Il
5 novembre del 2008 la regina d’Inghilterra visitò la prestigiosa
London School of Economics e durante la cerimonia fece una domanda
passata alla storia come “la domanda della regina”. Ci sono delle
versioni discordanti sulle parole esatte che ha utilizzato, ma il senso
è questo: “Come mai la maggioranza degli economisti non ha previsto la
crisi finanziaria del 2008?” Ricordiamo, infatti, che il fallimento
della Lehman Brothers nel settembre del 2008 ha dato origine alla più
grande crisi finanziaria dal 1929 e alla recessione di tanti paesi che
ancora dura, e che economisti di fama mondiale non sono stati capaci né
di prevedere la crisi né di interpretare quello che stava avvenendo
dopo che la bolla era già scoppiata.
Dieci autorevoli economisti inglesi
hanno poi scritto alla Regina una lettera, spiegando che una delle
ragioni principali dell’incapacità della professione di dare
avvertimenti tempestivi della crisi imminente è la formazione inadeguata degli economisti, concentrata sulle tecniche matematiche: così che “l’economia – l’economics – è diventata una branca delle matematiche applicate.”
Sono passati da quei giorni più di
quattro anni e la crisi si è approfondita, mentre nulla sembra essere
cambiato delle posizioni assunte sulla crisi dagli economisti che hanno
voce in capitolo nelle maggiori istituzioni internazionali e nel
governo degli stati. Qualcuno direbbe che, ultimamente, un numero
crescente di attori della crisi sta maturando una riflessione sugli
sbagli fatti e sulle possibili correzioni da mettere in pratica per
cominciare almeno a invertire la direzione del declino economico che si
è inesorabilmente affermata.
Molti dubbi hanno cominciato, infatti, ad addensarsi intorno alla tesi della cosiddetta “austerità espansiva”,
che ha tratto la sua ragion d’essere nel ritenere responsabile della
crisi la “finanza allegra” degli stati, ignorando (o facendo finta di
ignorare) che il dissesto dei bilanci pubblici è derivato dal
salvataggio pubblico di un sistema finanziario al collasso e collocato
ormai a una distanza siderale dalle questioni dell’economia reale. Ma i
ripensamenti sull’erroneità dell’ “austerità espansiva” sembrano
soprattutto aver riguardato gli effetti depressivi immediati che le
politiche di austerità hanno impresso al ciclo economico. Le valutazioni
prevalenti sull’origine della crisi sono ancora per lo più collegate
all’idea che l’economia possa subire degli shock, ma che sia poi in
grado di tornare allo stato della piena occupazione delle risorse, e che
sia sufficiente mantenere il controllo sulle turbolenze dei mercati
finanziari sotto il profilo della loro regolamentazione. Non fa invece
parte di queste valutazioni l’idea che la crisi finanziaria sia
l’epifenomeno di una profonda crisi dell’economia reale, una crisi di
domanda che la finanza ha drogato drogando sempre più se stessa. E’
evidente che la diversa interpretazione della crisi condiziona le
terapie che vengono messe in atto per un suo superamento e che,
naturalmente, gli esiti delle terapie saranno tanto migliori quanto più
il “modello” interpretativo della crisi ne catturi reali
caratteristiche e fondamenti.
Ed è qui che sorge il problema cruciale.
Quando si parla di economia non è
possibile infatti rapportarvisi alla stregua di una disciplina delle
scienze naturali, poiché l’oggetto del suo studio è la società con
caratteristiche storicamente determinate. Guardare a un “modello”
piuttosto che a un altro nell’interpretazione fondamentale dei fatti
economici, non significa quindi semplicemente introdurre assunzioni
alternative rispondenti ad uno statuto epistemologico in grado di
testarne la validità – così come accade nelle scienze naturali-, ma
significa sposare delle vere e proprie weltanschauung
diverse, visioni alternative del mondo in cui la componente egemonica
della cultura dominante in ogni dato periodo svolge un ruolo
determinante. In questo senso è possibile affermare che la genesi della
crisi, il suo svolgimento, le possibilità di uscirne nonché gli effetti
sulle economie che la attraversano, sono intrinsecamente collegati ad
un problema di egemonia culturale.
