I.
Quando più di 25 anni fa il cosiddetto socialismo reale colò a picco,
il pubblico liberal-democratico si convinse che il «sistema sociale»
basato sull’economia di mercato e sulla democrazia si fosse aggiudicato
una storica vittoria nel «conflitto tra i sistemi». Francis Fukuyama
decretò la sua celebre sentenza circa la «fine della storia», che fece
rapidamente il giro del mondo, mentre alla sinistra tradizionale venne a
mancare il terreno sotto i piedi.
In questo clima euforico furono
ben poche le voci dissenzienti. Qualcuno suggerì spiritosamente che in
realtà l’Occidente non aveva vinto, che sarebbe stato solo l’ultimo
degli sconfitti. Lungi dal promuovere il benessere generale il
capitalismo scatenato, senza più neppure l’opposizione di un sistema
antagonista, dispiegò la sua forza distruttiva con una dinamica ancor
più incontenibile. Dalla prospettiva della critica del valore, come era
stata formulata nell’ambito del gruppo Krisis,
la questione si poneva in termini assai differenti. Secondo la nostra
analisi il crollo del socialismo di Stato non segnava affatto la fine di
un sistema sociale antagonista, ma solo quella di un regime statalista
dispotico della modernizzazione di recupero, ormai giunto ai suoi limiti
storici, che a causa della sua struttura sclerotizzata e inerte non era
più in grado di saltare sul treno della terza rivoluzione industriale,
con i suoi nuovi standard produttivi. Allo stesso tempo interpretammo il
collasso di quel regime come l’inizio di una crisi fondamentale del
modo di produzione capitalistico complessivo, che avrebbe soffocato, in
ultima analisi, l’iperproduttività da esso stesso scatenata (vedi
Stahlmann 1990; Kurz 1991). Questa diagnosi fu criticata sotto molti
punti di vista e, per un certo periodo, apparentemente contraddetta, e
in termini eclatanti, dallo sviluppo reale della società. Ma adesso,
finalmente, anche se con un ritardo temporale di un quarto di secolo, il
sistema mondiale capitalistico ha iniziato a sfasciarsi con
impressionante rapidità. Ma per comprendere le cause e il carattere di
questa dinamica sfrenata è necessario, prima di tutto, gettare uno
sguardo retrospettivo sugli sviluppi degli ultimi 25 anni.
2. Poco dopo la cesura storica del 1989
l’ottimismo euforico iniziò già a raffreddarsi. L’invasione del Kuwait
da parte di Saddam Hussein fece traballare l’architettura geopolitica
del Vicino e Medio Oriente e così la questione di un «nuovo ordine
mondiale», dopo la fine del confronto tra i blocchi, tornò di nuovo
all’ordine del giorno; la risposta fu l’intervento dell’Occidente, sotto
la direzione degli USA, che ebbe come unico effetto una stabilizzazione
quanto mai precaria e temporanea. Più tardi, con la sanguinosa
disintegrazione della Jugoslavia, la guerra bussò direttamente alle
porte dell’Unione Europea, mentre nazionalismi e separatismi iniziarono a
prosperare anche in altri paesi dell’Europa e del mondo. Anche sul
piano economico la prima metà degli anni Novanta non fu affatto un
periodo promettente. L’ex-blocco orientale versava in condizioni
disastrose, i paesi del Terzo Mondo gemevano sotto il fardello di un
indebitamento spaventoso e sotto le politiche di aggiustamento
neoliberali imposte dal FMI e dalla Banca Mondiale mentre nei centri
capitalistici la disoccupazione strutturale di massa aumentava
incessantemente. Allo stesso tempo i nuovi focolai di conflitto e di
guerra civile, associati allo sfacelo economico dei paesi dell’ex-blocco
orientale, causarono imponenti flussi migratori, cui l’Europa reagì con
un atteggiamento istericamente difensivo, e che prepararono la strada a
una brutale politica di isolamento sotto la regia tedesca. Più di un
politico liberale, dopo avere smaltito la sbornia per il trionfo
dell’Occidente, si ritrovò improvvisamente ad auspicare la ricostruzione
del muro (vedi Trenkle 1993).
3. Se nei tardi anni Novanta
e nel primo decennio del Duemila la situazione economica potè essere
nuovamente stabilizzata fu soprattutto grazie a un gigantesco boom
dell’economia mondiale, che fu determinato dall’ipertrofia dei mercati
finanziari, cioè dall’accumulazione massiccia di capitale fittizio.
Questo boom sembrò smentire nel modo più assoluto tutti i pronostici di
un «collasso della modernizzazione» come crisi fondamentale del sistema
mondiale capitalistico. Anche perché questa crescita economica non
rimase circoscritta alle tradizionali metropoli capitalistiche ma favorì
anche molti dei cosiddetti paesi emergenti. Soprattutto la Cina, il
Brasile e l’India, come anche alcuni paesi del Sud-Est asiatico, che
avevano già incassato il naufragio dei loro programmi di sviluppo,
varati negli anni Sessanta e Settanta, sperimentarono un boom senza
precedenti, sotto l’insegna nuova di zecca dell’«accumulazione trainata
dalla finanza», trasformandosi in colossi economici. Perfino un certo
numero di Stati africani e latino-americani, che alla fine degli anni
Novanta venivano considerati i grandi perdenti della globalizzazione,
riuscirono a saltare, dopo la svolta del secolo, sul carro di questa
congiuntura economica, grazie alla vendita delle loro materie prime e
dei loro prodotti agricoli, la cui domanda sul mercato mondiale era
aumentata vertiginosamente. In virtù delll’esportazione delle sue
materie prime, anche la Russia poté rialzare la testa, sia sul piano
economico che su quello politico, e, sotto il regime dittatoriale di
Putin, riprese di nuovo a influenzare con decisione gli eventi
geopolitici.
