Perché un giovane che in Italia voglia iscriversi all'Università deve
incontrare così tanti sbarramenti in un numero oggi crescente di
Facoltà? Non è sufficiente che egli paghi le tasse e poi affronti la
severa selezione degli esami, vera “prova attitudinale” affrontata
davanti a una commissione di docenti? Sostengono i propugnatori del
numero chiuso che lo sbarramento agli ingressi alle nostre Università
serve a garantire decenti standard di servizi agli studenti che superano
i test. A onor del vero, da quando esiste il numero chiuso, che ormai
da anni sta dilagando come una malattia , non mi pare che on Italia i
servizi abbiano conosciuto un qualche visibile miglioramento. A tutti è
noto che è accaduto esattamente il contrario e ciò a causa dei tagli
lineari degli ultimi anni. Viene dunque facile e spontanea la replica :
ma perché, se esiste una cosi vasta domanda della nostra gioventù, che
preme sulle vecchie strutture universitarie, non si investe per
ampliarle e ammodernarle ? Perché non si incrementano i servizi? Non
lamentiamo un basso numero di laureati rispetto agli stati d'Europa? Non
deve la classe dirigente di un grande Paese tentare di rispondere a una
richiesta civilmente, economicamente e culturalmente importante di così
tanti giovani? E' il caso di rammentare che essi aspirano a un lavoro
di qualità più elevata, che vogliono accedere alle professioni, che
amano le scienze e le lettere e che per questa via rendono più prospero e
civile il Paese ?
A tale obiezione si risponde con un'altra più impegnativa
argomentazione: per molti profili professionali (medici, veterinari,
architetti, ecc) non esiste capacità di assorbimento da parte del
mercato del lavoro e quindi non sarebbe giusto assecondare la tendenza
spontanea dei giovani a intasarlo ulteriormente. E' questa la risposta
di apparente buon senso, che fa la stoffa del senso comune rassegnato
oggi dominante. Essa appare ragionevole perché tessuta col filo del
conformismo economicistico in cui si distilla la miseria culturale della
nostra epoca.
Ma perché impedire a un giovane che voglia studiare medicina di
accedere liberamente ai corsi, di misurarsi con le discipline, di
affrontare gli esami con la propria preparazione, sbarrandogli ex ante
la strada con dei quiz che a volte penalizzano persone dotate, rendendo
talora impossibile il loro progetto di vita? Dopotutto, un giovane può
aspirare a diventare medico perché vuole andare a praticare tale
meritoria professione in Bangladesh o in Uganda, perché è nel suo
progetto di vita svolgere un'attività lavorativa che abbia anche
un'utilità sociale e non sia soltanto finalizzata al reddito. Non
viviamo in un mondo globale? Non dobbiamo sentirci cittadini del mondo?
Non gridano tutti ai quattro venti che i confini delle nazioni sono
saltati? E allora perché questa nostra sedicente società liberale
assicura la cittadinanza alle merci e non anche alle persone?
Ma c'è un'altra obiezione. Il giovane può voler studiare medicina
perché sogna di fare il ricercatore in quel campo disciplinare, perché
sente di possedere il talento e la vocazione. Perché sbarrargli la
strada con un quiz cervellotico, che può definitivamente compromettere
le sue legittime aspirazioni? Non è importante favorire la ricerca
scientifica, l'ingresso di giovani intelligenze in questo ambito
fondamentale della conoscenza ? Non troviamo scritto dappertutto, fra
poco anche sui muri delle osterie di paese, che la ricerca aiuta la
crescita?
Ma esiste un'altra e più dirompente obiezione, che, a mio avviso,
mostra alla radice l'incostituzionalità del numero chiuso e la vocazione
autoritaria delle società neoliberiste. Percorrere, con lo studio, i
curricula universitari per diventare medico, veterinario, architetto,
(ma anche chimico o ingegnere) ecc. non significa semplicemente
impossessarsi di un insieme di tecniche per poi svolgere un mestiere.