Il modo con cui la riflessione economica
prevalente si è rapportata alla crisi fin dal suo nascere è tipico
della visione mainstream, che affonda le sue radici nei riferimenti
principali della cosiddetta teoria neoclassica: l’economia è concepita
come una scienza che studia le scelte alternative tra risorse scarse, e
il mercato è il luogo di allocazione ottima delle risorse, garantita da
soggetti razionali in grado di utilizzare tutta l’informazione
disponibile veicolata dai prezzi che di tali risorse misurano la
scarsità. Nel mercato si determina “naturalmente” un equilibrio che è il
punto di incontro tra domanda e offerta, secondo un processo che è di
tipo esclusivamente logico e che quindi prescinde totalmente dalle
diversità tra economie nel tempo e nello spazio. Eventuali scostamenti
dall’equilibrio del mercato, hanno solo natura temporanea perché il
sistema economico è destinato a convergere verso l’equilibrio. In tale
contesto la crisi non può essere prevista semplicemente perché non è
neppure concepita. Ed anche di fronte al suo manifestarsi è possibile
attribuirle il carattere della momentanea accidentalità, oppure
individuare imperfezioni del mercato che non consentono il
raggiungimento dell’equilibrio.
Molti economisti hanno infatti interpretato la crisi del 2008 attraverso il pregiudizio ideologico secondo cui la crisi finanziaria è stata innescata da cause del tutto imprevedibili, il fallimento della Lehman Brothers,
ma, giacché, i mercati liberi tendono alla stabilità, non ci sarebbero
state ripercussioni sull’economia reale. Questa interpretazione, che
ha influenzato l’opinione pubblica e le successive scelte politiche, è
originata da convinzioni teoriche secondo cui i mercati deregolati
dovrebbero essere efficienti e gli agenti razionali dovrebbero
aggiustare velocemente ogni prezzo non completamente corretto e ogni
errore di valutazione. Il prezzo dovrebbe dunque fedelmente riflettere
la sottostante realtà e assicurare l’allocazione ottimale delle risorse.
Questi mercati “equilibrati” dovrebbero essere stabili: perciò le
crisi possono essere innescate solo da grandi perturbazioni esogene come gli uragani, i terremoti o sconvolgimenti politici, ma certo non causate dal mercato stesso.
Questi pregiudizi teorici sono originati da un’eccessiva semplificazione
del problema in cui l’idealizzazione non è solo dissimile dalla
realtà, ma, in effetti, è completamente irrilevante alla sua
comprensione. I fisici che si occupano di complessità studiano da una
ventina d’anni sistemi che mostrano comportamenti intermittenti
molto simili a quelli dei mercati finanziari, in cui la natura non
banale delle dinamiche si origina da effetti collettivi. Le singole
parti hanno un comportamento relativamente semplice, ma le interazioni
portano a nuovi fenomeni emergenti così che il comportamento dell’insieme
è fondamentalmente diverso da quello dei suoi costituenti elementari.
Anche se uno stato di equilibrio esiste in teoria, questo può essere
totalmente irrilevante in pratica, perché il tempo per raggiungerlo è
troppo lungo e perché questi sistemi possono essere intrinsecamente
fragili rispetto all’azione delle piccole perturbazioni evolvendo in
modo intermittente con un susseguirsi di epoche stabili intervallate da
cambiamenti rapidi e imprevedibili. Per questo finché non s’interverrà
sulle cause endogene delle crisi, e sui preconcetti teorici alla base
dell’ineffabile equilibrio dei mercati liberi, altre crisi come quella
di cinque anni fa si potranno ripetere senza alcun preavviso.
