Evidenziando
l’alternanza di euforie (finalmente la rivolta sociale esplode anche in
Italia) e allarmismi (Alba Dorata sbarca nel Bel Paese) che ha
caratterizzato le analisi e i commenti di molti intellettuali di
sinistra in merito al movimento dei Forconi, un bell’articolo
di Augusto Illuminati tenta di ricondurre il fenomeno alla sua giusta
misura: un sintomo di malessere di strati sociali con cui vale la pena
di “sporcarsi le mani” per decifrarne le passioni e volgerle al meglio,
senza dimenticare che si tratta di un potenziale “blocco d’ordine
familiar-possessivo” facilmente pilotabile contro gli interessi delle
classi subordinate, espressione di una composizione sociale e politica
affatto diversa di quel non meno variegato raggruppamento di soggetti
che ha dato vita alla grande manifestazione romana del 19 ottobre scorso
– raggruppamento, conclude, che richiede un faticoso lavoro di
ricomposizione e non “svolazzi dannunziani e pauperisti”.
Purtroppo, nei giorni scorsi di svolazzi dannunziani e pauperisti ne abbiamo letti e ascoltati non pochi, anche da parte di intellettuali che ci avevano abituati ad analisi più o meno condivisibili ma comunque lucide. In particolare, si è battuto fino all’ossessione sul binomio poveri/impoveriti, termini utilizzati come sinonimi mentre le due categorie rinvierebbero a identità ben diverse (i poveri sono spesso l’attributo cui si ricorre per evitare il termine “demodé” proletari, mentre gli impoveriti connotano le classi medie – impoverite ma non proletarizzate – animate da nostalgie per l’antico benessere, paura di ulteriori peggioramenti e rabbioso rancore antipolitico, compresa la politica “alternativa”, come hanno potuto verificare i militanti di 5Stelle).
Su questo leitmotiv hanno insistito, fra gli altri, Marco Revelli, il quale ha scritto che questo ceto medio impoverito non è bello da vedere ma è…”vero”: bizzarra categoria estetizzante – più pasoliniana che dannunziana – da applicare a un fenomeno sociopolitico. Da parte sua Aldo Bonomi, partendo dal tema a lui caro della crisi di rappresentanza, risale a quella che ritiene la causa di fondo di tale crisi, e cioè il fatto che oggi “le classi non funzionano più”, per cui occorre parlare di arrabbiati, rancorosi, depressi e indebitati.
Effettivamente rappresentare politicamente stati d’animo e non interessi è impresa ardua (anche se le destre ci sono spesso riuscite benissimo), ma ciò non significa che si debba rinunciare alla necessità di decodificare le identità sociali che si celano dietro quegli stati d’animo, in base alla constatazione che “le classi non funzionano più” (battuta in cui si riconosce la devastante riduzione della politica a comunicazione pubblicitaria). Sulla stessa lunghezza d’onda Guido Viale, il quale sostiene che questi movimenti ci insegnano che a non funzionare più non sono solo le classi, ma anche la distinzione destra/sinistra, per cui, conclude, dovremmo accettare e imparare a usare, le “loro” categorie che sono alto/basso, onesto/ladro, povero/ricco. Un vero manuale tascabile di populismo che soddisferebbe caudilli di ogni latitudine e colore ideologico: da Peron a Grillo passando per Chavez.
Ciò che più sconvolge, in questi discorsi, è il fatto che suggeriscono di curare la malattia con dosi massicce del farmaco che l’ha provocata. La controrivoluzione liberista disgrega la società, cancellando le identità collettive e trasformandole in una massa indifferenziata di individui che tentano di ridare senso al mondo a partire da coppie oppositive paranoiche (alto/basso, ecc.)? E noi ci accodiamo agli umori della “gente”, limitandoci a rispecchiarli perché questi umori sono “brutti ma veri”! Un po’ come i governi che cercano di curare i disastri provocati da deregulation finanziaria, tagli alle tasse e al welfare e privatizzazioni con nuove privatizzazioni, tagli al welfare e defiscalizzazioni.
Un accostamento tutt’altro che azzardato, perché, come ha notato Paolo Ferrero, “ci troviamo di fronte a segmenti sociali il cui status e tenore di vita è messo in discussione dalle politiche neoliberiste che però reagiscono agitando parole d’ordine liberiste…si protesta come se il mercato funzionasse benissimo e l’unico problema derivasse proprio dalla presenza dello stato”.
