[La prima versione di questa intervista, curata da Fabio di Lenola e Aldo Scorrano, è uscita sul sito del Csepi]
Daniele
Tori si è laureato all’Università di Pavia in Scienze politiche e in
Economia. È membro del Greenwich Political Economy Research Centre e
membro del Post Keynesian Economics Study Group. Dal prossimo settembre
assumerà la posizione di Lecturer in Finance alla Open University (UK).
Attualmente si occupa di investimenti da un punto di vista
microeconomico, le evoluzioni del sistema finanziario, e i processi di
finanziarizzazione in generale.
* * *
Sono
ormai trascorsi quasi dieci anni dallo scoppio della crisi che ha
investito il mondo occidentale. In questo periodo l’Italia ha visto
l’alternarsi dei vari governi Monti, Letta e Renzi che si sono mossi,
sostanzialmente, in continuità con una linea o agenda europea di
politica economica che potremmo definire conservatrice. Alla luce di
quanto è emerso dall’operato di questi governi, possiamo dire che tale
“linea”, sia stata e continui ad essere fallimentare?
Questi
governi hanno essenzialmente provveduto, con modalità simili, a meri
aggiustamenti in senso restrittivo delle politiche di bilancio in
accordo con i dettami europei. Era già evidente in partenza che queste
politiche, frutto di una comprensione meramente tecnica della crisi
(regolamentazione del sistema bancario-finanziario, contenimento di
deficit e debito), sarebbero state fallimentari. Le vere cause, anche
per quanto riguarda la crisi statunitense dei sub-prime, sono
sicuramente da ricercare nei meccanismi fondamentali di funzionamento
delle economie capitalistiche avanzate, e non semplicemente in un
problema di “regolamentazione dei mercati”. Si tratta di analizzare una
complessa interazione tra fattori sociali e finanziari. Il
deterioramento nella distribuzione funzionale del reddito (tra
percettori di salari e di profitti) e nella distribuzione della
ricchezza si è tradotto, da un lato, in una domanda aggregata asfittica
e, dall’altro, ha incoraggiato comportamenti speculativi. L’economia
Italiana si trova oggi in una situazione molto seria e precaria,
soprattutto per la presenza di problematiche strutturali, non
necessariamente legati alla congiuntura recente. A mio avviso, i vari
governi Monti, Letta e Renzi non hanno minimamente scalfito le
ingessature di un sistema socio-economico che deve essere rimesso in
discussione ponendo al centro dell’azione politica, sociale ed
economica, le questioni principali: lavoro, distribuzione del reddito e
della ricchezza, investimenti. Focalizzarsi su questi punti significa
interrogarsi criticamente su passato, presente e futuro della struttura
socio-economica del sistema Paese, senza dimenticare la dimensione
internazionale (non limitata al contesto europeo) all’interno della
quale quest’ultimo è inevitabilmente inserito. Ripercorrendo con la
memoria gli ultimi dieci anni non riesco a trovare nemmeno timidi cenni
alle questioni sopra elencate nel dibattito politico.
Questo
ossimoro denominato “austerità-espansiva” ha delle basi scientifiche o è
il frutto di ideologia, intesa nella sua accezione negativa?
L’idea
della austerità fiscale espansiva emerge attorno agli anni Novanta
quando, economisti quali Francesco Giavazzi, Alberto Alesina, e Roberto
Perotti sviluppano una critica secondo la quale, date certe condizioni,
le politiche fiscali espansive di tradizione keynesiana possono avere
effetti ‘non-keynesiani’, ovvero non stimolerebbero la domanda e,
inoltre, causerebbero un deterioramento delle finanze pubbliche e quindi
del sistema finanziario in generale. Sempre secondo questi autori, al
contrario, politiche fiscali restrittive “ben strutturate” possono avere
effetti positivi su investimenti, consumi ed esportazioni. Ormai famoso
è poi il caso della pubblicazione di Reinhart e Rogoff (2010) nel quale
i due autori affermano, sulla base dell’evidenza empirica, che un alto
rapporto debito/PIL sia negativamente correlato al tasso di crescita di
un’economia. Si è poi scoperto che l’esclusione selettiva di alcune
nazioni e periodi nelle serie storiche -alla quale si aggiunge un errore
grossolano di una formula del foglio Excel utilizzato dai due autori –
sarebbe alla base di questi risultati ottenuti pertanto con scelte ad
hoc. Tuttavia, al di là degli errori tecnici, quello che vorrei
sottolineare è la scarsa importanza data al concetto di causalità.