Secondo la visione che ha segnato lo
stesso nascere della disciplina economica e che si afferma all’indomani
della prima Rivoluzione Industriale con il pensiero di Adam Smith,
l’economia è invece una riflessione scientifica sulla società, tesa a
studiarne le caratteristiche che ne assicurano le condizioni di
riproducibilità ed eventualmente di sviluppo in base a criteri di
divisione del lavoro, in un contesto sociale, istituzionale e normativo
che condiziona nel tempo e nello spazio ruolo e azione dei soggetti.
Non a caso si parla di economia politica, guardando al mercato come a
un complesso sistema istituzionale di norme storicamente determinato e
privo di qualsiasi connotato di naturalità, che non è detto che
assicuri il pieno impiego delle risorse.
L’approccio dell’economia politica è
dunque intrinsecamente predisposto a concepire il prodursi di crisi e la
necessità di operare nel mercato quei correttivi che assicurino almeno
la riproducibilità del sistema economico. Al di là delle diverse
versioni ed approfondimenti che si sono succeduti passando per Ricardo,
Marx per arrivare fino a Keynes, la visione dell’economia politica
resta ancorata a una rappresentazione del sistema economico in cui la
dimensione delle classi sociali e la diversità di interessi che a queste
si associano ne determinano un assetto fondamentalmente instabile[1].
Alla luce di ciò, è facilmente comprensibile come nella visione neoclassica
mainstream sia assente un qualsiasi ruolo della politica, e che questa
sia anzi subordinata ai mercati, agendo in una forma tutt’al più
tecnocratica al fine di facilitarne il funzionamento. La predominanza
trentennale di questa visione ha tuttavia prodotto una specifica
egemonia culturale che, nonostante il perdurare della crisi, è dura a
morire. E, in effetti la visione neoclassica mainstream appare dotata di
una intrinseca capacità di sopravvivenza: la dimensione del sistema
economico come dato di natura suscettibile di essere studiato secondo un
metodo che si confà alle leggi delle scienze naturali, è un aspetto di
fondo che la caratterizza e che porta ad escludere l’esistenza di
qualunque dimensione ideologica alternativa con la quale confrontarsi.
In questo modo la visione neoclassica mainstream ha goduto (e tuttora
gode) della possibilità di blindarsi attraverso il portato assiomatico
dei suoi assunti. E così facendo lascia trasparire che le uniche
discussioni ammissibili siano quelle condotte entro la propria cinta
concettuale.
Questa situazione si traduce in un
predominio degli economisti mainstream nell’ambito accademico in ragione
del quale vi è una maggioranza di economisti di scuola liberista sia
nell’ambito dei media, che gioca un ruolo di orientamento dell’opinione
pubblica, che nell’ambito più propriamente politico: dalle istituzioni
internazionali ai governi stessi. E’ dunque interessante discutere più
in dettaglio il legame tra la ruolo accademico e politico degli
economisti, ed in particolare degli economisti mainstream. Mentre
la “domanda della regina” è stata la cartina di tornasole per
mostrare che ci fosse un problema fondamentale nell’attuale ricerca
economica, nello stesso periodo i cui questa domanda è stata posta è
stato reso pubblico il risultato della valutazione per le discipline
economiche in Inghilterra. Il risultato è stato sorprendente: l’economia
come disciplina non ha ottenuto solo un buon piazzamento, ma ha avuto
la migliore valutazione accademica di tutte le discipline in
Inghilterra.
La domanda che si pone Donald Gillies,
filosofo della scienza e studioso dei sistemi di valutazione della
ricerca, è la seguente: “Com’è possibile che una valutazione così errata
sia potuta accadere?” E’ chiaro infatti che ci sia un problema
fondamentale con l’attuale corso della disciplina economica se la più
grande crisi globale mai avvenuta dal 1929 è esplosa lasciando la
maggior parte degli economisti sorpresi. Per capire la sua
interpretazione è necessario fare un piccolo excursus nell’epistemologia
della scienza, perché è proprio in quest’ambito che la (apparente)
veste tecnico-scientifica e depoliticizzata dell’economia gioca un ruolo
chiave.