4. Questa
ripresa
dell’economia mondiale riposava però su di una base completamente
diversa da quella del boom fordista del dopoguerra. Se il fordismo si
fondava su una valorizzazione del capitale mediata dallo sfruttamento su
vasta scala della forza-lavoro nella produzione industriale di massa,
cioè sull’appropriazione di valore frutto di lavoro passato, la nuova
dinamica economica viene alimentata dal ricorso massiccio a valore futuro, cioè dal dispendio futuro di forza-lavoro.
Per questo cambiamento di base esistevano ragioni strutturali. Quando
il modello di accumulazione fordista, negli anni Settanta e Ottanta,
entrò in crisi, perché l’applicazione della scienza alla produzione,
sulla scia della Terza rivoluzione industriale, divenne la forza
produttiva principale, anche il meccanismo classico della valorizzazione
del capitale si scontrò con i suoi limiti storici. Di fronte
all’espulsione massiccia e assoluta di forza-lavoro dalla produzione
immediata, il valore creato nella produzione era di gran lunga
insufficiente a tenere in vita il processo autotelico dell’accrescimento
permanente del denaro. Ma in questo modo il meccanismo funzionale di
base del modo di produzione capitalistico era ormai compromesso (vedi
Lohoff/Trenkle 2012).
5. Una via di uscita provvisoria da questa crisi venne trovata solo grazie all’accumulazione su grande scala di capitale fittizio.
Si verifica sempre una produzione di capitale fittizio quando titoli di
proprietà, come obbligazioni o azioni, vengono messi in circolazione o
quando salgono i prezzi dei titoli già in circolazione. Questi titoli
sono promesse di pagamento negoziabili e costituiscono un genere
particolare di merci, sono cioè merci del secondo ordine (vedi
Lohoff/Trenkle 2012), dalle caratteristiche del tutto peculiari.
Mediante la loro vendita è possibile incrementare il capitale investito
senza ricorrere all’impiego di forza-lavoro e senza «deviare» attraverso
la produzione di merci sul mercato dei beni.
Come è possibile?
Con l’acquisto di promesse di pagamento negoziabili il denaro non passa
semplicemente dalle mani dell’acquirente in quelle del venditore. Questo
passaggio di denaro da chi concede il credito a chi si assume il
debito, da chi acquista le azioni a chi le ha emesse etc. si accompagna a
un temporaneo raddoppiamento della somma di denaro in
questione. Accanto al capitale iniziale, giunto nelle mani del
beneficiario del credito o dell’emittente delle azioni, entra in scena,
nella forma del titolo di proprietà, una sua immagine speculare
autonomizzata, che rappresenta valore futuro. Fino a quando il titolo di
proprietà è valido, cioè per tutta la sua durata, si verifica così una accumulazione di capitale senza valorizzazione di capitale (vedi Lohoff 2014).
Lungi dall’essere una novità assoluta questo singolare meccanismo di raddoppiamento
è sempre stato un elemento della logica di funzionamento basale del
capitalismo, che però nella crisi fondamentale della valorizzazione,
determinata dall’espulsione, in termini assoluti, di forza-lavoro in
seguito alla terza rivoluzione industriale, ha assunto una funzione del
tutto nuova, che funge da base per tutto il sistema: si è trasformato
nel motore della dinamica dell’economia globale. Sono ormai molti anni
che l’opinione pubblica si straccia le vesti al cospetto della
spaventosa crescita del capitale finanziario, che viene giudicato come
uno «sviluppo erroneo», responsabile di tutti i fenomeni della crisi. Ma
senza l’accumulazione di capitale autonomizzata sui mercati finanziari,
il sistema mondiale della merce starebbe agonizzando già da almeno
trent’anni. Se non ci fosse stata questa «produzione» di capitale
fittizio, in Cina, India, Brasile etc. non ci sarebbe stato nessun boom
industriale, gli ex-Stati del socialismo reale non si sarebbero mai
ripresi dal tracollo e la terza rivoluzione industriale sarebbe stata
strangolata dalla sua stessa produttività, che rendendo superflua su
grande scala la forza-lavoro, distrugge i fondamenti della
valorizzazione del capitale.
6. Per
giunta questa dinamica fondata sul capitale fittizio presenta alcune
differenze sostanziali rispetto al boom fordista del dopoguerra. La più
importante consiste nel fatto che l’accumulazione di capitale non dipende più, in primo luogo, dallo sfruttamento di forza-lavoro,
perché l’accrescimento del denaro si verifica in gran parte
direttamente sui mercati finanziari. Per questa ragione, i venditori
della merce forza-lavoro hanno perso gran parte del loro potere
contrattuale, che si basava finora sulla dipendenza del capitale dalla
forza-lavoro per la sua accumulazione. Su un piano strutturale la
posizione dei lavoratori era sempre stata più debole rispetto a quella
del capitale, perché i salariati sono costretti a vendere senza sosta la
loro forza-lavoro, per garantirsi la sopravvivenza. Tuttavia questa
situazione poteva essere alleviata, soprattutto nei periodi in cui la
domanda di forza-lavoro era considerevole, grazie all’organizzazione
sindacale e politica. Ma nell’era del capitale fittizio, in cui
l’accumulazione del capitale si fonda soprattutto sulla vendita di
promesse di pagamento negoziabili, cioè di merci del secondo ordine, il
sistema dei rapporti di forza nella società si è modificato a tutto
vantaggio del capitale. La ragione sta nel fatto che adesso il capitale
si trova nell’invidiabile posizione di chi può «produrre» autonomamente
le merci di base per l’accumulazione sui mercati finanziari, mentre la
merce forza-lavoro, misurata sul suo contributo all’incremento del
capitale, ha solo un’importanza subordinata (vedi Trenkle 2015b).