Infatti, se da un lato abbiamo gli strumenti per la costruzione di una
relazione statistica tra due o più variabili macroeconomiche, abbiamo
bisogno di una costruzione teorica che ne giustifichi i nessi causali.
Se può essere vero che un elevato livello del debito pubblico può
opprimere la crescita è altrettanto vero che un basso tasso di crescita
può causare un aumento del debito (ovvero il rapporto debito/PIL può
aumentare anche perché diminuisce il denominatore).
Sempre
riguardo alle basi scientifiche della cosiddetta austerità espansiva, in
un recente lavoro Botta (2015) rileva come a) la condizione teorica
necessaria affinché una riduzione della spesa pubblica abbia un effetto
positivo sui consumi sia potenzialmente possibile ma sostanzialmente
irrealistica; b) l’effetto sugli investimenti di una contrazione della
spesa è dubbio e dipende dagli effetti del consolidamento fiscale sul
rapporto deficit/PIL e di conseguenza sulla percezione degli operatori
finanziari circa la solidità delle finanze pubbliche e del sistema
finanziario nel suo insieme. Inoltre, misure di austerità volte a
ridurre i salari reali per aumentare la competitività internazionale
poggiano sul “pericoloso mito” degli effetti benefici dell’abbassamento
del costo unitario del lavoro (Storm, 2015).
In sostanza, le basi
scientifiche ed empiriche sono molto deboli. Tuttavia, le istituzioni
nazionali e internazionali hanno preso per vera e solida questa visione.
Condita con l’equazione Stato=famiglia, ovvero che il settore pubblico
debba ridurre la spesa in caso di cicli economici negativi proprio come
si comporterebbe un “buon padre di famiglia”, essa va a formare la base
delle politiche di austerità le quali, in ultima analisi, sono servite a
giustificare interessi particolari mascherati da interesse economico
generale.
I punti cardine dell’economia-mainstream
sono rintracciabili, in sostanza, nei seguenti postulati: un individuo
razionale che massimizza la propria utilità e nel principio della
concorrenza. Cosa c’è di vero in questi due dogmi?
I principi
di massimizzazione e massimizzazione vincolata dell’utilità sono
categorie eleganti ed affascinanti dal punto di vista modellistico.
Tuttavia, ci possono dire poco rispetto alla descrizione dei
comportamenti degli agenti economici e presuppongono una visione
dell’economia essenzialmente basata sul consumo. Qualsiasi tipo di
massimizzazione presuppone una conoscenza perfetta dell’insieme delle
probabilità riguardo a passato presente e futuro. Trovo in questo caso
più appropriata l’idea di Keynes secondo cui gli individui si muovono in
un mondo caratterizzato da incertezza fondamentale. Nella realtà,
infatti, i comportamenti dei soggetti economici prendono forma secondo
una “razionalità limitata”, ovvero sono in grado di valutare un set
limitato delle informazioni a loro disposizione.