Thomas Kuhn nel suo magistrale La struttura delle rivoluzioni scientifiche
ha sviluppato una visione della scienze naturali che è diventata molto
nota e ampiamente accettata. Secondo Kuhn, le scienze naturali mature
si sviluppano per la maggior parte nel modo che egli descrive come
“scienza normale”. Durante il periodo di scienza normale, tutti i
ricercatori che lavorano nel campo accettano la stessa struttura
d’assunzioni, che Kuhn chiama “paradigma”. Tuttavia, questi periodi di
scienza normale sono, di volta in volta, interrotti da rivoluzioni
scientifiche in cui è rovesciato il paradigma dominante del campo e
sostituito da un nuovo paradigma. La differenza fondamentale tra le
scienze naturali e le scienze sociali è generalmente che nelle scienze
naturali, fuori dei periodi rivoluzionari, tutti gli scienziati
accettano lo stesso paradigma, mentre nelle scienze sociali i
ricercatori si dividono in scuole concorrenti. Ogni scuola ha il suo
paradigma, ma questi paradigmi sono spesso molto diversi l’uno
dall’altro. Il contrasto è dunque tra una situazione con un paradigma
singolo e una multi-paradigma.
Ad esempio, tutti i fisici teorici
accettano il paradigma il cui nucleo è costituito dalla teoria della
relatività e dalla meccanica quantistica. Questo non significa che i
fisici teorici contemporanei sono eccessivamente dogmatici: piuttosto
pensano che, in qualche momento nel futuro, ci sarà un’altra rivoluzione
nel campo, originata da qualche nuova scoperta sperimentale, che
sostituirà la relatività e la meccanica quantistica con alcune nuove, e
forse ancora più strane, teorie. Tuttavia, essi sostengono, la
relatività e la meccanica quantistica funzionano molto bene, nel senso
che spiegano i fenomeni naturali, e quindi è ragionevole accettarle per
il momento.
Se guardiamo all’economia troviamo una
situazione molto diversa: la comunità è, infatti, divisa in diverse
scuole. I membri di ciascuna di queste scuole condividono lo stesso
paradigma, ma il paradigma di una scuola può essere molto diverso da
quello di un altro. Inoltre, i membri di una scuola sono spesso molto
critici verso i membri di un’altra scuola. Le diverse scuole, che per
semplicità possiamo identificare in quella neoclassica, che ha il numero
più elevato d’aderenti al momento, nelle varie versioni del keynesismo
e nella scuola marxista, sono associate a ideologie politiche: in
particolare queste scuole sono disposte su uno spettro politico che va
dalla destra alla sinistra. Dunque, secondo Gillies, l’esame della
comunità dei ricercatori in economia ha portato alla seguente immagine:
questa comunità è divisa in una serie di diverse scuole di pensiero A,
B, C…, ognuna con il proprio paradigma. I membri d’ogni scuola hanno
una pessima opinione del lavoro di ricerca prodotto da altre scuole.
Ora, se un sistema di valutazione della ricerca è applicato a questo
tipo di comunità, quale risultato darà? La tesi di Gillies, che deriva
dallo studio di quello che è avvenuto in Inghilterra negli ultimi venti
anni, è che i lavori di ricerca dei membri di qualsiasi scuola che
abbia il maggior numero d’iscritti riceveranno la massima valutazione.
Nel caso specifico, la scuola dominate è quella dei neoclassici. In
questa situazione, con l’affermazione di una scuola di mainstream, le altre scuole vengono marginalizzate.
