sabato 14 dicembre 2013

Nota sul movimento dei forconi di Paolo Ferrero

Quelli che vogliono bloccare l'Italia il 9 dicembre
A sinistra la valutazione del movimento dei forconi è stata ed è assai differenziata. Per semplificare, da chi ha sostenuto che era un movimento fascista e golpista a chi ha sostenuto che si tratta di un genuino movimento di ribellione contro il neoliberismo. Non concordo con queste interpretazioni e provo qui di seguito a dare una prima lettura di cosa sta succedendo e di cosa è opportuno fare.
Innanzitutto considero necessaria una nota metodologica: di fronte a movimenti compositi, propri di una fase di guerra di movimento in cui tutto si muove rapidamente, è assolutamente necessario distinguere i fenomeni sociali dai fenomeni politici e distinguere all’interno di questi tra i comportamenti politici antagonisti (di vario colore e natura) dai comportamenti del potere costituito. Senza questa elementare distinzione sul piano analitico a mio parere non si capisce letteralmente nulla perché si tendono a fare delle equivalenze che forse potevano avere una loro validità nella fase precedente ma che oggi risultano false.
Utilizzando questa griglia di lettura mi pare di poter dire che:
1) Gli organizzatori del movimento dei Forconi non sono un corpo unico e hanno al loro interno significative forze di destra. Abbiamo il movimento dei Forconi vero e proprio, guidato da Ferro, come alcune aggregazioni degli autotrasportatori, di agricoltori o di artigiani. Abbiamo poi Forza Nuova e i gruppi ad essa contigui – o a cui essa ha dato vita come vere e proprie organizzazioni collaterali – giocano un ruolo significativo, così come altre sigle di destra – a partire da Casa Pound – sono bene presenti nell’organizzazione del movimento. In alcune realtà territoriali si sono poi aggregati nell’organizzazione degli eventi parti di ultras, generalmente legate a realtà di destra. Così come in talune realtà vi sono state significative presenze della malavita locale, che ha dato un supporto significativo all’organizzazione dei blocchi, al controllo del territorio, al carattere maschile ed autoritario di varie azioni.
Da questo punto di vista non è certo sbagliato dire che l’organizzazione della Rivolta dell’immacolata – come viene chiamata da Forza Nuova – ha una indubbia impronta di destra estrema, nonostante i riferimenti di fedeltà alla Costituzione repubblicana.
2) Il movimento non è stato identico in tutta Italia ma ha raccolto un grado di consenso assai ampio. Molti, anche coloro che hanno criticato pesantemente il movimento per le sue caratteristiche, hanno segnalato un grado di condivisione delle ragioni della protesta: non se ne può più. In molte regioni le iniziative non sono andate al di la dei promotori nazionali e sono stati quindi animate quasi per intero dai militanti dell’estrema destra e sono rimaste quindi – sul piano militante - un fenomeno quasi solo politico. In altre situazioni, la Rivolta dell’immacolata – al di là degli organizzatori - è diventata l’occasione per significativi settori sociali di esprimere la propria rabbia e il movimento ha quindi assunto le caratteristiche di un vero e proprio movimento sociale.
3) Significativo a questo riguardo il caso di Torino, la città più impoverita del Nord Italia. A Torino lo sciopero dei commercianti del lunedì 9 dicembre è stato totale. A Torino lunedì non era possibile comprare il giornale o bere un caffè. Vi sono certo state intimidazioni ma nella sostanza lunedì ha visto un consenso altissimo della categoria dei commercianti all’azione di lotta. All’interno dei commercianti il nucleo maggiormente determinato e militante è indubbiamente costituito dagli operatori dei mercati rionali e segnatamente di Porta Palazzo, che hanno un contenzioso aperto e molto pesante (occupazione della stazione di Porta Susa poche settimane fa) con il comune di Torino in merito al pagamento delle tasse locali. Accanto ai commercianti, ad agricoltori, a trasportatori ed artigiani (significativa la presenza di ditte edili che sono alla canna del gas in quanto non vi è lavoro) vi è stata una presenza di ultras ed in generale di settori di proletariato giovanile (sia studenti che disoccupati e precari) non politicizzato. La vicenda torinese è stata caratterizzata – in particolare nella prima giornata - dalla contestazione nei confronti del presidente della giunta regionale Cota (Lega) che è un esempio da manuale della casta verso cui cresce l’odio popolare. Cota e larga parte del consiglio regionale piemontese è al centro di una indagine sull’utilizzo allegro dei rimborsi spese da cui è emerso che Cota oltre a far un uso improprio dei rimborsi, si era fatto rimborsare anche un paio di mutande verde padano. Lo sdegno nei confronti di questa giunta che non se ne vuol andare a casa è quindi enorme e diffuso in tutti gli strati della popolazione. Mi pare di poter dire che la protesta nell’area torinese ha visto una partecipazione militante di meno di 10.000 persone (e quindi non certo enorme) ma ha avuto nella giornata di lunedì un estesissimo consenso sociale, poi ridottosi nei giorni seguenti, a causa delle intimidazioni - anche ai danni di commercianti che non volevano chiudere - dei disagi causati dai blocchi, del venir meno della volontà della stragrande maggioranza dei commercianti di proseguire la chiusura dei negozi.