Inoltre
la drastica razionalizzazione applicata nei settori-chiave della
produzione per il mercato mondiale e la globalizzazione hanno indebolito
in maniera decisiva il potere contrattuale dei lavoratori salariati,
che adesso possono essere rimpiazzati in qualsiasi momento da sistemi
automatici o da lavoratori a bassi salari da qualche parte nel mondo.
Precarizzazione, pressione sui salari e una sempre più ossessiva pretesa
efficientistica ne furono le logiche conseguenze.
Allo stesso
tempo la produzione di beni per il mercato, che durante il fordismo era
la principale forza motrice per il processo autotelico di accrescimento
del denaro, ha mutato la sua funzione all’interno del sistema. Un tempo,
il fattore decisivo per la valorizzazione del capitale era il dispendio
di forza-lavoro nella produzione di automobili, frigoriferi, macchine
utensili etc., mentre la creazione di capitale fittizio restava
sostanzialmente vincolata alla dinamica della valorizzazione. Di
conseguenza, poterono essere finanziati in via preliminare mediante
prestiti o azioni, ad esempio, grandi investimenti in fabbriche e
infrastrutture, dove il ricorso a valore futuro veniva coperto grazie
allo sfruttamento di forza-lavoro nella produzione di beni per il
mercato. Nell’era del capitale fittizio questo rapporto si è capovolto.
Adesso la cosiddetta economia reale non è più il motore della
moltiplicazione del denaro perché anch’essa dipende al massimo grado dal
proseguimento dell’accumulazione di titoli di proprietà sui mercati
finanziari. Se questa si inceppa come nel 2008, si inaridiscono
immediatamente anche i flussi di denaro destinati agli investimenti o
all’acquisto di beni di consumo e l’economia reale precipita in una
crisi da cui è possibile uscire solo se la «produzione» di capitale
fittizio viene rimessa ancora una volta in funzione. La produzione di
beni di mercato è funzionale per il sistema solo in quanto offre punti
di riferimento per le aspettative di utile, verso cui si orientano i
compratori di titoli di proprietà; essa offre cioè in un certo senso la
materia per la «fantasia sui mercati», senza cui il ricorso al valore
futuro non si verifica (vedi Lohoff/Trenkle 2012).
7. In questo modo l’indifferenza nei confronti del contenuto della produzione, che è uno dei contrassegni fondamentali del modo di produzione capitalistico, raggiunge il suo stadio estremo.
Se ne ebbe la più limpida dimostrazione durante la grande crisi dei
mercati finanziari, quando i governi e le banche centrali misero a
disposizione migliaia di miliardi per salvare il settore finanziario e
creditizio, ritenuto (in un certo senso per nulla a torto) di
«importanza sistemica, per poi tagliare allo stremo le risorse del
settore sociale e sanitario. Ma anche gli incredibili aumenti di prezzo
degli immobili, che in molte zone hanno reso le abitazioni un bene di
lusso, vanno ricondotte alla dinamica del capitale fittizio, che ha
capitalizzato fin da ora le aspettative di valore futuro; lo stesso vale
per la valorizzazione di materie prime, risorse naturali e terreni
agricoli (Lohoff 2015). Non è un caso quindi che, negli ultimi anni,
molte lotte sociali siano state innescate dall’espulsione degli uomini
dai loro quartieri, dall’economicizzazione dello spazio pubblico, dallo
sgombero di abitazioni e case in seguito alla crisi immobiliare e
dall’appropriazione di terreni e di risorse naturali da parte delle
compagnie che operano sul mercato mondiale.
L’era del capitale
fittizio ha plasmato la società, non solo sul piano economico, ma anche
su quello sociale e politico. Essa fu inaugurata dallo smantellamento
delle strutture dello Stato sociale e della regolazione dell’era
fordista, dal rimodellamento neoliberale della società a misura delle
coercizioni sempre più energiche sul mondo del lavoro flessibilizzato e
dalla totale economicizzazione di tutte le relazioni sociali. La
conseguenza facilmente prevedibile fu l’inasprimento della concorrenza
generale e una progressiva atomizzazione del contesto sociale. Non a
caso tutto questo andò di pari passo con una rivitalizzazione generale
del nazionalismo, che sembrava in grado di soddisfare il desiderio
regressivo di appartenenza a una collettività apparentemente in grado di
fornire protezione, che si associava a ideologie razziste e
socialdarwiniste basate sull’esclusione o imperversava come ottuso
separatismo regionalistico sia in una forma bellicosa e sanguinaria, che
sul piano dell’azione politica. Per ragioni del tutto analoghe il
fondamentalismo religioso prosperò un po’ dappertutto nel mondo nelle
forme più disparate – non solo in quella dell’islamismo, anche se
quest’ultima, a causa della specificità del fallimento della
modernizzazione di recupero nel Vicino e Medio Oriente ha sviluppato un
potenziale particolarmente aggressivo e brutale (vedi Trenkle 2015a).
