PERUGIA - Nel 1970 nel gruppo dirigente perugino e regionale del PCI si aprì, dopo una vittoria elettorale, un duro scontro politico destinato ad avere un peso per un lungo periodo di tempo e produrre effetti, anche nelle formazioni successive al Pci, fino ad anni a noi più vicini. Il casus belli fu rappresentato dalla ripartizione tra il Pci e il Psi dei massimi incarichi istituzionali. In una concitata trattativa romana che doveva governare gli equilibri in tutta Italia, al Partito comunista umbro, che puntava ad avere per la prima volta il Sindaco di Perugia (e aveva candidato a questo scopo una figura di spicco della città, l’ing. Ilvano Rasimelli), fu negata questa responsabilità, confermata al tradizionale alleato e, in cambio, fu assegnata la Presidenza della Giunta regionale (che vide premiata un’altra figura di primo piano come Pietro Conti).
A quell’epoca il Pci in Umbria prendeva il 45% dei voti su una quantità di votanti superiore al 93% degli aventi diritto (famosa, qualche anno dopo, la frase di Gino Galli, segretario regionale:” Se incontrate due persone per strada, una è comunista”) e contava oltre 50mila iscritti, più di 6 mila nella sola città capoluogo. Erano adesioni individuali raccolte con quella pratica, divenuta mito, del lavoro “casa per casa”. Rasimelli e Conti erano, come i tempi richiedevano, quadri politici di sicura affidabilità, maturata in anni di gavetta e milizia attiva prima, successivamente conosciuti e sperimentati in incarichi dirigenti e ruoli istituzionali. La delusione degli elettori comunisti perugini per non essere riusciti a rompere il tradizionale monopolio socialista sulla città, nonostante il brillantissimo risultato elettorale conseguito dal partito e dal capolista, fu molto profonda. Coloro che con più calore sostenevano l’esigenza di un cambiamento, giunsero a sospettare che, in realtà, l’insuccesso fosse da attribuire anche all’atteggiamento rinunciatario di un’altra parte del partito, favorevole al mantenimento di un rapporto con la massoneria e settori conservatori che, a loro giudizio, avrebbe imposto alla città linee di sviluppo sbagliate, eccessivamente premianti della rendita e della speculazione urbana. La discussione, anzi il conflitto, usci dalla soglia del Palazzo, accese gli animi e scaldò i cuori di schiere di militanti ed anche di una più vasta platea di cittadini ed elettori che seguivano con passione la vita politica e le vicende della propria città.
Tornano in mente oggi queste antiche storie anche se le condizioni sono molto diverse, anzi forse proprio per questo. Nel Pd umbro si è aperto uno scontro che riguarda la successione alla poltrona di Sindaco di Perugia. Fin qui nulla di strano, poiché, come si vede, la storia non è nuova. C’è una differenza che spicca sulle altre. Non è né il livello di consenso del partito, né quello della partecipazione dei cittadini alle elezioni e alla politica (drasticamente scesi) e neppure quella, sia detto con tutto il rispetto, della autorevolezza dei candidati, non minimamente confrontabile (ogni epoca, si potrà obiettare ha forme e uomini che la esprimono).
La differenza è la mancanza della politica, oggi rispetto a ieri. Chi ha capito perché dovrebbe essere sostituito o, per altro verso, confermato, l’attuale primo cittadino? Quali sono le critiche di merito che gli vengono mosse e l’idea di città che viene proposta in alternativa a quella attuale? La situazione di Perugia richiederebbe o meno una riflessione di fondo? Su questi interrogativi c’è un vuoto. Sarà colmato? Visti i tempi che corrono c’è da dubitarne, anche se un ritorno all’”antico”, in questo caso, sarebbe del tutto auspicabile. C’è una quota di elettori che continua a guardare ai programmi e non si rassegna all’idea di dover scegliere il suo candidato solo perché risulta mediaticamente più simpatico e brillante.
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