Anche a Torino parlare di regia unitaria è una forzatura (vi erano rotonde presidiate da un gruppo e altre rotonde presidiate da altri in forte polemica con i primi, e così via) ma certo vi è stata un significativo tessuto militante che rappresenta una eccedenza rispetto alle forze che hanno organizzato l’iniziativa e un significativo elemento di consenso, che si è in parte ridotto con il passare dei giorni.
Tra la Val d’Aosta (dove praticamente non è successo nulla) e Torino, vi sono il complesso delle realtà italiane che hanno al loro interno un mix dei due fenomeni che ho proposto di analizzare separatamente e cioè il fenomeno politico (di destra) e il fenomeno sociale (ceto medio in via di impoverimento, poveri e proletariato giovanile, tutti assai incazzati).
4) Nel complesso mi pare di poter rilevare che il movimento dei forconi è stato un fenomeno che ha raccolto un significativo grado di consenso popolare (in larga parte inconsapevole delle forze che avevano organizzato l’iniziativa ed in parte indifferente a chi fossero gli organizzatori) in quanto ha espresso in forma plastica una rabbia che caratterizza la maggioranza degli italiani. Il movimento è stata quindi una occasione per esprimere una rabbia a lungo covata e il grado di simpatia verso le ragioni della rivolta (a prescindere dal giudizio sui vari aspetti della rivolta o sui suoi organizzatori) è stato – ed in larga parte permane – molto alto. I settori sociali maggiormente coinvolti sono stati il ceto medio impoverito o in via di impoverimento e il proletariato giovanile nelle sue mille sfaccettature.
5) Per quanto riguarda il comportamento degli apparati dello stato, cioè del potere mi pare necessario sottolineare alcuni elementi. La scelta del governo è stata quella di non reprimere il movimento, scelta che è stata poi progressivamente abbandonata dalla giornata di mercoledì. Parlo di scelta perché è stata la caratteristica unificante su tutto i territorio nazionale. In intere porzioni di territorio lo stato nelle giornate di lunedì e martedì semplicemente non ha fatto valere la propria sovranità.
Parallelamente abbiamo avuto l’azione di Forza Italia che ha all’inizio sostenuto il movimento e proposto un incontro con le organizzazioni promotrici. Man mano che il consenso del movimento è andato scemando questo atteggiamento è cambiato e Berlusconi ha “responsabilmente” evitato l’incontro. Conoscendo le relazioni tra centro destra e movimento dei forconi in Sicilia, è ipotizzabile qualche superficie di contatto maggiore di quelle cha appaiono a prima vista.
In generale mi pare di poter affermare che il movimento indubbiamente è stato visto di buon occhio di Forza Italia – banalmente per la richiesta di dimissioni dell’esecutivo – ma da qui a parlare di rischio di colpo di stato ce ne passa parecchio.
Un dato da analizzare a se - e che va del tutto oltre la scelta di basso profilo del governo di fronte alla violazione della legge - riguarda il significativo grado di consenso che il movimento ha riscontrato tra le forze dell’ordine. Potremo parlare di atteggiamento generalmente simpatetico. Basti pensare per non fare che un esempio che nella sola repressione della manifestazione degli studenti della Sapienza a Roma e di una manifestazioni studentesca a Torino sono stati nella giornata di giovedì fermati più militanti di quanto sia successo nei tre giorni precedenti in tutta Italia. Dire che sono stati usati due pesi e due misure è un eufemismo.
