martedì 24 dicembre 2013

L’economia dei «forconi» —Marco Bertorello, Il Manifesto

Senza fare inda­gine socio­lo­gica astratta e ancor meno dare una sche­ma­tica inter­pre­ta­zione poli­tica del cosid­detto movi­mento dei for­coni, il quale auspica addi­rit­tura una rivo­lu­zione, vale la pena ragio­nare intorno a una delle poche idee di fondo, almeno sul piano eco­no­mico, che esso ha avan­zato. Si tratta di una sorta di riven­di­ca­zione del made in Italy, di un rilan­cio della pic­cola e media impresa, dell’artigianato, den­tro un qua­dro che resta deci­sa­mente com­pe­ti­tivo. Anzi den­tro tale com­pe­ti­zione si ha la pre­sun­zione che la pic­cola impren­di­to­ria possa essere la migliore. Nel pro­gramma di San­toro uno dei lea­der del coor­di­na­mento “9 dicem­bre” ha soste­nuto che «l’Italia ha, anzi aveva, una forza pro­dut­tiva deva­stante rispetto agli altri paesi». Nostal­gia di un sistema che non esi­ste più. In un libro dall’eloquente titolo «Se il pic­colo non cre­sce», scritto dieci anni fa, Fabri­zio Onida spie­gava come già a par­tire dai primi anni Novanta si affer­masse un’inversione di ten­denza nelle quote ita­liane di espor­ta­zione. Dagli anni Cin­quanta erano più che rad­dop­piate men­tre in meno di un decen­nio (1995–2003) si erano ridotte di un terzo. Ter­mi­nato l’effetto della sva­lu­ta­zione della lira, il calo era respon­sa­bi­lità non solo dei paesi emer­genti e dei nuovi paesi ade­renti alla Ue, ma anche dei più anti­chi con­cor­renti come Fran­cia e Ger­ma­nia. Indub­bia­mente per tutto un periodo la fram­men­ta­zione pro­dut­tiva del sistema ita­liano ha rap­pre­sen­tato una risorsa quanto a qua­lità e tenuta occu­pa­zio­nale, ma tali fat­tori posi­tivi hanno cam­biato di segno al cam­biare del pro­filo dei mer­cati. Quando il ciclo eco­no­mico diventa meno favo­re­vole e i mer­cati si allon­ta­nano il pro­filo indu­striale neces­sa­rio modi­fica i con­no­tati, impo­nendo nuove gerar­chie. Nel nuovo con­te­sto il famoso distretto rischia di essere troppo fra­gile e vola­tile. La reto­rica su «pic­colo è bello» perde cre­di­bi­lità. Si affer­mano forti ricambi dei sog­getti indu­striali dediti alle espor­ta­zioni. Nel com­plesso l’industria ita­liana, pur restando il secondo com­parto manu­fat­tu­riero con­ti­nen­tale, non rie­sce a rap­pre­sen­tare un fat­tore di coe­sione suf­fi­ciente per una nazione di oltre 60 milioni di resi­denti. La glo­ba­liz­za­zione iper­com­pe­ti­tiva impone il pas­sag­gio da stra­te­gie pura­mente di espor­ta­zione a quelle di inse­dia­mento e radi­ca­mento nei mer­cati di sbocco. Accordi distri­bu­tivi, reti di rap­pre­sen­tanza, filiali e assi­stenza in loco, inve­sti­menti diretti, per non par­lare delle quote di spesa in ricerca e svi­luppo neces­sa­rie per reg­gere. Per­sino in ter­mini di fles­si­bi­lità l’impresa medio-grande ha una resa migliore nel nuovo con­te­sto. L’apparato nostrano diventa sem­pre più de-specializzato e pro­gres­si­va­mente si aggrappa all’appetibilità di prezzi con­te­nuti su pro­dotti a basso valore aggiunto. Ne con­se­gue una rin­corsa per ridurre il costo del lavoro: l’aumento della gior­nata lavo­ra­tiva e l’intensità della pre­sta­zione si col­lo­cano den­tro un infer­nale mec­ca­ni­smo di sub-fornitura che stringe la pro­du­zione tra moda­lità e tempi di con­se­gna, facendo sci­vo­lare il sistema ita­liano verso il basso della scala gerar­chica pro­dut­tiva. Qui si inse­ri­sce la crisi attuale, che destrut­tura ulte­rior­mente il sistema, impo­nendo stra­te­gie di sele­zione e con­cen­tra­zione, in cui i mec­ca­ni­smi finan­ziari affos­sano ulte­rior­mente i sog­getti più deboli e peri­fe­rici. È dif­fi­cile ipo­tiz­zare un recu­pero delle con­di­zioni di ope­rai e pic­coli e medi impren­di­tori, se restano inal­te­rate le regole del gioco e si attri­bui­scono tutti i mali alla sola poli­tica. Per sal­vare le con­di­zioni di vita di milioni di indi­vi­dui biso­gna uscire dalle leggi dell’ipercompetizione, pro­vare a imma­gi­nare un’economia basata su coo­pe­ra­zione e coor­di­na­mento. Anzi­ché una «forza pro­dut­tiva deva­stante» biso­gne­rebbe auspi­carne una capace di sal­vare la vita del pia­neta. Que­sto sarebbe l’inizio di una vera rivoluzione.

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