In aggiunta, il
modello di concorrenza perfetta, prima che di poca aderenza con la
realtà, soffre di inconsistenze logiche interne. Ad esempio, F.A. Hayek
rileva che, se si accetta la definizione secondo la quale l’economia è
la scienza della scarsità, questo significa appunto che tutte le risorse
sul quale il sistema economico si basa, sono scarse. L’informazione è
una risorsa produttiva ed è essenziale per il funzionamento del modello
di domanda e offerta. Il modello presuppone inoltre la perfetta
conoscenza e informazione da parte di tutti gli attori. Quindi, si ha
che la conoscenza è una risorsa illimitata per chiunque. Quest’ultima
non è quindi trattata come una risorsa scarsa, ovvero come dovrebbe
essere secondo tale impostazione.
Questo modello presuppone
perfetta competizione. Ma se questa non si realizza, possiamo tracciare
le canoniche curve della domanda e dell’offerta? La risposta è
chiaramente negativa. Le curve di domanda e offerta possono essere
tracciata solo assumendo che tutti i consumatori e le imprese sono
“price-taker”, ovvero assumono il prezzo di un bene o servizio come
dato, e non hanno quindi potere di “controllo sul mercato”. La
cosiddetta “welfare economics” ha come postulato principale quello
secondo il quale il surplus dei consumatori è massimizzato quando il
prezzo di un dato bene eguaglia il costo marginale di produzione del
bene stesso (o costo unitario di ri-produzione). Da questo abbiamo che i
consumatori stanno meglio se la struttura di mercato è il più prossima
possibile alla concorrenza perfetta, nella quale la eguaglianza di cui
sopra è garantita. Al contrario, i consumatori sono negativamente
influenzati da condizioni di oligopolio/monopolio poiché vedono ridursi
il loro surplus. Ma come si creano i monopoli? Un economista mainstream
potrebbe optare per la risposta più’ ovvia e superficiale: i monopoli
sono il risultato di una decisione governativa. Un’analisi più’
approfondita può rivelare un aspetto interessante: in un mercato
competitivo caratterizzato da rendimenti di scala crescenti (costi in
diminuzione all’aumentare della scala di produzione) vi è appunto un
incentivo per le imprese a crescere in dimensione. Essere in
competizione significa che le imprese meno efficienti falliscono, oppure
vengono acquisite da quelle più efficienti. Quindi, è la competizione
in sé che riduce il numero di concorrenti e aumenta il potere di mercato
delle imprese sopravvissute e quindi vincitrici! Ci sono molti casi
reali dove è possibile rintracciare questo meccanismo, soprattutto
guardando agli Stati Uniti, considerata la patria del libero mercato.
Basti infatti guardare alle evoluzioni negli ultimi trent’anni di
mercati quali quello dell’aviazione, dell’intrattenimento, l’alimentare
e, in parte, anche del settore bancario.
In più, credo che le
unità di analisi più feconde siano, ancora, le classi sociali. Tuttavia,
credo che una nuova via di ricerca sia quello di tradurre queste
categorie tenendo conto delle trasformazioni che stanno interessando la
produzione capitalistica, il lavoro e i mercati finanziari.
Da un
altro punto di vista, io credo che, se accettiamo il cosiddetto mercato
come una categoria la cui analisi non può prescindere da considerazioni
riguardo a strutture dinamiche di potere (e di sfruttamento), la
concorrenza causa inevitabilmente situazioni di oligopolio, duopolio o
monopolio.
A mio avviso, utilizzare modelli di concorrenza per analisi economiche è molto rischioso e può portare a conclusioni errate.
Alcuni
sostenitori dell’uscita dell’Italia dall’euro (noi lo siamo ma con
delle prospettive differenti) raccontano che nell’ipotesi del ritorno ad
una valuta nazionale “il mercato” prezzerà correttamente il valore
della nuova valuta mediante il meccanismo della domanda e dell’offerta e
questo movimento permetterà all’economia italiana di recuperare
competitività sui mercati internazionali. In un mondo in cui i mercati
monetari sono dominati dai movimenti di capitale, nella maggior parte
per scopi speculativi, cosa resta nel meccanismo della domanda e
dell’offerta?