6) Gli obiettivi della protesta mi paiono raggruppabili in due filoni. In primo luogo le rivendicazioni delle parti di singole categorie che hanno promosso la protesta (trasporto, commercio, agricoltori, artigiani): in primo luogo il taglio delle tasse, nelle diverse particolarità in cui questa richiesta si può esprimere. Il tema del taglio delle tasse si allargava sul piano politico nella contestazione dell’Euro, dell’Europa e soprattutto del governo. Mentre il taglio delle tasse costituiva l’elemento sindacale presente nelle mobilitazioni, la contestazione nei confronti del governo e la richiesta di dimissioni, la critica ai partiti, al sindacato e l’identificazione col tricolore rappresentava il dato politico, unificante del fronte interno al movimento e contemporaneamente il terreno di costruzione di consenso all’esterno. Le rivendicazioni di una dittatura militare di transizione – che pure qualche dirigente del movimento ha espresso – non hanno certo caratterizzato l’immagine e il movimento medesimo. Ad esempio Forza Nuova ha prontamente avanzato la proposta di elezioni anticipate immediata con la legge elettorale proporzionale.
7) L’atteggiamento del Movimento 5 Stelle nei confronti della rivolta è stato il tentativo di porsi come il rappresentante del movimento, pur prendendo le distanze su vari episodi aventi nel corso delle giornate di mobilitazione. In generale mi pare di poter dire che il M5S si trova in sintonia di fondo con la cultura politica del movimento ma ne risulta spiazzato perché il M5S è sostanzialmente un fenomeno di rappresentanza politica di un paese incazzato ma passivizzato. Nella misura in cui la gente scende in strada direttamente il M5S viene spiazzato perché ogni forma di protagonismo sociale (a prescindere dalle sue forme e dai suoi contenuti) rappresenta una sorta di disturbo per un partito che chiede semplicemente di essere votato in modo da avere il 51% dei consensi. Da questo punto di vista il M5S più che essere un vero e proprio partito della crisi, in grado di lucrare e crescere sulla crisi sociale, mostra di essere più una sorta di parcheggio di voti per una fase intermedia della crisi. Nella misura in cui la gente è già incazzata e delusa ma ancora non si muove, il M5S svolge egregiamente la sua funzione. Nella misura in cui le persone iniziano a muoversi il M5S risulta spiazzato. Questo non vuol dire che il M5S svolge una positiva funzione di contenimento per evitare che “arrivi Alba dorata”. Questo significa che il M5S – che beneficia e amplifica il senso comune di massa sottoprodotto dalla crisi del neoliberismo – apre la strada ad ulteriori forme di radicalizzazione sociale con caratteristiche populistiche e non democratiche. Non si evoca impunemente l’uomo della provvidenza in tempi di crisi!
Il tema della rivolta sociale che questo movimento ha riportato all’ordine del giorno, non credo che sia un fatto passeggero o derivante principalmente dalle organizzazioni politiche di destra che hanno costituito l’ossatura organizzativa del movimento. Io penso che questa specie di ritorno all’800, “all’assalto al municipio” (cosa effettivamente avvenuta per 3 giorni a Nichelino, in Provincia di Torino), sia basata su un fatto strutturale. Fino a quando nel contesto della democrazia, vi è stata un equilibrio di poteri tra padroni ed operai, la forma prevalente del conflitto sociale è stata la contrattazione. Nel secondo dopoguerra e fino alla fine degli anni ‘70 questo è stato: stesura di una piattaforma, lotta e accordo che sanciva qualche conquista. Da quando la globalizzazione ha determinato una enorme disparità nei rapporti di forza tra le classi, questo schema è saltato e le lotte non hanno più prodotto risultati, al massimo hanno fermato o rallentato temporaneamente l’offensiva. E’ in questo contesto di strutturale messa in discussione della efficacia della contrattazione che il conflitto – in un contesto di frantumazione della classe e di debolezza o di inutilizzabilità delle sue organizzazioni - torna ad assumere il volto della rivolta, della ribellione. Se il potere tende a derubricare la questione sociale, trattandola sostanzialmente come questione di ordine pubblico – anche quando la repressione non viene posta in essere – invece che come questione politica, è abbastanza evidente che il ritorno alla rivolta è qualcosa di più di un incidente di percorso. I casi delle banlieu francesi o delle rivolte in Inghilterra sono li a testimoniarlo. Si noti come la tendenza alla rivolta è l’altra faccia della crisi verticale della politica ed in generale delle forze politiche e sindacali che sulla rappresentanza aveva costruito il proprio ruolo sociale. Nel senso comune di massa, se lo stato italiano non fa nulla di buono per il popolo, allora a cosa serve la politica? Diventa una funzione puramente parassitaria di una casta che pur non avendo alcuna utilità sociale vuole mantenere i propri privilegi. Dobbiamo quindi sapere che il futuro ci riserverà conflitti sociali spuri, che non avverranno nelle forme che noi consideriamo “normali”. La globalizzazione neolilberista nello svuotare progressivamente la democrazia rappresentativa pone quindi le condizioni strutturali per la crisi della politica e per la regressione del conflitto sociale a rivolta. Lo svuotamento della democrazia dall’alto pone le condizioni per una messa in discussione delle forme conosciute della democrazia dal basso. Come attraversare la rivolta con la capacità di ricostruire la democrazia partecipata è il punto posto alla sinistra di classe.