8. Contemporaneamente, nacque una nuova forza di sinistra, nella forma del movimento anti-globalizzazione,
che si differenziava dalla sinistra tradizionale soprattutto sotto due
riguardi. Da un lato le sue strutture reticolari transnazionali,
non-gerarchiche, che rispecchiavano la forma mutata del mondo,
rappresentavano indubbiamente un progresso nei confronti del defunto
«internazionalismo», che era pur sempre legato al mondo delle nazioni.
Dall’altro però, la critica e gli obiettivi del movimento
anti-globalizzazione, o quantomeno della sua corrente principale,
restarono pur sempre imprigionati nel sistema di riferimento della
logica capitalistica. La critica venne diretta, in prima linea, contro
il neoliberalismo e il dominio del capitale finanziario, che vennero
incolpati per le crisi e gli sconquassi socio-economici; di conseguenza
l’alternativa venne identificata nel ritorno immaginifico ad un
capitalismo regolato dallo Stato sociale, in cui l’«economia reale»
tornava ad occupare la posizione centrale.
Nonostante questa
critica riduttiva il movimento anti-globalizzazione contribuì al
cambiamento del clima sociale: l’egemonia del discorso neoliberale venne
messa sempre più in discussione e fu addirittura possibile
interrompere, almeno in parte, lo smantellamento dello Stato sociale e
le privatizzazioni o ottenere la revoca di alcune misure. In molti paesi
dell’America Latina, nella prima decade del Duemila, i partiti della
sinistra riuscirono perfino ad arrivare al governo e grazie allo spazio
di manovra aperto dal boom del capitale fittizio, misero a punto
politiche redistributive, imponendo tutta una serie di riforme sociali,
giuridiche e politiche volte a migliorare la condizione di interi
settori della popolazione fino a quel momento marginalizzati e privati
di ogni diritto.
9. Ma con la crisi finanziaria del 2008
fu possibile toccare con mano i limiti dell’era del capitale fittizio.
Il mega-crollo del sistema finanziario internazionale (e quindi
dell’economia mondiale di cui rappresenta è la sola base) fu scongiurato
solo grazie a una pletora di programmi statali di salvataggio in favore
del settore bancario e finanziario e al gigantesco foraggiamento dei
mercati mediante crediti concessi dalle banche centrali a un tasso di
interesse praticamente nullo. Fu in questa circostanza che la sinistra
anti-globalizzazione palesò tutta la sua impotenza. Indubbiamente, in
seguito alla crisi, le richieste di maggiori controlli sui mercati
finanziari e di un rafforzamento dell’economia reale trovarono
improvvisamente ascolto nel mainstream dell’ufficialità mediatica e
vennero recepite dai governi; parallelamente si registrò un cambiamento
del clima sociale: il neoliberalismo si mise sulla difensiva e perse la
sua posizione egemonica a vantaggio di un keynesismo di tipo nuovo. Di
fatto però si trattò solo della musica di accompagnamento ideologica per
i programmi di salvataggio statali in tutto il mondo, che avevano per
obiettivo, innanzitutto, il risanamento delle banche e la ripresa
dell’accumulazione di capitale fittizio ad ogni costo.
E così le
idee politiche della sinistra anti-globalizzazione si dimostrarono
completamente illusorie. Nessun argine venne posto al capitale
finanziario né vi fu alcun fantasmagorico «ritorno all’economia reale»,
anche se, nel frattempo, questo ritorno veniva invocato come un mantra
in maniera trasversale da tutto lo spettro politico. La ragione non era
certo la mancanza di volontà politica: semplicemente per questo ritorno
non c’erano più le basi economiche. A causa del livello esorbitante
della produttività, che a sua volta è un risultato della dinamica
contraddittoria del capitalismo, il processo autotelico del capitale non
può più continuare mediante lo sfruttamento di forza-lavoro nella
produzione, ma dipende nella buona e nella cattiva sorte
dall’accumulazione di capitale fittizio.
10.
Di conseguenza anche i partiti di sinistra furono costretti a fare buon
viso a cattivo gioco di fronte ai programmi di salvataggio a favore del
settore creditizio e finanziario o perfino a collaborare attivamente
alla loro esecuzione, così da evitare il collasso dell’economia
mondiale. In seguito non si poté che constatare come lo sviluppo
congiunturale fosse sempre più dipendente dagli interventi delle banche
centrali, che a loro volta non avevano alternativa se non inondare i
mercati finanziari con una marea gigantesca di denaro quasi senza
interesse. Questo perché, dopo il 2008, non fu più possibile rimettere
in moto, come sarebbe stato necessario, l’accumulazione di capitale
fittizio nel settore privato, che da allora deve essere, in pratica,
sovvenzionata permanentemente attraverso politiche monetarie (vedi
Lohoff/Trenkle 2012). Le possibilità di controllo da parte della
politica economica dei governi si ridussero quindi ai minimi termini.