Come ho cercato di spiegare prima, i meccanismi
del modello di domanda e offerta soffrono di numerose inconsistenze
logico-applicative. In più, applicare questa struttura per un’analisi
dei mercati finanziari può portare a conclusioni errate o parziali.
Aspettarsi una prezzatura corretta della nuova Lira è un ragionamento
che pecca di ingenuità.
In aggiunta, non guarderei al recupero
della competitività internazionale come a una variabile a cui tendere
per sé. Credo che l’Italia abbia un’economia di dimensioni adeguate per
puntare primariamente lo sguardo a un rilancio della domanda interna, in
particolare gli investimenti, intesi soprattutto come rilancio delle
infrastrutture economiche e sociali. Una convinzione ben radicata è che
problemi relativi al costo unitario del lavoro siano le principali
determinanti della competitività internazionale e della bilancia
commerciale. In più, la riduzione dei salari in un Paese produrrà
riduzioni simili in altri Paesi che vogliano seguire lo stesso sentiero
di competitività. Questa politica paradossale ha prodotto, e continuerà a
sostenere, una corsa al ribasso sui salari che pone vincoli seri alle
esportazioni nel lungo termine (i salari del Paese A sono fonte di
domanda di importazioni per il Paese B, e viceversa), ovvero la
variabile che si voleva migliorare proprio attraverso alla compressione
dei salari e dunque dei costi di produzione.
Infine, vorrei fare
riferimento al lavoro di Nadia Garbellini ed Emiliano Brancaccio
riguardo alle esperienze passate di abbandono di aree valutarie
(Brancaccio e Garbellini, 2015). Questi autori rilevano come, se dal
punto di vista empirico lo spauracchio della crisi inflattiva non trovi
sostegni concreti, gli effetti sui salari reali e la distribuzione del
reddito devono essere valutati con cautela, soprattutto poiché dipendono
dalle specifiche configurazioni socio-politiche della nazione/area in
analisi. In aggiunta, per comprendere le potenziali conseguenze sul
sistema economico bisogna anche tener conto della struttura produttiva e
in particolare della sua dipendenza da importazioni di beni intermedi e
di consumo.
La nostra idea è che l’uscita dall’euro
sia un fattore necessario ma non sufficiente. Inoltre l’uscita sarebbe
necessaria per riacquisire libertà di manovra a livello di bilancio
pubblico. Si può concordare sul fatto che la nuova valuta consentirebbe
maggiore discrezionalità di spesa rispetto all’attuale assetto
dell’euro, con conseguenti effetti benefici sull’occupazione?
Esattamente.
Credo che una nuova valuta sia una condizione necessaria ma non
sufficiente per avere maggiore discrezionalità per quanto riguarda la
politica economica. A mio avviso, vi sono alcuni elementi importanti da
considerare. Tra questi, il fatto che l’uscita dall’Euro non
assicurerebbe automaticamente l’elezione di un governo lungimirante.
Inoltre, pur assumendo un governo seriamente orientato alla piena
occupazione, due problemi resterebbero:
1)
Come sappiamo l’articolo 81 della Costituzione Italiana è stato
modificato introducendo un sostanziale pareggio di bilancio, limitando
la flessibilità del decisore pubblico nella determinazione dei volumi di
spesa pubblica. Oltre alle difficoltà provenienti dall’esterno, ci si
dovrebbe confrontare con un percorso legislativo abbastanza lungo.
2)
Ammesso di poter superare il precedente problema abbastanza in fretta,
non si dovrebbe sottovalutare il ruolo della struttura di potere in cui
si sviluppano gli eventi economici. Non mi sento di condividere il mero
idealismo che porta ad una visione strumentale dell’apparato Statale.