9) Se il ceto medio in via di impoverimento è stata l’ossatura sociale di questo movimento, occorre interrogarsi sulle sue culture politiche, sui suoi immaginari. Va fatto senza la puzza sotto il naso propria di quei professorini che ritengono che per esprimere una cultura politica occorra parlare in modo forbito ed essere in grado di fare dotte citazioni. A me pare che la cultura politica più diffusa è intrisa di liberismo - pensiamo solo alla centralità del tema della riduzione delle tasse – e per quanto riguarda gli strati giovanili caratterizzata dall’assenza di qualsivoglia memoria storica o nozione di classe. La memoria storica per gli adulti è la “fregatura” che porta a dire che sono tutti uguali. La memoria storica per i più giovani non contiene alcuna sedimentazione di passaggi rilevanti o identificanti: dalla resistenza al 68, tutto è stata tritato nel meccanismo dell’eterno presente proprio della televisione commerciale. Per quanto riguarda il ceto medio impoverito o i nuovi poveri, ci troviamo cioè di fronte a segmenti sociali il cui status e tenore di vita è messo radicalmente in discussione dalle politiche neoliberiste che però reagiscono agitando parole d’ordine liberiste. Mentre si invoca l’intervento del governo – ad esempio i sussidi in agricoltura - dall’altra si propongono misure che riducono il peso dello stato nell’economia. Mentre si esperimentano sulla propria pelle i disastri che produce il libero mercato (pensiamo solo ai disastri determinati sul tessuto del piccolo commercio dall’enorme sviluppo degli ipermercati), si protesta come se il mercato funzionasse benissimo e l’unico problema derivasse proprio dalla presenza dello stato. La rabbia nei confronti degli effetti della crisi non ha quindi prodotto alcun elemento di comprensione reale delle cause della stessa e conseguentemente delle strade che vanno percorse per uscirne. Questa confusione – che caratterizza larga parte della società italiana e non solo i ceti medi – deve essere assunta come il punto di partenza dell’intervento politico: alla mobilitazione contro gli effetti del neoliberismo non corrisponde oggi in Italia una consapevolezza della necessità di costruire una alternativa al neoliberismo. L’ideologia dominante che ha colonizzato i cervelli degli italiani con le stupidaggini neoliberiste e con la distruzione di ogni memoria e nozione del conflitto di classe è oggi l’unico pensiero – il pensiero unico appunto – che è in testa anche dei soggetti che gli effetti di quelle politiche ed ideologie stanno subendo pesantemente. Siamo in presenza di una ideologia dominante così pervasiva da restare in piedi anche quando manifestatamente non funziona, così come siamo in presenza di una rivolta subalterna, cioè incapace di costruire una propria lettura del mondo ad una proposta alternativa. Di questa confusione hanno beneficiato sul terreno della rappresentanza prima Berlusconi e poi Grillo. Il punto che voglio sottolineare è che di fronte a questa confusione, che rischia paradossalmente di rafforzare le politiche neoliberiste e la distruzione del welfare, non sia sufficiente costruire il conflitto ma sia assolutamente necessaria una battaglia politica e culturale per chiarificare le ragioni della crisi e quindi la definizione degli obiettivi. Si tratta di un lavoro duro ma possibile, a patto di aver chiaro che non esiste alcuna scorciatoia visti gli attuali livelli di coscienza. Ad esempio, è del tutto evidente che il problema dei commercianti, ancora prima di quello della tasse, consiste nel massiccio sviluppo di supermercati e nel crollo del potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti e del conseguente crollo dei consumi. Questa consapevolezza dovrebbe portare alla rivendicazione di porre limiti al mercato e di ridistribuire il reddito, in modo da aumentare salari e pensioni e quindi i consumi. E’ però del tutto evidente come l’adozione di questo schema di ragionamento non sia per nulla scontato, perché è distante anni luce dall’ideologia di liberismo molecolare che caratterizza questi padroncini. Costruire una relazione con questi strati di piccola borghesia in via di impoverimento per rompere il senso comune, la colonizzazione dei cervelli che è andata avanti in questi vent’anni, è quindi decisivo per far si che le lotte prendano la strada della trasformazione sociale e dell’unità con il mondo del lavoro dipendente invece che la strada della disperazione e della regressione.