Come
se non bastasse, di fronte al rapido aumento dell’indebitamento
statale, che raggiunse livelli stratosferici, soprattutto nei paesi
colpiti con più violenza dalla crisi, a causa del fatto che le perdite
del settore bancario e finanziario erano state socializzate in misura
consistente, i falchi neoliberali si videro ancora una volta confermati
nelle loro folli politiche di austerità. Il caso peggiore fu l’Europa,
dove i pochi paesi che erano usciti vincitori dalla crisi, Germania in
testa, hanno inflitto soprattutto ai paesi dell’Europa Meridionale un
diktat brutale e spietato volto a imporre politiche di risparmio. A
subire un trattamento particolarmente duro fu la Grecia, dove alla fine
persino il governo di Syriza, che era stato eletto proprio in reazione a
questo stato di cose, di fronte al ricatto dei sadici tedeschi
dell’austerità non poté fare altro che trasformarsi nell’esecutore della
stessa politica contro la quale si era battuto con tenacia.
11. I dissidenti di sinistra hanno criticato questo voltafaccia, traendo però delle conseguenze che, sul piano ideologico, sono quasi peggiori. La soluzione allucinatoria che essi vagheggiano consiste in un ritorno alla «sovranità nazionale»
mediante l’uscita dall’Eurozona, dall’Unione Europea e dalle altre
organizzazioni sovranazionali. Si tratta ovviamente di un’idea del tutto
illusoria, da una parte perchè una separazione dalla rete delle
connessioni globali è semplicemente impossibile e dall’altra perché, in
ogni caso, per i paesi che si proponessero di attuarla, le ripercussioni
sarebbero catastrofiche. In ogni caso essa rispecchia la pericolosa
tendenza verso un isolamento nazionalistico sempre più marcato, che in
seguito alla crisi dell’euro – o adesso anche a causa delle politiche
del tutto unilaterali sul problema dei rifugiati –, minaccia di
disintegrare l’Unione Europea. Il risultato di una politica di questo
genere, da «sinistra radicale» (sostenuta dagli scissionisti di Syriza,
dalla frazione Lafontaine-Wagenknecht in Germania e da altri esponenti
della sinistra europea), sarebbe qualcosa di molto diverso dal
ripristino della sovranità dei singoli Stati nella sfera economica e
della politica sociale, e cioè un isolamento aggressivo con la presenza
simultanea di un processo di impoverimento interno che preparerebbe il
terreno per l’instaurazione di regimi autoritari di crisi, analoghi a
quelli che già si vedono in Russia e in Ungheria; anche la Polonia
sembra avere imboccato la stessa strada.
Per giunta questo
nazionalismo regressivo si mescola regolarmente con le peggiori
ideologie della cospirazione, secondo cui c’è sempre qualche misteriosa
potenza internazionale o qualche forza che agisce nell’ombra, che sabota
sistematicamente ogni politica a favore del «lavoro onesto» e ostile
alla speculazione. È il rovescio di un’illusione politicista
completamente infondata, incapace di decifrare il proprio fallimento se
non facendo ricorso a cupe personificazioni proiettive. Non a caso su
questo punto tutti gli strateghi dei fronti trasversali possono trovare
un appiglio e quindi gettare un ponte verso l’aperto antisemitismo e l’estremismo di destra.
12. Questa oscillazione tra la sottomissione al dettato dell’austerità e la regressione nazionalistica,
alimentata dalle teorie della cospirazione, è il risultato della
fissazione sulla logica di base della società della merce. Una sinistra
che accetta senza battere ciglio che la ricchezza venga prodotta sotto
forma di merci, che a loro volta sono solo un mezzo per il fine
dell’accumulazione capitalistica, può avere come unico programma quello
di influenzare e controllare politicamente la dinamica capitalistica, in
modo che la ricchezza prodotta in forma capitalistica possa essere
redistribuita in modo socialmente più equo. Durante l’apogeo del
fordismo, questa politica potè contare su di una legittimazione relativa
e, in sostanza, contribuì a migliorare considerevolmente, almeno sotto
certi aspetti, le condizioni di vita e di lavoro di buona parte della
popolazione nei centri capitalistici. Ma nell’era del capitale fittizio
essa è ormai solo la perfida caricatura di se stessa. Questo perché,
come si è già detto in precedenza, è necessario un dispendio sempre
maggiore di risorse per mantenere in moto l’accumulazione di capitale,
mentre diminuisce sempre più la quantità di ricchezza sotto forma di
merci che può essere redistribuita tra i membri della società. In parole
povere: “ciò che ce ne viene in tasca”, in fin dei conti, è irrisorio
rispetto alle risorse e ai mezzi finanziari che devono essere sprecati
per il funzionamento e la conservazione della macchina capitalistica.
Tuttavia,
fino a quando risulta possibile tenere in moto l’accumulazione del
capitale fittizio, in virtù di essa viene indotta una crescita più o
meno energica dell’economia reale (Lohoff/Trenkle 2012), che, a sua
volta, provoca l’afflusso di una maggiore quantità di tasse e di
imposte, che infine aprono allo Stato nuovi spazi di manovra per le sue
politiche finanziarie; di conseguenza non è affatto trascurabile come
essi vengano utilizzati. Su questo punto, nel dibattito politico, la
risposta della sinistra si rivela oggi estremamente angusta. Si ispira
ai tradizionali modelli keynesiani: stimolazione della congiuntura
mediante l’aumento del potere di acquisto delle masse, programmi di
investimento statali e, simultaneamente, distribuzione più equa della
ricchezza. Se paragonata al fanatismo dell’austerità neoliberale questa
alternativa è indubbiamente migliore perché il suo obiettivo è il
miglioramento, o quantomeno la stabilizzazione, della condizione sociale
di gran parte della popolazione. Tuttavia essa mostra la corda,
perlomeno sotto due punti di vista.