Questo aspetto è ben analizzato da Kalecki (1943), il quale si focalizza
sull’effetto del potere capitalistico sia nella società che nello
Stato. Politiche volte all’ottenimento del pieno impiego metterebbero a
rischio i “privilegi” (reddito, status sociale, influenza politica,
etc.) della classe capitalistica e imprenditoriale. A mio avviso,
pensare che questi ultimi possano passivamente assistere al loro declino
senza reagire è, ancora una volta, una visione piuttosto ingenua.
Da
un punto di vista strettamente economico, inoltre, l’uscita dall’Euro
implicherebbe il confrontarsi con una gestione molto complessa di
numerosi aspetti (gestione del debito estero, salvaguardia e
ripensamento del sistema bancario, etc.). A mio avviso, l’uscita dal
sistema Europeo dovrebbe essere inserita in un ripensamento generale del
sistema-Paese, il quale richiede condizioni politiche di partenza al
momento difficili da rintracciare.
Spesso, se non
sempre, i canali d’informazione nazionale, a mezzo stampa o tv, ci
propinano concetti che, dal nostro punto di vista critico, rappresentano
dei veri e proprio luoghi comuni che inevitabilmente influenzano
l’opinione pubblica, tipo: il debito pubblico è un onere per le
generazioni future; la moneta è un semplice mezzo di scambio; un mercato
del lavoro più concorrenziale aumenta l’occupazione; un bilancio
pubblico in pareggio favorisce gli investimenti privati; le banche
fungono da intermediari tra risparmiatori e investitori. Condivide la
nostra critica? Se si, ce li può sfatare?
Condivido in pieno
l’idea che l’informazione economica soffra di un deficit di
approfondimento. Concetti complessi vengono presentati con
argomentazioni che fanno leva su intuizioni spicciole, cui fa da
specchio un’analisi economica superficiale e interessata. Tuttavia,
anche nel mondo accademico si assiste allo stesso tipo di perseveranza
nel non mettere in discussione concetti e metodi di analisi consolidati.
I luoghi comuni sono una delle conseguenze della monoliticità teorica
che caratterizza gli ambienti accademici. Qualcosa sta cambiando (si
vedano tra le altre le esperienze delle Università di Leeds, Greenwich e
Kingston) ma l’informazione sembra stentare a recepire un pluralismo
che sta rinascendo. Sfatare questi “miti” richiede un’analisi
approfondita, a rimarcare la complessità delle categorie
socio-economiche. Un dato interessante è quello riguardo alla crescente
consapevolezza da parte degli studenti di economia, specialmente nel
Regno Unito, del bisogno di un cambiamento nell’educazione
universitaria.
Il debito non è un onere per le generazioni future.
Abbiamo già visto che non esiste una base empirica per sostenere la
negatività di un certo livello di debito. E’ bene sottolineare come la
preoccupazione per un onere futuro poggia sull’assunzione che, in un
dato momento, il debito debba essere necessariamente ridotto o
addirittura estinto. Le future generazioni vedranno ridursi i servizi
pubblici o, allo stesso modo, dovranno versare maggiori imposte. Questo,
si pensa, al fine di permettere allo Stato di poter rimborsare il
debito grazie agli avanzi di bilancio. Poniamoci una semplice domanda:
chi detiene il debito pubblico? Ovviamente il debito pubblico è una
componente della ricchezza di privati cittadini. Significa,
sostanzialmente, che ci indebitiamo con noi stessi! Un punto sviluppato
dal professor Roberto Ciccone (2012) con cui mi trovo d’accordo sostiene
che, se le generazioni future decideranno che il debito pubblico dovrà
essere ridotto e dovranno sorbirsi un maggior carico fiscale (o
riduzione dei servizi), questo sarà comunque compensato dallo stock di
debito (ricchezza privata) che essi erediteranno dai precedenti
detentori dei titoli. In più, la larga parte del debito italiano è
detenuta da banche e istituzioni finanziarie italiane, credo poco
preoccupate delle loro relazioni intergenerazionali. In aggiunta, credo
sia importante distinguere tra la spesa corrente e la spesa per
investimenti come componenti del debito pubblico. Se è vero che la prima
possa essere razionalizzata (sempre comunque garantendo un livello di
welfare appropriato), la seconda è una variabile che crea ricchezza nel
lungo periodo. Se anche dovessimo pensare che il debito presente crei
maggiori costi in futuro, è anche vero che i maggiori beneficiari delle
infrastrutture finanziate dal debito saranno appunto le generazioni
future, per le quali sarà quindi logico prendersi carico della spesa
necessaria.