10) La presenza dei fascisti è stata significativa e totalmente mimetizzata. Solo in pochi casi gli sono venute fuori le cose che pensano (dittatura militare, antisemitismo, razzismo, omofobia, etc.). La stessa assenza di bandiere della destra e l’utilizzo della bandiera italiana alle manifestazioni segnala una grande organizzazione e una grande preparazione di questa iniziativa. Oltre a questo aspetto tattico – militare, mi preme sottolineare l’elemento culturale. I fascisti con cui ci troviamo a fare i conti non sono caratterizzati in primo luogo da una cultura nostalgica ma si auto descrivono come rivoluzionari, per la precisione come rivoluzionari conservatori. I loro miti affondano le radici nella destra radicale della repubblica di Weimar, nell’idea che non esiste la destra e la sinistra ma solo l’unità di chi è “contro”. E’ la destra antiborghese propria della fase “rivoluzionaria” del nazismo più che del fascismo, che si autorappresenta come espressione non già di una parte politica ma del popolo in quanto tale, dello spirito del popolo (in questo l’assonanza con Grillo è evidente). Le bandiere italiane non sono quelle della liberazione e del CLN ma quelle di una comunità organica in formazione che vuole buttare a mare gli immigrati. E’ una destra che rimpiange di non essere riuscita nel ’68 a stare dentro il movimento studentesco e che critica Almirante per essersi contrapposto frontalmente al movimento studentesco. Ovviamente questa è pura ideologia e sappiamo benissimo come è finita la storia della SA sotto il nazismo e dei presunti fascisti antiborghesi dopo la marcia su Roma. Pur tuttavia, il fatto che noi sappiamo cosa nasconde la cultura di questa destra – che non vuole presentarsi come tale - non ci esime dal conoscere bene questa destra per misurarsi con il pericolo che rappresenta, evitando di farne una facile caricatura che non corrisponde alla percezione di massa. I fascisti più sono mimetizzati e più sono pericolosi, per questo sono inutili le denunce moraliste perché il terreno dello scontro è quello dell’egemonia nel campo dell’opposizione. Per battere il fascismo risorgente nella crisi organica dell’Italia non c’è altra strada che essere più efficaci di loro nel costruire l’opposizione al neoliberismo – e a chi lo rappresenta - proponendo e costruendo una uscita da sinistra e democratica alla crisi medesima.
 
CHE FARE:
Da queste note analitiche deve scaturire l’impostazione della nostra azione politica evitando le semplificazioni che tendono a vedere in questo movimento o un puro movimento reazionario o l’inizio della rivoluzione. La battaglia antiliberista si deve coniugare per noi con proposte precise di uscita dalle politiche di austerità e con la ricostruzione di una cultura antifascista. Occorre evitare di spalmarsi acriticamente sul movimento così come di dar vita a fronti antifascisti che vedano al loro interno i liberisti e gli antiliberisti. Il nostro punto di partenza è la lotta di opposizione e dentro il fronte dell’opposizione dobbiamo fare una battaglia politica su obiettivi, culture politiche, democrazia. Abbandonare uno di questi elementi significa non essere in grado di fare iniziativa politica. Possiamo e dobbiamo farlo nella consapevolezza che il tempo stringe ma che vi è lo spazio per una azione politica dei comunisti. Avanzo questa considerazione perché credo che questo movimento non darà luogo ad un colpo di stato e che il governo non risolverà il problema della crisi. Penso inoltre che questo movimento – con tutte le contraddizioni di cui ho detto – rappresenta comunque una scossa, una pietra nello stagno che evidenzia contraddizioni, inquietudini e rabbia da cui dobbiamo partire per impostare un lavoro politico – direttamente come partito o attraverso associazioni meno targate – che si ponga l’obiettivo di costruire un movimento di massa contro le politiche neoliberiste e che coinvolga il complesso dei soggetti sociali colpiti dalla crisi. Tutto questo è possibile abbandonando immediatamente tutti gli atteggiamenti inutilmente autolesionisti centrati unicamente sul fatto che tutto questo è successo perché noi non abbiamo fatto nulla. Non è vero. Non è vero che noi non abbiamo fatto nulla, noi abbiamo fatto cose giuste e cose sbagliate. Il punto è che abbiamo perso. La sconfitta però non è totale: siamo vivi e dobbiamo utilizzare il fatto che ci siamo – senza perdere tempo in recriminazioni e senza piangerci addosso – per impostare subito un lavoro politico che ci porti a diventare quello che abbiamo detto essere il nostro compito storico: essere il partito che indica la strada per uscire dalla crisi e che opera per aggregare attorno al progetto di alternativa di sistema un fronte di lotta anticapitalista.