Anzitutto questi programmi
congiunturali devono ottenere buoni risultati abbastanza in fretta da
conquistarsi la famosa (o meglio famigerata) fiducia dei mercati
finanziari, cosicchè questi non decidano di ritirare il denaro dal paese
che li attua. Non c’è dubbio che gli attori di mercato siano, in
generale, più pragmatici degli ideologi neoliberali nella sfera
politica, visto che l’unica cosa che sta loro a cuore è che il denaro
torni a zampillare, non importa grazie a quale provvedimento politico;
malgrado ciò la dipendenza immediata dal capitale fittizio restringe
fortemente lo spazio di manovra della politica. In sostanza possono
essere applicate solo quelle misure che promettono successi economici a
breve termine e nel minor tempo possibile o che, quantomeno, non li
ostacolano. Ad esempio, le misure di politica sociale o a sostegno del
sistema sanitario, che mirano «solo» a soddisfare i bisogni della
popolazione, diminuiscono rapidamente la credibilità del paese
pregiudicando così tutto il programma di politica economica. Accade così
che perfino i governi di «sinistra» gettino alle ortiche tutte le loro
belle idee sociali ed ecologiche, se solo intravedono una qualche
possibilità di dischiudere nuovi settori per gli investimenti di
capitale.
Secondariamente,
anche questi progetti neo-keynesiani si scontreranno duramente con i
propri limiti, al più tardi con la prossima grande avanzata della crisi
sui mercati finanziari. Quando essa accadrà nessuno può dirlo con
precisione ma è facile prevedere che essa sarà inevitabile e addirittura
molto più grave della crisi finanziaria ed economica del 2008. Questo
perché è assai probabile che il denaro senza tasso di interesse
proveniente dalle banche centrali, che alimenta i mercati finanziari e
che rinfocola l’attuale congiuntura, vada incontro a una massiccia
svalutazione, causando un’iperinflazione globale. Ma anche se questo
scenario non dovesse verificarsi subito, per le banche centrali, che
riposano su gigantesche montagne di crediti inesigibili nei confronti
delle altre banche e degli Stati, sarebbe davvero arduo arrestare
l’avanzata della crisi con gli strumenti adottati fino a questo momento.
E gli stessi governi non saranno più in grado di varare programmi di
salvataggio così imponenti come l’ultima volta, visto che sono
indebitati fino al collo, non da ultimo proprio per questa ragione.
Inoltre, in una situazione ancor più critica, sarebbe difficile
concordare un intervento globale concertato contro la crisi da parte dei
grandi Stati; finirebbero invece con l’imporsi forze nazionalistiche e
si innesterebbe così una dinamica centrifuga basata sulla competizione
per l’esclusione e sull’aggressività reciproca, che potrebbe
disintegrare non solo alleanze internazionali ma anche organizzazioni
sovranazionali come l’Unione Europea. Con una tale concorrenza politica
negativa all’insegna del si-salvi-chi-può, che già si profila sin da ora
al cospetto del flusso di profughi e del processo di disintegrazione
armata nel Vicino e Medio Oriente, verrebbe raggiunto uno stadio
qualitativamente nuovo del processo di crisi, dalle dimensioni
estremamente pericolose.
13. La situazione appare troppo drammatica per il tran-tran di una sinistra che spaccia i suoi progetti keynesiani come l’ultimo grido
dell’emancipazione sociale e che non riesce a capire che in questo modo
si autocondanna all’impotenza. Nuove possibilità per l’azione si
apriranno solo nella prospettiva di un superamento del modo
capitalistico di produzione e di vita, che ovviamente non può avere
nulla in comune con il «socialismo reale» giustamente defunto. Il suo
contenuto può essere solo la produzione, l’appropriazione e la
distribuzione della ricchezza materiale, sensibile, e la
riorganizzazione delle condizioni di vita sociali al di là della
produzione di merce, della valorizzazione del capitale e
dell’amministrazione statale. Ma per questo scopo occorrono anche nuove
forme, procedure e istituzioni per la discussione e la pianificazione
sociale, in cui individui liberamente associati possano decidere circa
le loro incombenze, senza che il loro orizzonte operativo venga
predeterminato dalle costrizioni oggettivate e sempre più distruttive
della logica della merce e della «finanziabilità». Naturalmente tali
forme di libera associazione tra individui sociali non possono sorgere
dall’oggi al domani, ma devono essere sviluppate e collaudate in un
processo di trasformazione sociale più lungo. Sorge quindi la questione
circa l’individuazione dei possibili punti di partenza su cui un tale
processo potrebbe travare appiglio.
Per quel che concerne lo
sviluppo delle forze produttive e del sapere sociale, sono ormai
presenti da tempo tutte le possibilità per realizzare un modo di
produzione decentrato ma globalmente interconnesso e tecnicamente
efficiente, organizzato secondo i criteri di una ragione sensibile e
conciliabile con la conservazione dei fondamenti naturali. In parte si
trovano già oggi simili esempi, per esempio nella forma del rifornimento
di energia decentrato a partire da fonti rinnovabili; nelle attuali
condizioni sociali, tuttavia, questi potenziali non potranno mai
dispiegarsi perché la logica capitalistica tende sempre alla
centralizzazione e alla costruzione di grandi unità di valorizzazione e
inoltre tutti i progetti per il risparmio di risorse e per una
produzione rispettosa dell’ambiente vengono subito controbilanciati
dall’incremento degli out-put produttivi al servizio dell’accumulazione
di capitale (effetto rimbalzo). Qualcosa di analogo vale anche per le
moderne tecnologie dell’informazione e della comunicazione, che in virtù
della loro capacità di risparmiare lavoro sono il motore del processo
di crisi fondamentale del capitalismo, che rende sempre più uomini
«superflui» e distrugge le strutture della convivenza sociale. Se però
fossero impiegati programmaticamente nel senso della produzione di
ricchezza materiale e della soddisfazione dei bisogni concreti,
sensibili, potrebbero contribuire a realizzare il vecchio sogno
dell’umanità: il sogno di una società in cui tutti hanno a sufficienza
per condurre una vita buona e disporre di tempo in abbondanza.