Mentre nell’ambito delle scienze sociali
questo è un fenomeno noto, nell’economia questo aspetto si lega ad un
altro che riguarda appunto la matematizzazione dell’economia: l’uso di
tecniche matematiche e statistiche proprie delle scienze dure che
fornisce all’economia una apparente veste tecnico-scientifico così che
il problema economico sembra che ammetta, come ad esempio nella fisica,
una soluzione derivata secondo il metodo scientifico. Questa situazione
è suggellata dal “premio Nobel per l’economia” che, al pari di quello
nelle scienze esatte, sembra mettere un marchio di qualità alle
scoperte nel campo. In realtà è bene ricordare che Alfred Nobel nel suo
testamento non scrisse d’istituire un premio per l’economia. Il
“Premio in Scienze Economiche della Banca di Svezia in memoria di
Alfred Nobel” è istituito 70 anni dopo il premio Nobel vero e proprio e
coloro che lo hanno promosso, conoscendo i principi basilari del
marketing, sono riusciti, con la “violazione di un marchio di successo”
a conferire un’aurea di prestigio alla scienza economica: è indubbio
infatti che ogni anno su tutti i quotidiani del mondo appaiono commenti
sui vincitori del Nobel e l’attenzione dei media, e dunque
dell’opinione pubblica, ai premiati, e conseguentemente a quello che
dicono e pensano, è altissima e certamente maggiore rispetto a
qualsiasi altro premio grazie al prestigio di un marchio di successo.
La combinazione tra veste matematica
dell’economia, con la sua apparenza tecnico-scientifica, e la sua
apparente depoliticizzazione ha dato luogo alla falsa rappresentazione
che l’economia sia una scienza al pari della fisica, per cui le
soluzioni che vengono proposte sono soluzioni tecniche risultato di
analisi scientifiche. Gli economisti mainstream hanno utilizzato questa
ideologia. Ad esempio Milton Friedman, sosteneva che l’unica cosa che contava nell’economia era il suo potere predittivo proprio come la fisica. Più recentemente Luigi Zingales
scrive nel suo Manifesto Capitalista: “La storia della fisica nella
prima metà del XX secolo è stata una straordinaria avventura
intellettuale: dall’intuizione di Einstein del 1905 sull’equivalenza tra
massa e energia alla prima reazione nucleare controllata del 1942. Lo
sviluppo della finanza nella seconda metà del Novecento ha
caratteristiche simili”. La finanza come la teoria relatività, la
meccanica quantistica e la fisica nucleare: dunque una visione
dell’economia molto pretenziosa.
Da questo atteggiamento è nata quello
che si chiama “l’invidia per la fisica”, disciplina quest’ultima che
basa il suo sviluppo su di un confronto serrato tra teoria e
esperimento. Anche gli economisti neoliberisti dichiarano di procedere
ad una verifica empirica delle loro teorie: ma quando gli economisti “si
sporcano le mani con i dati” (come alcuni dichiarano di fare)
siamo sicuri che il risultato alla fine non sia quello di “sporcare i
dati con le ideologie”, con quelle ideologie (preconcetti considerati
veri a prescindere dall’osservazione empirica) che invece guidano molte
delle ricette che sono propinate come soluzioni scientifiche? Certo è
che la falsificazione di una teoria scientifica è altra cosa
dall’utilizzare alcuni dati opportunamente selezionati o accuratamente
manipolati per portare acqua al proprio mulino. Sembra che si voglia la
botte piena e la moglie ubriaca: il prestigio di una scienza dura senza
pagare il dazio della falsificabilità, che è la vera e unica chiave di
volta d’ogni scienza dura. Queste sono questioni fondamentali che
vanno poste perché se non si ammette che la crisi economica ha prodotto
una chiara crisi nei modelli economici dominanti, e se sono sempre i
soliti, indipendentemente dalla bontà delle loro previsioni, a
suggerire scelte cruciali in campo economico (ovvero in qualsiasi campo
della vita pubblica) avendo a disposizione l’intero universo mediatico
come accade in Italia, con ogni probabilità si continueranno a fare
scelte sbagliate che peggioreranno le cose, mascherandole però da
scelte dettate da una scienza naturale.