Un discorso più complesso riguarda gli effetti futuri
della porzione di debito detenuta da operatori esteri, ma questo per il
momento non sembra essere un problema per l’Italia in quanto assistiamo,
almeno dal 2007-2008 ad un processo di sostanziale
“ri-nazionalizzazione” del debito.
La moneta non è un semplice
mezzo di scambio. A questo punto vorrei rispondere a mia volta con una
domanda che lo stesso J.M. Keynes pone ai suoi lettori nella Teoria
Generale dell’occupazione, dell’Interesse e della Moneta: se la moneta è
un semplice velo che agisce da lubrificante per lo scambio di beni,
perché assistiamo continuamente a meccanismi di accumulazione di moneta
da parte degli agenti economici? Se accettiamo il fatto di vivere in un
mondo caratterizzato da incertezza fondamentale, e che quindi non si
possa predire il futuro, la moneta diviene un mezzo a disposizione degli
agenti economici per affrontare questa incertezza con maggiore
flessibilità. Inoltre, la moneta può essere accumulata come riserva di
ricchezza, e quindi per fini speculativi.
Un mercato del lavoro
più concorrenziale non aumenta l’occupazione. Si scrive concorrenza nel
mercato del lavoro si legge riduzione del potere contrattuale della
forza lavoro. Infatti, dal mio punto di vista i datori di lavoro,
essendo coloro che decidono il volume degli investimenti e quindi
dell’occupazione, sono in una posizione contrattuale privilegiata nel
cosiddetto “mercato del lavoro”.
Le evidenze empiriche, a partire
dal lavoro di Arthur Okun, Nicolas Kaldor e Petrus Verdoorn mostrano una
robusta relazione positiva tra prodotto, produttività e occupazione.
Secondo la “quasi dimenticata” legge di Kaldor-Verdoorn, nel sistema
economico la variabile indipendente è il prodotto (output), mentre la
variabile dipendente risulta essere la produttività del lavoro. Questo
significa che il tasso di crescita della produttività è una conseguenza,
e non la causa, del tasso di crescita della domanda aggregata.
Detto
questo, possiamo vedere come il continuo richiamo al problema della
bassa produttività del lavoro in Italia focalizzi l’attenzione sulla
variabile sbagliata: con avanzi primari di bilancio pubblico (entrate
mano spese al netto degli interessi sul debito), uniti ad una dinamica
della distribuzione del reddito a sfavore dei percettori di salario
(lavoratori dipendenti) abbiamo una riduzione della domanda aggregata (e
quindi degli investimenti), la quale è la causa fondamentale della
caduta della produttività del lavoro. Sul lato dei consumi, un mercato
del lavoro concorrenziale significa un salario più basso. Questo è visto
con favore dal singolo imprenditore siccome si tratta di una riduzione
di costo produttivo. Tuttavia, per l’economia aggregata il salario è
fonte di domanda. Salario più basso (e magari più incerto) significa
domanda più bassa. Riguardo agli investimenti, se accettiamo che essi
dipendano dalla domanda aggregata attesa di beni e servizi, un minor
consumo ridurrà gli investimenti e quindi la domanda di nuovi occupati
da parte delle imprese. Secondo questi meccanismi, il livello di
occupazione diventa quindi la variabile residuale che dipende, in ultima
analisi, dalla crescita della domanda aggregata.