Il
compito davvero difficile consisterà però nello sviluppo di nuove forme
non-gerarchiche di discussione e di deliberazione sociale,
che sono necessarie per potere dispiegare effettivamente queste
possibilità (per la discussione vedi anche Meretz 2005). Questo compito
può essere praticamente assolto solo nel contesto di un settore esteso e
auto-organizzato alternativo che rompa coscientemente con la logica
della produzione di merce. Tentativi in questa direzione si registrano
certamente anche adesso e si ricostituiscono regolarmente nel quadro
delle lotte sociali, specialmente nelle situazioni di crisi. Esempi di
questo genere si trovano in gran quantità in Grecia dove in reazione
alla crisi e alla brutale politica di impoverimento è sorto un gran
numero di iniziative e di reti auto-organizzate in tutti gli ambiti
della vita sociale (sanità, abitazioni, cultura, produzione etc.).
Malgrado
tutto questi tentativi (in Grecia così come in Spagna, Argentina e
altrove) patiscono sempre la loro impossibilità di accedere alle risorse
sociali; per giunta vedono enormemente ristretto il loro raggio di
azione a causa delle prescrizioni giuridiche e burocratiche e sono
esposti alla repressione da parte dello Stato. Di conseguenza non
riescono a crescere fino a diventare una vigorosa alternativa sociale,
ma si riducono a un aiuto di emergenza o come «impresa di sgombero» per
le conseguenze della politica di austerità. Proprio qui si aprono nuove
possibilità di intervento per una sinistra che pensa di essere una forza
emancipatrice all’altezza dei tempi. Essa dovrebbe fare tutto il
possibile per migliorare le condizioni-quadro materiali, giuridiche e
sociali per nuove forme di auto-organizzazione solidale e emancipatoria e
in questo modo gettare le basi per un’alternativa per il modo
capitalistico di produzione e di vita e in prospettiva per il suo
superamento.
14. In quest’ottica alleanze elettorali come Syriza e Podemos,
che provengono dal contesto dei movimenti sociali di protesta,
potrebbero svolgere senz’altro una funzione importante e affermarsi come
un’alternativa reale alla tradizionale politica di partito della
sinistra. Il preesupposto è però un mutamento radicale di prospettiva e
una nuova auto-comprensione. Sia Syriza che Podemos sono ormai in
procinto di trasformarsi in partiti normalissimi, che si candidano a
raccogliere l’eredità della vecchia socialdemocrazia. Ma anche per molti
attivisti dei movimenti sociali sembra già sufficiente il fatto di
poter contare su di un rappresentante in Parlamento o magari tra le fila
del governo, che porti avanti le loro rivendicazioni. Nel giro di
pochissimo tempo si è quindi riprodotta la classica divisione del lavoro
tra movimenti sociali e partiti politici, che ha caratterizzato gli
ultimi 150 anni e che consiste sostanzialmente nel fatto che i primi
accettano di ridursi in uno stato di inferiorità e di impotenza nei
confronti dei secondi.Il piano politico viene così delegato alla
rappresentanza parlamentare, che entra in carica con la promessa di
tradurre le richieste dei movimenti sociali in progetti politici di
riforma, provvedimenti statali e regolamentazioni giuridiche. L’esito
terminale è che la produzione di ricchezza capitalistica viene
riconosciuta come forma generale sociale, i partiti, come «governo in
spe», prendono le redini e si conformano sempre più alle presunte
costrizioni oggettive, mentre i movimenti sociali si dissolvono o si
ritirano dalla scena.
Durante la fase ascendente della storia
capitalistica l’auto-interdizione dei movimenti sociali e la revoca
degli esperimenti di auto-organizzazione andarono pur sempre di pari
passo con riforme sociali o giuridiche, che migliorarono in una certa
misura le condizioni di vita o che perlomeno promisero di farlo in
maniera convincente. Oggi tuttavia, se il riformismo nella vecchia
accezione del termine non ha più prospettive, è necessario modificare
radicalmente la prospettiva. I movimenti di liberazione sociale non
possono più identificarsi con uno stadio di transizione verso la
costituzione di partiti propriamente detti o con le organizzazioni di
retroguardia delle loro rappresentanze parlamentari e rassegnarsi al
fatto che queste prendano in loro vece decisioni socialmente rilevanti
sul piano politico. Essi devono invece considerarsi come attori sociali
davvero importanti, che lottano con ogni mezzo per creare le strutture
di un’auto-organizzazione sociale solidale, per ridurre sempre più la
loro condizione di inferiorità, che era ed è legata alla delega di tutti
i compiti pubblici essenziali allo Stato da una parte e
all’economicizzazione di quasi tutti i rapporti sociali dall’altra.