Per spiegare meglio il punto possiamo
fare un parallelo con quella che è considerata la “regina” delle scienze
dure, la fisica. I fisici hanno imparato a considerare criticamente
ogni teoria entro dei limiti ben precisi che sono dettati dalle
assunzioni usate e dagli esperimenti disponibili: hanno perciò da tempo
appreso a non scambiare ciò che avviene nel modello con ciò che invece
accade nella realtà. In fisica i modelli si confrontano con le
osservazioni per provare se sono in grado di fornire spiegazioni
precise, come ad esempio la processione del perielio di Mercurio che con
la Teoria della Relatività Generale può essere calcolata di circa
0,019 gradi per secolo in accordo entro 0,0005 gradi per secolo con le
misure sperimentali, oppure di fornire previsioni di successo, come ad
esempio le onde elettromagnetiche postulate da Maxwell nel 1873 e
generate da Hertz nel 1887. Similmente, si può asserire che l’uso della
matematica nell’economia (neoclassica) serva ad un tale scopo? Oppure
questo uso si riduce ad un puro esercizio retorico in cui si fa sfoggio
di usare uno strumento (relativamente) sofisticato per calcolare
precisamente cose irrilevanti come capita in astrologia? Ad esempio,
secondo il filosofo della scienza Donald Gillies, “l’uso della
matematica in economia neoclassica non ha prodotto alcun spiegazione
precisa o previsione di successo”.
Per dipanare la questione si deve
rispondere a questa domanda: gli assiomi fondamentali usati in economia
sono sottoposti a test empirici? Ad esempio: i mercati liberi sono
efficienti o sono selvaggi? La risposta a questa domanda viene dalle
osservazioni o è un’assunzione indiscutibile? Questo è un punto cruciale
in quanto chi pensa che i mercati liberi siano efficienti e si
auto-regolino verso una situazione di equilibrio stabile sarà portato a
proporre un ruolo dei mercati sempre più importante e ad “affamare la
bestia”, lo Stato corrotto e clientelare. Chi pensa che i mercati liberi
siano invece dominati da fluttuazioni selvagge e intrinsecamente
lontani da un equilibrio stabile, generando invece pericolosi squilibri e
disuguaglianze, sarà indotto a proporre un maggiore intervento dello
Stato, cercando di migliorare l’efficienza di quest’ultimo.
Dunque il successo all’interno dell’università dell’economia mainstream,
oltre a delle implicazioni puramente accademiche, pur importanti, come
il fatto che le posizioni in ambito accademico vengono assegnate
soprattutto ai membri della scuola dominante, comporta una implicazione
politica fondamentale: quando è il momento di chiedere una consulenza
all’“esperto” su un tema specifico, a chi si rivolgerà il politico di
turno se non all’accademico? E, nel nostro tempo, quale categoria di accademici è la più ascoltata dai politici?
A questo proposito Luciano Gallino,
Giorgio Lunghini, Guido Rossi ed altri hanno recentemente scritto una
lettera in cui denunciano quella che è, a loro avviso, una gravissima
distorsione della realtà da parte dei principali media di questo paese:
“La politica è scontro d’interessi, e la gestione di questa crisi
economica e sociale non fa eccezione. Ma una particolarità c’è, e
configura, a nostro avviso, una grave lesione della democrazia. Il modo
in cui si parla della crisi costituisce una sistematica deformazione
della realtà e un’intollerabile sottrazione di informazioni a danno
dell’opinione pubblica. Le scelte delle autorità comunitarie e dei
governi europei, all’origine di un attacco alle condizioni di vita e di
lavoro e ai diritti sociali delle popolazioni che non ha precedenti nel
secondo dopoguerra, vengono rappresentate … come comportamenti
obbligati … immediatamente determinati da una crisi a sua volta
raffigurata come conseguenza dell’eccessiva generosità dei livelli
retributivi e dei sistemi pubblici di welfare. Viene nascosto
all’opinione pubblica che, lungi dall’essere un’evidenza, tale
rappresentazione riflette un punto di vista ben definito (quello della
teoria economica neoliberale), oggetto di severe critiche da parte di
economisti non meno autorevoli dei suoi sostenitori.”