Contro l’Unione Europea e contro il governo.
Come abbiamo detto a Perugia, i trattati europei e l’euro hanno prodotto una Unione Europea che è il contrario dell’Europa dei popoli che aveva in mente Altiero Spinelli. Questa Europa non è un passo in avanti verso una maggiore civiltà ma è un passo indietro verso il dominio di classe da parte del capitale, la barbarie sociale e la distruzione della democrazia. Questa Europa è la distruzione della civiltà europea e non è riformabile, per questo proponiamo la disobbedienza unilaterale ai trattati. Per costruire una Europa dei popoli occorre rompere questa Europa neoliberista ed autoritaria e rimettere al centro la democrazia e la sovranità popolare, a partire dai livelli nazionali in cui questa sovranità può essere esercitata. Il tema della sovranità nazionale è quindi un tema che dobbiamo agire, a partire da una impostazione di classe e internazionalista che contrasta con l’impostazione nazionalista e razzista. Rompere questa Europa significa in primo luogo non rispettarne più le direttive e sviluppare coerentemente questa impostazione fino alle estreme conseguenze nel caso in cui la linea della disobbedienza non dovesse portare i frutti necessari.
Il giudizio di rottura con questa Europa è decisivo nell’azione politica per dare senso e significato all’opposizione alle politiche di austerità del governo. Nel senso comune di chi subisce gli effetti della crisi la consapevolezza degli effetti disastrosi delle politiche europee è sempre più chiara e risorge il tema della nazionale: noi dobbiamo porci in piena sintonia con questo sentimento che rappresenta il principale elemento di crisi dell’egemonia del pensiero neoliberista dominante e dobbiamo declinarlo in termini di classe. Mentre il libero mercato continua ad essere considerato un dato “naturale” ed intoccabile, le politiche europee sono percepite come arbitrarie e quindi costituiscono l’anello debole della catena che dobbiamo porci l’obiettivo di spezzare.
Una campagna politica contro questa Europa, per la ripresa della sovranità del popolo sulle scelte che lo riguardano e per la non applicazione dei trattati è il primo punto di orientamento politico che dobbiamo avere per entrare in sintonia con il disagio sociale.

Rimettere al centro la contraddizione di classe
Risulta del tutto evidente che la mobilitazione di questi giorni e i suoi contenuti derivano anche da una sostanziale assenza di iniziativa sindacale. La meritoria azione della Fiom e del sindacalismo di base non è sufficiente per ricostruire in Italia un conflitto di classe in grado di produrre non solo risultati ma anche identificazioni sociali. La ricostruzione del conflitto di classe, di un sindacato militante e combattivo, di un punto di vista operaio, è quindi un punto decisivo per intervenire positivamente nel magma sociale prodotto dalla crisi. Non mi dilungo ma è evidente che oltre alla battaglia politica da fare nel prossimo congresso della Cgil dobbiamo operare per favorire la presa di parola diretta degli operai, favorendo un loro protagonismo. Il punto che ci troviamo ad affrontare non riguarda solo il tema dell’egemonia politica ma concerne il tema dell’egemonia sociale, cioè della capacità del conflitto di classe di segnare un punto chiaro di lettura della crisi e la capacità della classe operaia di essere un punto di riferimento nella crisi. Solo un dispiegato conflitto di classe può determinare una corretta identificazione dell’avversario altrimenti declinato in termini populistici.

Piano per il lavoro.