In aggiunta, il
lavoro è prima di tutto un rapporto sociale e non può quindi essere
discusso, analizzato e compreso secondo meri meccanismi di mercato, o in
termini di parametri tecnici. In un recente studio sul Regno Unito,
viene analizzata la relazione tra la quota dei salari, la forza dei
sindacati e la crescita economica (Onaran, Guschanski, Meadway, and
Martin, 2015). Gli autori mostrano come nel Regno Unito la quota dei
salari si sia ridotta notevolmente, seguendo una traiettoria comune alla
maggior parte dei Paesi europei. Allo stesso tempo, la quota dei
lavoratori iscritti al sindacato é scesa dal 50% al 25% in poco più di
tre decadi. Queste due tendenze sono l’esito di, tra gli altri fattori,
politiche governative volte a “riformare” il mercato in senso
concorrenziale con un effetto negativo sui salari. Il reddito nazionale
inglese, sostengono gli autori sulla base del loro studio, è trainato
dalla domanda proveniente dai reddito da lavoro, piuttosto che dai
profitti delle imprese. Gli autori concludono che la diminuzione della
presenza sindacale ha avuto come risultato finale una minor crescita
(stimata in una perdita pari a -1.6% per il periodo in analisi). Più che
ad una maggiore flessibilità del mercato del lavoro si dovrebbe pensare
ad una ri-regolamentazione di questo “non-mercato” verso una
contrattazione collettiva caratterizzata da un ruolo attivo dello Stato
nel provvedere alla definizione e controllo di strutture di
contrattazione settoriali. In aggiunta, è necessario un orientamento
delle politiche macroeconomiche volte al pieno impiego, al fine di
(s)bilanciare le relazioni di potere e il sistema economico in generale.
Un
bilancio pubblico in pareggio non favorisce gli investimenti privati. I
sostenitori di un budget pubblico perfettamente bilanciato (Spesa
governativa = Tasse + imposte) credono che, in caso di deficit (Spesa
> Tasse + Imposte), il governo sarà costretto a prendere a prestito
moneta e quindi, date le dimensioni del settore pubblico e quindi delle
somme che può richiedere, questo produca una pressione al rialzo sul
tasso di interesse reale (il prezzo del denaro al netto
dell’inflazione). Il risultato sarà quello di un tasso ovviamente più
alto di quello che si avrebbe se il settore pubblico non dovesse
ricorrere al risparmio privato. Di conseguenza, dato l’alto costo del
denaro gli imprenditori sarebbero scoraggiati ad accendere prestiti per i
loro progetti di produzione. In altre parole, si dice che il
“costo-opportunità” di prendere a prestito per i privati è aumentato,
cosicché progetti di investimento che prima sembravano profittevoli
vengono scartati sulla base del nuovo livello del tasso di interesse,
appunto perché troppo “costosi”. Questo incide ancor più negativamente,
alcuni sostengono, sulle imprese di piccole dimensioni che hanno più
difficoltà a sopportare rialzi dei tassi, dato che si trovano in una
posizione strutturale di “vincolo finanziario”. Secondo i sostenitori
del balanced budget sostengono quindi che i deficit governativi “spiazzano” gli investimenti privati.
A mio avviso ci sono due critiche principali a questa visione.
In
primo luogo, anche se lo spiazzamento è possibile in teoria, i deficit
pubblici hanno anche un effetto opposto a quello descritto sopra.
Infatti, una maggior spesa pubblica avrebbe come effetto primario un
aumento della domanda aggregata totale (dato che, assumendo un’economia
chiusa, il PIL è la somma di consumi ed investimenti privati più consumi
ed investimenti pubblici), creando quindi nuove opportunità di vendita
per il settore produttivo in generale (per la precisione, questo accade
in una condizione di sotto-utilizzo della capacità produttiva, la quale
sostanzialmente caratterizza i sistemi economici negli ultimi decenni).