I promotori di questa lettera non sono
gli unici a denunciare un certo monopolio dell’informazione in tema
economico. Ma c’è davvero un monopolio d’informazione? Per rispondere a
questa domanda in maniera quantitativa abbiamo cercato di identificare
chi tra i professori universitari d’economia ha maggiore spazio nei più
diffusi quotidiani italiani. Abbiamo dunque considerato la lista dei
professori di economia politica, che erano 704 nel 2008, e per ognuno
abbiamo contato quanti articoli hanno scritto su La Repubblica, Il
Corriere della Sera, Il Sole 24 ore e La Stampa negli ultimi 5 anni e
precisamente dal 1 gennaio 2007 al 31 dicembre 2011 (per questo abbiamo
utilizzato l’archivio della Camera dei Deputati). il risultato di questo studio è molto chiaro: c’è una netta predominanza
d’economisti di scuola liberista a cui sono affidati i commenti
economici sui principali quotidiani nazionali. E’, infatti, possibile
identificare gruppi connessi di editorialisti che sono anche coautori di
articoli scientifici e che dunque hanno la stessa visione del problema
economico. E’ interessante notare che il gruppo connesso principale è
formato da Francesco Giavazzi, Tito Boeri, Alberto Alesina, Luigi
Zingales, Roberto Perotti, Luigi Guiso, Andrea Ichino e Guido Tabellini,
tutti docenti o ex studenti dell’università Bocconi, la gran parte dei
quali si è avventurata nel fallimentare lancio del partito “Fermare il
declino” scegliendo come leader Oscar Giannino che ha poi abbandonato
la partita in quanto ha millantato falsi titoli di studio proprio in
economia.
Si potrebbe però argomentare: scrivono più articoli perché sono i migliori.
Tuttavia, come abbiamo discusso in precedenza, nell’economia ci sono
diversi paradigmi e, a differenza di quanto accade nelle scienze esatte
in cui è possibile una verifica sperimentale delle diverse teorie,
coesistono in maniera conflittuale e per questo il pluralismo di posizioni
è particolarmente importante. Ha oggi dunque ottime ragioni chi
denuncia che la crisi economica è presentata quasi esclusivamente come
una crisi del debito pubblico e non crisi delle banche, che hanno
accumulato quintali di prodotti finanziari tossici. Il megafono di
questa visione sono i soliti cultori del dio mercato e i seguaci delle
le dottrine neoliberali che, facendo passare per soluzioni tecniche
scelte ideologiche, “hanno goduto di un monopolio dei cervelli che non
ha precedenti nella storia”
“Il nuovo e vincente personaggio che sta attraversando la scena del
mondo è l’estrema destra economica che ormai comanda con forza brutale e
che ha finalmente rimpiazzato il vuoto lasciato nella storia
dall’estrema destra politica, ormai ridotta a poche caricature.
L’estrema destra economica ha visto il vuoto culturale e politico che
si è creato e si è inserita cercando di sovvertire la Costituzione
solidaristica italiana nei tre punti fondamentali del rimuovere ogni
controllo alle decisioni del settore privato, nel togliere al governo
dei cittadini il controllo e la responsabilità della spesa pubblica (il
cosiddetto vincolo di pareggio del bilancio) e nel mettere i
lavoratori in condizione di ubbidire senza parlare, se hanno la fortuna
di essere accolti dentro le mura di una delle fabbriche superstiti”.
Nella confusione politica generale che stiamo vivendo, le idee
dell’estrema destra economica hanno permeato i partiti di
centrosinistra in tutta Europa. In Italia il Partito Democratico, porta
avanti anche idee che altrove sono dell’estrema destra politica ed è
non di rado in balìa di gruppi di pressione molto ben organizzati. Gli
stessi che, presenti su tutti i media nazionali, come un sol uomo
continuano propugnare le stesse tesi appoggiati anche da riviste e
quotidiani di riferimento per i riformisti di questo paese, che danno
ampio spazio a queste idee. Nel vuoto generale questa lobby di pensieri
prefabbricati cerca di vendere a una politica ormai priva d’idee e di
contenuti la soluzione liberista come l’unica possibile, falsando i dati
e deformando la realtà. Per questo la battaglia culturale è
intrinsecamente legata a quella politica: senza un punto di riferimento
culturale l’azione politica rimane alla mercé di chi è più organizzato
per manipolare l’opinione pubblica.
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