Al congresso di Perugia abbiamo messo il Piano per il lavoro al centro della nostra iniziativa politica e io penso che questo sia il principale strumento da agire anche a fronte delle lotte di questi giorni. Abbiamo detto che il Piano per il lavoro non deve ridursi ad una campagna di propaganda ma deve articolarsi nei territorio, costruire interlocuzioni con il complesso dei soggetti collettivi presenti e avanzare proposte concrete. La piena occupazione è il principale obiettivo di classe oggi e dobbiamo avanzarlo con chiarezza, insieme alla richiesta del reddito minimo come garanzia per chi il lavoro non ce l’ha. Il Piano del lavoro si articola attorno all’idea che tutti hanno diritto a vivere e ad avere delle garanzie nella crisi: noi proponiamo il lavoro come forma principalissima di garanzia ma intanto il reddito per vivere deve essere garantito a tutti e tutte. Penso che dobbiamo articolare la costruzione di questo piano con un occhio di riguardo ai soggetti che sono scesi in campo in questi giorni e quindi tanto ai giovani disoccupati e precari quanto ai piccoli commercianti ed artigiani. Ad esempio noi abbiamo detto che uno dei settori decisi su cui occorre aprire una battaglia politica riguarda il riassetto idrogeologico del territorio. Si tratta di un intervento pubblico ad alta intensità di lavoro e ad alta utilità sociale. La battaglia per dar vita a piani di assestamento idraulico forestale in tute le zone montane e collinari può avere come interlocutori concreti dai lavoratori precari della forestale alle ditte edili oggi in crisi. E’ infatti evidente che per larga parte delle ditte edili, il problema non è tanto di tasse, quanto del fatto che non vi sia il lavoro e di come questo non possa riprendere significativamente per la semplice ragione che di case ve ne sono anche troppe. E’ quindi evidente che solo un piano pubblico che vada dalla ristrutturazione del patrimonio abitativo a progetti di riassetto idrogeologico del territorio possono dare uno sbocco a tante ditte edili oggi alla canna del gas. Ho fatto un solo esempio per segnalare che il passaggio dalla rivendicazione del taglio delle tasse per continuare in un impossibile tentativo di “continuare come prima” ad una rivendicazione di intervento pubblico finalizzato a dare lavoro è un terreno su cui possiamo agire concretamente la nostra proposta politica e produrre egemonia.

Partito Sociale
In un contesto in cui la credibilità della politica e delle forze politiche scende ulteriormente, diventa ancora più decisivo l’estensione programmata delle pratiche del partito sociale. Il fare quale condizione per il parlare efficacemente è un punto dirimente. L’estensione delle pratiche del partito sociale ha una doppia valenza: relativa all’immagine del nostro partito come partito diverso e relative alla costruzione di rete di solidarietà e mutualismo tra i soggetti colpiti dalla crisi. Per questo occorre estendere le pratiche del blocco degli sfratti, i GAP, il dentista sociale ed in generale le forme di mutualismo a partire dai quartieri e dagli strati popolari. Nella costruzione dei GAP dobbiamo massimizzare le relazioni con i contadini. Occorre generalizzare queste pratiche e smetterla di considerarle come un settore di attività del partito: deve diventare il modo di essere del partito. Personalmente ritengo utile anche la presa di contatto con le Parrocchie disponibili a lavorare su questo terreno.

Una azione culturale
La ricostruzione di una coscienza storica e dei passaggi fondanti la storia d’Italia è un punto decisivo, così come la capacità di decostruire il pensiero unico neoliberista che “naturalizza” le attuali devastanti politiche di austerità. In terzo luogo la capacità di avanzare proposte concrete e problemi concreti che esplicitino il tema della contraddizione di classe: la nozione di popolo non è sufficiente per costruire una risposta adeguata alla crisi. Il partito non può limitarsi ad un lavoro sociale e politico ma deve mettere in campo un lavoro culturale - di coscientizzazione - e un lavoro certosino di individuazione delle proposte programmatiche attraverso cui dar risposte di sinistra ad un disagio sociale pesante quanto spaesato.

Commercio.
E’ del tutto evidente che l’apertura 7 giorni su 7 dei supermercati è una delle cause principali della crisi del piccolo commercio e degli ambulanti. Su questo terreno vi sono due terreni di battaglia politica da agire immediatamente. Il primo ci è data dall’iniziativa del nostro gruppo consiliare in Abruzzo che è riuscito ad ottenere che la regione approvasse una legge per l’indizione di un referendum contro la deregulation del commercio voluta dal governo Monti. Il Consiglio Regionale dell'Abruzzo ha approvato la richiesta di Referendum abrogativo, ai sensi dell’articolo 75 della Costituzione, delle disposizioni di cui all'art. 31 del Decreto Legge n. 201 del 2011 che consentono alla grande distribuzione di aprire anche durante tutte le domeniche e persino il 25 aprile o il 1 maggio. Questo far west delle aperture non ha fatto che aggravare la crisi del piccolo commercio e inasprito ulteriormente l'iper sfruttamento dei lavoratori dei centri commerciali. Questa deregulation, figlia di una visione fondamentalista del mercato, ha suscitato campagne, iniziative e proteste non solo delle organizzazioni di categoria dei commercianti ma anche dei sindacati, da quelli confederali all'USB che lo scorso 8 dicembre ha organizzato presidi in tutta Italia. Persino la Conferenza Episcopale Italiana ha raccolto firme per "liberare la domenica".