Il settore privato, a sua volta, sarà spinto ad incrementare gli
investimenti per soddisfare la domanda attesa. È facile intuire come
questo effetto sia ancor più importante in situazioni di incertezza
sulle condizioni economiche da parte degli imprenditori. Questo è quello
che in gergo viene chiamato “effetto moltiplicatore fiscale” della
spesa pubblica.
In secondo luogo, come ho cercato di spiegare in
risposta ad una precedente domanda, le evidenze empiriche supportano la
visione per la quale il tasso di investimento dipende maggiormente dalla
domanda effettiva attesa, piuttosto che dal livello del tasso di
interesse. Facendo riferimento al periodo che stiamo vivendo ora in
Europa, abbiamo che, seppur in presenza di tassi di interesse reali pari
a zero (o addirittura negativi) il tasso di accumulazione nella maggior
parte dei Paesi europei rimane sostanzialmente stagnante.
Le
banche, e il sistema finanziario in generale, non fungono da
intermediari tra risparmiatori e investitori. Le banche sono le
istituzioni che creano la moneta-credito concedendo prestiti per la
produzione, facendo sì che i crediti creino i depositi, e non viceversa.
Questo è un fatto ormai accettato anche da istituzioni sostanzialmente
“ortodosse” quali la Bank of England, la quale ha recentemente ha
pubblicato un report divulgativo sull’argomento (Bank of England, 2014).
In
aggiunta, la crescita del valore aggiunto riconducibile al settore
finanziario evidenzia una disconnessione sistemica tra le dimensioni di
quest’ultimo e le esigenze di finanziamento per la produzione del
settore “reale”. Analizzando dati dell’OECD è possibile osservare che,
negli anni Settanta il valore aggiunto del settore finanziario
(Financial Insurance and Real Estate) in rapporto al PIL si aggirava
attorno al 15-20% nelle principali economie avanzate. Nel 2008, questo
rapporto si aggira attorno al 30-35%. A questo aumento non si è
associata una equivalente crescita del valore aggiunto creato dal
settore manifatturiero. In un recente studio da me co-autorato (Tori e
Onaran, 2015), ci concentriamo sulla relazione tra il sistema
finanziario e quello produttivo nel caso del Regno Unito. L’evidenza è
di un effetto negativo sia dei pagamenti che degli introiti che le
imprese produttive manifatturiere consegnano e ricevono dal sistema
finanziario. Il crescente orientamento del settore non-finanziario verso
attività finanziarie non-operative porta a minori investimenti in
capitale fisso, e quindi ad una crescita stagnante e/o precaria. Questo
meccanismo, associato ad una riduzione del reddito da lavoro, produce
effetti negativi anche sulla produttività di lungo termine.
I
moderni mercati finanziari non svolgono esclusivamente un ruolo di
semplice intermediazione. In un recente lavoro con alcuni colleghi
(Botta, Caverzasi, Tori, 2015) analizziamo ciò che viene chiamato
“shadow-banking system”, evidenziando le relazioni tra quella che è la
versione più evoluta di mercati e istituzioni finanziarie e l’economia
reale. La nostra analisi cerca di chiarire che il sistema finanziario
consente sì il funzionamento delle economie capitalistiche ma, allo
stesso tempo, nuove interazioni all’interno del sistema finanziario
possono influenzare indirettamente le dinamiche reali attraverso una
variazione nel meccanismo di concessione del credito, dando così vita a
turbolenti cicli espansione-crisi.
E’ infine interessante rilevare
come centri di ricerca di istituzioni quali l’OECD e IMF mettano in
dubbio la relazione aurea tra sviluppo dei mercati finanziari e crescita
(OECD, 2015; Sahay et. al., 2015). Il sistema finanziario sostiene
l’economia reale ma, quando la sua dimensione non giustifica i bisogni
dell’economia reale, questo riduce la crescita di lungo termine.
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