15. Proprio nelle condizioni del processo capitalistico di crisi, un movimento emancipatore non può limitarsi ad abbandonare e a ignorare il piano della politica e dello Stato.
Tuttavia l’orientamento delle lotte su questo terreno deve avere un
contenuto totalmente diverso da quello che ha avuto finora. Da una parte
è necessario convogliare la maggior quantità possibile di risorse
materiali (fabbricati, mezzi di produzione etc.) e finanziarie nel
settore auto-organizzato e migliorare le condizioni strutturali),
affinchè questo possa consolidarsi ed essere ulteriormente sviluppato.
Ma allo stesso tempo, è indispensabile difendere gli standard vigenti
nella sfera giuridica e in quella dello Stato sociale contro tutti
coloro che tentano di liquidarli. Questo perché anche se il settore
dell’auto-organizzazione sociale cresce e si rafforza, lo Stato resterà
un attore centrale ancora per un certo periodo di tempo, in grado di
stabilire e garantire le condizioni generali della vita nel capitalismo
di crisi. Quindi la lotta contro la privatizzazione dei servizi
pubblici, la riduzione delle prestazioni sociali o le misure di
controllo statale sarà naturalmente della massima importanza.
Del
resto i presupposti di questa lotta cambiano fondamentalmente se essa si
ricollega a una nuova prospettiva emancipatoria di superamento della
società capitalistica. Anzitutto perché in questo modo essa perderebbe
il carattere puramente difensivo, che la caratterizzerà fino a quando
sui suoi vessilli ci sarà solo il rinnovamento del venerando Stato
sociale e regolativo, senza peraltro crederci davvero. Pur restando di
per sé una lotta difensiva, può essere condotta in maniera più energica
se non si legittima mediante riflessioni economico-politiche prese a
prestito dai fondi di magazzino del keynesismo, ma pone al centro
coerentemente la soddisfazione dei bisogni sensibili, concreti. In
questo modo guadagnerà in forza e capacità di propagazione e sarà più
facile superare la divisione particolaristica tra lotte diverse basate
su interessi perlopiù in concorrenza reciproca e, al contrario, tessere
alleanze tra differenti forze. Secondariamente un settore di
auto-organizzazione sociale capace di consolidarsi rappresenta anche una
base pratica per combattere con decisione i conflitti sociali; perché
offre non solo una certa garanzia materiale ma anche una specifica
infrastruttura per il sostegno solidale così come luoghi di rifugio
dalla repressione. Così le lotte per il reddito e per il lavoro, che
restano comunque importanti, finchè la maggioranza della popolazione
continuerà a dipendere, in un modo o nell’altro, dalla vendita della sua
forza-lavoro, potranno essere condotte in una maniera più solidale e
fruttuosa che adesso.
16. Questo orientamento dell’emancipazione sociale implica però un rapporto con lo Stato e con la politica del tutto diverso,
rispetto a quello che ha dominato nella sinistra tradizionale.
Soprattutto il leninismo riteneva che ogni forma di auto-organizzazione
dovesse assoggettarsi all’obiettivo della conquista del potere statale e
successivamente dissolversi o essere liquidata con la forza. Al
contrario la realizzazione e lo sviluppo del settore auto-organizzato,
come base per il superamento del modo capitalistico di produzione e di
vita, deve costituire oggi il fulcro dell’azione politica. È in questa
prospettiva che vanno condotte le lotte sul livello politico-statale.
Per Lenin e per il marxismo tradizionale la soppressione dello Stato era
solo una musica dell’avvenire. Invece oggi l’emancipazione sociale deve
porsi come contenuto, fin dal principio, la revoca graduale dello Stato nella società.
Questo
orientamento trae le sue radici direttamente dalla situazione storica
in cui viviamo. All’inizio del XX secolo lo Stato si trovava all’inizio
della sua carriera storica, nel corso della quale si sarebbe imposto nel
suo ruolo di universalità astratta su buona parte della superficie del
globo, con la sua ambizione di regolare quasi tutti gli ambiti e gli
interessi della vita sociale. Poteva quindi sembrare decisivo
conquistare la leva del potere statale – con la rivoluzione o mediante
le elezioni – per trasformare da lì la società.
Oggi sappiamo che
questa strategia rafforza la tirannia capitalistica – non di rado con
conseguenze spaventose –, ma questo non è ancora tutto. Lo Stato, nella
crisi fondamentale del capitalismo, si spoglia sotto ai nostri occhi del
suo carattere di universalità astratta. In qualche caso va incontro
alla disgregazione, lasciando campo libero al dominio delle
organizzazioni criminali e delle bande, con le quali almeno una parte
dell’apparato statale stringe alleanze generalmente vantaggiose. Oppure
abdica da tutti quei compiti che sono necessari per la garanzia delle
condizioni generali di vita, finchè a sopravvivere sono solo le funzioni
repressive, che vengono impiegate per organizzare l’esclusione sociale.
Tendenzialmente queste due forme di decorso si mescolano e
confluiscono, nel peggiore dei casi, in una dinamica centrifuga tra
poteri regressivi in competizione, che sfocia a sua volta in una guerra
civile latente o aperta. Quindi la lotta per l’emancipazione sociale è
essenzialmente una lotta per un’alternativa alla distruzione progressiva
dei fondamenti materiali della vita e alla disintegrazione regressiva
della società nel processo di crisi capitalistico. Sinistra significa
oggi combattere per la dismissione emancipatoria dello Stato e della
produzione di ricchezza capitalistica.
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