Contro questa normativa molte Regioni avevano presentato ricorsi alla Corte Costituzionale purtroppo respinti in quanto governo e parlamento avrebbero legiferato sulla base della competenza statale in materia di concorrenza. Proponiamo che in ogni regione si avvii una campagna per ottenere l’approvazione di analoga richiesta. Ne bastano cinque ai sensi della Costituzione per ottenere la convocazione del referendum.
Parallelamente va messa in atto l’iniziativa di contrasto al regime di bassi salari e precarizzazione che caratterizza il lavoro nei centri commerciali. Occorre mettere in campo una iniziativa capillare in cui ogni nostro circolo “adotti un supermercato” e cominci a fare una azione di informazione della clientela sulle condizioni di lavoro scandalose che il personale deve subire. Se il lavoro viene fatto con metodo e intelligenza, partendo dal supermercato della zona che ha le condizioni di lavoro peggiori, costruendo le opportune alleanze, è possibile arrivare a veri e propri boicottaggi e ad aprire una contrattazione che obblighi i padroni a conceder miglioramenti ai lavoratori. Questo è un altro modo per difendere i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici e contemporaneamente per riequilibrare la concorrenza dei supermercati nei confronti dei piccoli esercizi.
In terzo luogo occorre fare iniziative per bloccare la nascita di nuovi supermercati e centri commerciali. Non mi dilungo perché mi paiono evidenti le ragioni.

Fisco
Noi ci siamo sempre battuti affinché tutti pagassero le tasse ed è del tutto evidente che solo i lavoratori dipendenti e i pensionati pagano le tasse fino all’ultimo centesimo. In questo contesto si è arrivati sovente ad un paradosso in cui i lavoratori pagano regolarmente le tasse, i padroni e i ricchi eludono regolarmente le tasse e gli artigiani e il piccolo commercio evadono le tasse. Questo “modus vivendi” del tutto iniquo è saltato per aria sul versante del piccolo commercio e degli artigiani sia a causa della crisi sia a causa del sistema di lotta all’evasione fiscale che vede in Equitalia un riscossore che sovente rasenta l’usura. Capita così che per artigiani e commercianti, messi fuori mercato dalla crisi, non sapendo come trovare un altro posto di lavoro o non volendo perdere status e redditi propri della fase precedente, l’evasione diventi il modo normale per restare “a galla”. Capita però che nel caso di accertamenti – in cui l’elemento formalistico determina talvolta effetti perversi – e di individuazione di cifre da pagare all’erario, queste lievitino in modo incredibile con gli interessi applicati da Equitalia. Capita così che un piccolo problema causato da ritardi o piccole evasioni si trasformi in un debito con l’erario impossibile da saldare. Se questo capitasse a 10 persone non sarebbe un problema. In Italia questo capita a centinaia di migliaia di persone e questo diventa nella crisi un problema politico potenzialmente esplosivo, come abbiamo avuto modo di apprezzare in questi mesi e non solo negli ultimi giorni. Disinnescare questo problema è una urgenza politica che va affrontata sia mettendo dei tetti massimi agli interessi di mora che Equitalia può praticare, sia valutando la possibilità di definire una moratoria nei pagamenti per chi abbia debiti di lieve entità. Il punto non è di favorire l’evasione fiscale ma di difendere gli interessi di strati di commercianti ed artigiani che si muovono ai confini della sussistenza e che non vogliamo diventino massa di manovra per la lotta contro il welfare o peggio.

In conclusione.
Con ogni evidenza, queste note non hanno una pretesa di completezza. Il mio obiettivo è di fornire un primo e parziale materiale di orientamento che deve essere arricchito e precisato. L’ho scritto con una doppia consapevolezza: Potremo giocare un ruolo dentro la crisi italiana solo se mettiamo da parte l’autolesionismo e contemporaneamente ci dotiamo di un impianto analitico, progettuale e di lavoro concreto condiviso e preciso.

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