Certo, cercare di far ragionare questi strati sui loro reali interessi e di ricomporli in un blocco sociale con le classi subordinate che già lottano contro il regime liberista è impresa ardua, forse disperata, ma sicuramente più meritevole – e meno pericolosa – che scendere sul loro stesso terreno, sposandone linguaggi ed emozioni.
Purtroppo, nei giorni scorsi di svolazzi dannunziani e pauperisti ne abbiamo letti e ascoltati non pochi, anche da parte di intellettuali che ci avevano abituati ad analisi più o meno condivisibili ma comunque lucide. In particolare, si è battuto fino all’ossessione sul binomio poveri/impoveriti, termini utilizzati come sinonimi mentre le due categorie rinvierebbero a identità ben diverse (i poveri sono spesso l’attributo cui si ricorre per evitare il termine “demodé” proletari, mentre gli impoveriti connotano le classi medie – impoverite ma non proletarizzate – animate da nostalgie per l’antico benessere, paura di ulteriori peggioramenti e rabbioso rancore antipolitico, compresa la politica “alternativa”, come hanno potuto verificare i militanti di 5Stelle).
Su questo leitmotiv hanno insistito, fra gli altri, Marco Revelli, il quale ha scritto che questo ceto medio impoverito non è bello da vedere ma è…”vero”: bizzarra categoria estetizzante – più pasoliniana che dannunziana – da applicare a un fenomeno sociopolitico. Da parte sua Aldo Bonomi, partendo dal tema a lui caro della crisi di rappresentanza, risale a quella che ritiene la causa di fondo di tale crisi, e cioè il fatto che oggi “le classi non funzionano più”, per cui occorre parlare di arrabbiati, rancorosi, depressi e indebitati.
Effettivamente rappresentare politicamente stati d’animo e non interessi è impresa ardua (anche se le destre ci sono spesso riuscite benissimo), ma ciò non significa che si debba rinunciare alla necessità di decodificare le identità sociali che si celano dietro quegli stati d’animo, in base alla constatazione che “le classi non funzionano più” (battuta in cui si riconosce la devastante riduzione della politica a comunicazione pubblicitaria). Sulla stessa lunghezza d’onda Guido Viale, il quale sostiene che questi movimenti ci insegnano che a non funzionare più non sono solo le classi, ma anche la distinzione destra/sinistra, per cui, conclude, dovremmo accettare e imparare a usare, le “loro” categorie che sono alto/basso, onesto/ladro, povero/ricco. Un vero manuale tascabile di populismo che soddisferebbe caudilli di ogni latitudine e colore ideologico: da Peron a Grillo passando per Chavez.
Ciò che più sconvolge, in questi discorsi, è il fatto che suggeriscono di curare la malattia con dosi massicce del farmaco che l’ha provocata. La controrivoluzione liberista disgrega la società, cancellando le identità collettive e trasformandole in una massa indifferenziata di individui che tentano di ridare senso al mondo a partire da coppie oppositive paranoiche (alto/basso, ecc.)? E noi ci accodiamo agli umori della “gente”, limitandoci a rispecchiarli perché questi umori sono “brutti ma veri”! Un po’ come i governi che cercano di curare i disastri provocati da deregulation finanziaria, tagli alle tasse e al welfare e privatizzazioni con nuove privatizzazioni, tagli al welfare e defiscalizzazioni.
Un accostamento tutt’altro che azzardato, perché, come ha notato Paolo Ferrero, “ci troviamo di fronte a segmenti sociali il cui status e tenore di vita è messo in discussione dalle politiche neoliberiste che però reagiscono agitando parole d’ordine liberiste…si protesta come se il mercato funzionasse benissimo e l’unico problema derivasse proprio dalla presenza dello stato”.
Certo, cercare di far ragionare questi strati sui loro reali interessi e di ricomporli in un blocco sociale con le classi subordinate che già lottano contro il regime liberista è impresa ardua, forse disperata, ma sicuramente più meritevole – e meno pericolosa – che scendere sul loro stesso terreno, sposandone linguaggi ed emozioni.
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