Confindustria. Il «rapporto» dell’associazione padronale è una sorta di autodenuncia di crisi profonda e incapacità
Confindustria conferma che la macchina pubblica costa 23 mld di
euro. Un onere non solo contenuto, ma significativamente basso
rispetto ad alle società private. In altre parole il pubblico, il
capitalismo pubblico, è molto più efficiente del capitalismo
privato. La dinamica commerciale delle partecipate dagli EELL
è da valutare positivamente, tenuto conto che le maggiori imprese
industriali italiane hanno accusato una flessione delle vendite del
16,5%, tanto più che al calo del fatturato del 2009 si è abbinata
una sorprendente tenuta del valore aggiunto, caduto solo dello 0,4% ed
attestatosi al suo massimo dell’ultimo triennio rispetto ai ricavi
(33,2%). Il risultato d’esercizio delle partecipate non è lontano
dai massimi del 2007. Confindustria avrebbe potuto «denunciare» la
scarsa redditività delle partecipate pubbliche, ma le imprese
pubbliche degli enti locali, di questo parla il rapporto di
Confindustria, non hanno come fine ultimo il profitto. Non solo.
I settori a rete, quelli che uniscono il Paese, hanno mostrato una
dinamicità che purtroppo il privato non riesce a raggiungere.
L’energia ha realizzato ricavi per oltre 32 mld di euro, con dei
margini superiori alle imprese private; persino il trasporto
pubblico locale, gravemente colpito dai mancati trasferimenti
dello Stato, ha ricavi per quasi 9 mld di euro. Combinando TPL, le
attività industriali, la formazione, i servizi socio sanitari
e ricreativi, le partecipazioni pubbliche hanno chiuso con una
perdita di poco inferiore ai 500 milioni di euro. Come se non
bastasse, il rapporto debiti/patrimomio è 0,5. Sarebbe bello se le
società private fossero performanti quanto e come quelle
pubbliche, caricandosi sulle spalle anche la matrice sociale delle
partecipate pubbliche.
Ma la conferma della migliore performance delle partecipate pubbliche, con un costo di 23 mld per Confindustria, segna la debolezza del capitalismo privato italiano. L’obbiettivo è quello di costringere lo Stato e gli Enti locali a cedere le società partecipate performanti, in ragione della marginalità delle imprese private nazionali.
Ma la conferma della migliore performance delle partecipate pubbliche, con un costo di 23 mld per Confindustria, segna la debolezza del capitalismo privato italiano. L’obbiettivo è quello di costringere lo Stato e gli Enti locali a cedere le società partecipate performanti, in ragione della marginalità delle imprese private nazionali.
Senza cadere nel grottesco manifestato da Confindustria, il
problema dell’impresa privata italiana è un problema pubblico. Le
continue denunce della stessa, circa il funzionamento della
macchina pubblica, non possono per molto tempo ancora nascondere il
dramma che attraversa l’impresa privata. Molte di queste riescono
a rimanere sul mercato via elusione fiscale, cioè mancate entrate
per lo stato non inferiori a 100 mld di euro annuo. La caduta della
produzione industriale non ha pari tra i paesi industrializzati,
mentre la mancata crescita del PIL degli ultimi anni rispetto alla
media europea, 175 mld di euro, manifesta la
«meridionalizzazione» dell’industria italiana rispetto a quella
europea. Si arrivano a paradossi che non hanno nessuna
giustificazione: la ricerca e sviluppo delle imprese italiane
è pari al 40% di quella totale, contro una media dei Paesi di area ocse
del 60%, determinando un saldo negativo della bilancia
commerciale tecnologica di un punto di PIL. L’effetto? Gli
studenti che l’università italiana produce ogni anno sono troppo
formati rispetto alla domanda delle imprese.
Forse Confindustria non si è resa conto di quello che ha «denunciato». Ma il problema investe proprio tutti. Senza una impresa privata italiana almeno prossima a quella europea non si esce dalla crisi nella crisi dell’Italia. Non è più un problema delle imprese: è un problema del Paese.
Forse Confindustria non si è resa conto di quello che ha «denunciato». Ma il problema investe proprio tutti. Senza una impresa privata italiana almeno prossima a quella europea non si esce dalla crisi nella crisi dell’Italia. Non è più un problema delle imprese: è un problema del Paese.
Si tratta di ripristinare un minimo di politica industriale
capace di anticipare la domanda di beni e servizi, evitando che
siano successivamente importati dall’estero (Germania e Cina). Si
pensi ai pannelli solari che sono interamente importati dalla Cina
e dalla Germania. Fenomeno che si sta ripetendo con le pale
eoliche. Visto che l’unica ricerca e sviluppo dell’Italia è pubblica,
dovremmo tentare di industrializzare questa ricerca, lasciandola
successivamente a un rapporto pubblico-privato. Non è la migliore
delle soluzioni possibili, ma la condizione dell’industria
italiana è tale che potrebbe portare tutti nel baratro.
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