Questo è quel poco che riescono ad afferrare gli economisti
neoliberisti. Studiare le discipline scientifiche, che portano alla fine
alla professione, costituisce un processo formativo rilevante, non
dissimile da quello che compiono i giovani nelle facoltà umanistiche.
Per diventare medico o architetto occorre studiare matematica, chimica,
urbanistica, ecc, ma questo significa acquisire conoscenza, farsi una
visione del mondo. Nell'accedere a una professione, che non si esaurisce
nell'apparato delle sue tecniche specialistiche, si conquista dunque
una rilevante fisionomia e ruolo intellettuale, un potenziamento della
personalità , una dotazione culturale che arricchisce l'intera società.
Come si può impedire agli individui di perseguire un simile percorso
di umana emancipazione, base fondamentale della nostra civiltà? Non è
evidente che una società la quale subordina la formazione e il destino
sociale degli individui alle condizioni del mercato del lavoro è una
società apertamente illiberale, che inchioda i singoli nelle caselle
delle strutture economiche esistenti? Non appare chiaro come la luce del
sole che essa non pone gli individui nelle condizioni di superare i
limiti dell'esistente, ma li subordina a questi? Quale sforzo mentale è
necessario per comprendere che questi sbarramenti sono dunque le
avvisaglie di una programmazione autoritaria dei destini sociali e
culturali delle persone?
E' il caso di osservare che tale posizione è l'esatto rovesciamento
del messaggio di libertà individuale che i neoliberisti vanno
propagandando da decenni in ogni canto di strada. Come si spiega un tale
paradosso? La risposta indiretta ce l' ha data da tempo Milton
Friedman, uno dei padri fondatori del neoliberismo, che ha dedicato
particolare attenzione al nesso fra scuola e mercato del lavoro. In un
testo del 1980, Liberi di scegliere, scritto insieme alla moglie Rose,
egli lamentava esplicitamente: «in un paese come l'India, una classe di
laureati che non trovano il lavoro che ritengono adatto al loro livello
di istruzione, è stata fonte di agitazioni sociali e di instabilità
politica. Dunque la disoccupazione intellettuale è politicamente
pericolosa, genera movimenti sociali, danneggia l'economia. Occorre
perciò scoraggiarla. O quanto meno bisogna neutralizzarla. In Italia
l'attuale ministro dell' Istruzione e dell' Università - e con lui
l'intero sistema dei media- svolge tale compito attraverso l'ideologia
del merito: uno stratagemma ideologico per far sentire le centinaia di
migliaia di giovani pur bravi e preparati, che non passano i test, che
non superano i concorsi, che non trovano un dignitoso posto di lavoro,
immeritevoli di raggiungere quell'obiettivo. Le vittime devono sentirsi,
malgrado il merito già conseguito, responsabili del loro fallimento,
messi nella condizione di non poterlo addebitare ad altri che a se
stessi. In realtà, è ormai evidente che il capitalismo oggi non è in
grado - con la presente organizzazione del lavoro – di offrire
occupazione al numero crescente di lavoratori intellettuali che esso
stesso produce. Perciò cerca di filtrare una élite ristretta, la più
“produttiva” possibile, in grado di incrementare la valorizzazione del
capitale.
Il resto deve rimanere fuori, a pascolare nei campi angusti e
affollati della precarietà e della marginalità. La nostra società tende a
organizzarsi per l'inclusione dei pochi – quelli strettamente necessari
– e l'esclusione dei più. Ma ha bisogno, per ovvie ragioni politiche,
di camuffare in qualche modo questo spreco gigantesco. Ed ecco a tal
fine correre in soccorso politici, rettori, economisti, giornalisti,
docenti universitari, che alzano le fitte cortine fumogene dell'
ideologia del merito. Ma se si diradano le nebbie, in Italia appare
ormai evidente che una oligarchia di anziani, asserragliata nei propri
bastioni , sta sparando a pallettoni contro i propri figli e nipoti.
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