anziana, non dovrebbe esserci nulla di stupefacente e riprovevole se anche l’incidenza sul Pil dei beni e servizi da essi assorbita tendesse ad aumentare; specialmente se si fa specifico riferimento a beni e servizi che – almeno in parte – hanno negli anziani i loro più naturali destinatari. D’altra parte, se la quota sul Pil della spesa previdenziale e sanitaria rimanesse costante o addirittura diminuisse pur crescendo il numero relativo degli anziani, la partecipazione di ciascuno di essi al reddito nazionale si ridurrebbe rispetto a quella media pro capite nazionale. Questo è in effetti l’obiettivo di chi – sottacendo o negando le responsabilità del modello neoliberista sul peggioramento generale delle condizioni di vita e di lavoro – strumentalizza i reali problemi della condizione giovanile sviando l’attenzione su improbabili contrasti intergenerazionali. I giovani sono più penalizzati dalla crisi perché colpisce tutto il mondo del lavoro e, quindi, particolarmente chi cerca d’entrarci; ma pagano anche gli effetti controproducenti delle politiche spacciate in loro favore che peggiorano la condizione dei lavoratori più anziani e dei pensionati.
Queste politiche, oltre ad avere un’impronta regressiva rispetto ai valori etico-sociali che hanno contribuito a sostanziare il progresso civile dei paesi occidentali, sono tuttavia infondate anche dal punto di vista dell’efficienza economica e controproducenti ai fini di una ripresa quantitativa e qualitativa della crescita.
La spesa sanitaria italiana è leggermente inferiore (la nostra distanza cresce se confrontiamo la spesa procapite) rispetto alla media europea e quest’ultima è nettamente minore di quella statunitense che, come quota di Pil, è quasi doppia e in termini procapite è ancora più elevata (rispetto a quella italiana è quasi il triplo). Eppure non esiste una evidenza empirica che faccia ritenere la situazione sanitaria Usa migliore di quella europea; anzi, nel paese più ricco del mondo continua ad esserci circa un 15% della popolazione che è troppo ricca per poter accedere al sistema pubblico e troppo povera per permettersi un’assicurazione privata. Questo forte divario, sia di maggiore spesa che di minore copertura rispetto all’Europa, è strettamente connesso al fatto che mentre da noi la componente pubblica gestisce mediamente il 75% dei sistemi complessivi, negli Usa la componente privata è prevalente. Questi dati confermano risultati consolidati della letteratura economica e, in particolare, quanto sia infondata l’affermazione secondo cui ridurre le prestazioni e i corrispondenti costi di un sistema di welfare pubblico dovrebbe renderci necessariamente più soddisfatti e produttivi: spesso, ciò che accade quando si procede in quella direzione è che aumentano i costi a fronte di un peggioramento della copertura assicurativa.
Per i bilanci pubblici i sistemi previdenziali possono costituire un aggravio se il saldo dei loro flussi finanziari è negativo; ma in Italia la differenza tra le entrate contributive e le uscite effettive, cioè al netto delle ritenute fiscali, è invece positiva fin dal 1998 (le riforme dei primi anni ’90 erano state rapidamente efficaci sul piano finanziario, anche se successivamente, quasi ogni anno, ci sono state ulteriori misure restrittive), per un ammontare che è andato crescendo, attestandosi attualmente a circa l’1,8% del Pil.
Secondo Alesina e Giavazzi, «il lavoro e la produzione» sarebbero avvantaggiati e ciascuno sarebbe più attivo se potesse ridurre la propria assicurazione previdenziale con il sistema pubblico e sostituirla con una privata. Eppure la matematica attuariale dimostra che coprire un rischio è tanto meno costoso quanto più ampio è il numero di interessati che si assicurano insieme; i dati confermano inequivocabilmente che i costi di gestione dei sistemi pubblici a ripartizione estesi ad un’intera collettività sono nettamente inferiori rispetto a quelli privati gestiti a capitalizzazione poiché i secondi usufruiscono di minori economie di scala e debbono affrontare consistenti spese per la gestione finanziaria e per la rete commerciale che quelli pubblici non hanno.
La volatilità finanziaria
Le prestazioni di un sistema a ripartizione nazionale, legate grosso modo all’andamento del Pil, sono poi nettamente più stabili rispetto a quelle dei fondi a capitalizzazione legate agli andamenti molto più volatili dei mercati finanziari; e poiché la ragion d’essere dei sistemi pensionistici è «assicurare» il reddito negli anni della vecchiaia, la maggior sicurezza offerta da quelli pubblici è un requisito dirimente per affidare loro la parte essenziale della copertura pensionistica di una collettività. I fondi privati possono assolvere un’utile funzione integrativa per chi può permettersela, ma non possono assumere un ruolo sostitutivo che, invece, continua ad essere propugnato nonostante l’eclatante dimensione finanziaria della crisi globale. Proprio la dirompente incertezza economico-sociale accresciuta nei sistemi economici dall’applicazione delle teorie neoliberiste (che pensavano di averla esorcizzata derubricandola teoricamente a rischio probabilisticamente prevedibile) richiede iniezioni di stabilità.
La crisi globale, peraltro, affonda le sue radici strutturali in aspetti reali del sistema economico che lascia inoccupate forza lavoro e impianti e, allo stesso tempo, non è in grado di soddisfare bisogni anche primari negli stessi paesi economicamente più sviluppati (non parliamo dei miliardi di persone che combattono con la fame). Alesina e Giavazzi apprezzano i recenti aumenti dell’età di pensionamento (anzi considerati tardivi), però devono anche ammettere che, nonostante l’invecchiamento demografico abbia fatto diminuire la quota delle persone in età lavorativa, una parte crescente di esse rimane disoccupata o addirittura fuori dal mercato del lavoro.
Evidentemente, il problema non è tanto nelle tendenze demografiche, ma nel sistema produttivo che dopo tre decenni di «riforme» neoliberiste non è in grado di creare sufficienti posti di lavoro. Continuare ad ignorare questo dato di fatto e il contributo che un welfare state adeguato può dare (come già storicamente è accaduto) alla stabilità economico-sociale, alla capacità innovativa del sistema produttivo e, dunque, sia alle condizioni della domanda che dell’offerta rappresenta un serio ostacolo per il superamento positivo della crisi.
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