Senza fare indagine sociologica astratta e ancor meno dare una
schematica interpretazione politica del cosiddetto movimento dei
forconi, il quale auspica addirittura una rivoluzione, vale la
pena ragionare intorno a una delle poche idee di fondo, almeno sul
piano economico, che esso ha avanzato. Si tratta di una sorta di
rivendicazione del made in Italy, di un rilancio della
piccola e media impresa, dell’artigianato, dentro un quadro che resta
decisamente competitivo. Anzi dentro tale competizione si ha
la presunzione che la piccola imprenditoria possa essere la
migliore. Nel programma di Santoro uno dei leader del
coordinamento “9 dicembre” ha sostenuto che «l’Italia ha, anzi
aveva, una forza produttiva devastante rispetto agli altri paesi».
Nostalgia di un sistema che non esiste più. In un libro dall’eloquente
titolo «Se il piccolo non cresce», scritto dieci anni fa,
Fabrizio Onida spiegava come già a partire dai primi anni Novanta si
affermasse un’inversione di tendenza nelle quote italiane di
esportazione. Dagli anni Cinquanta erano più che raddoppiate
mentre in meno di un decennio (1995–2003) si erano ridotte di un
terzo. Terminato l’effetto della svalutazione della lira, il calo
era responsabilità non solo dei paesi emergenti e dei nuovi paesi
aderenti alla Ue, ma anche dei più antichi concorrenti come Francia
e Germania. Indubbiamente per tutto un periodo la frammentazione
produttiva del sistema italiano ha rappresentato una risorsa
quanto a qualità e tenuta occupazionale, ma tali fattori positivi
hanno cambiato di segno al cambiare del profilo dei mercati. Quando
il ciclo economico diventa meno favorevole e i mercati si
allontanano il profilo industriale necessario modifica
i connotati, imponendo nuove gerarchie. Nel nuovo contesto il
famoso distretto rischia di essere troppo fragile e volatile. La
retorica su «piccolo è bello» perde credibilità. Si affermano
forti ricambi dei soggetti industriali dediti alle esportazioni. Nel
complesso l’industria italiana, pur restando il secondo comparto
manufatturiero continentale, non riesce a rappresentare un
fattore di coesione sufficiente per una nazione di oltre 60 milioni
di residenti. La globalizzazione ipercompetitiva impone il
passaggio da strategie puramente di esportazione a quelle di
insediamento e radicamento nei mercati di sbocco. Accordi
distributivi, reti di rappresentanza, filiali e assistenza in
loco, investimenti diretti, per non parlare delle quote di spesa in
ricerca e sviluppo necessarie per reggere. Persino in termini di
flessibilità l’impresa medio-grande ha una resa migliore nel nuovo
contesto. L’apparato nostrano diventa sempre più de-specializzato
e progressivamente si aggrappa all’appetibilità di prezzi
contenuti su prodotti a basso valore aggiunto. Ne consegue una
rincorsa per ridurre il costo del lavoro: l’aumento della giornata
lavorativa e l’intensità della prestazione si collocano dentro un
infernale meccanismo di sub-fornitura che stringe la produzione
tra modalità e tempi di consegna, facendo scivolare il sistema
italiano verso il basso della scala gerarchica produttiva. Qui si
inserisce la crisi attuale, che destruttura ulteriormente il
sistema, imponendo strategie di selezione e concentrazione, in
cui i meccanismi finanziari affossano ulteriormente i soggetti
più deboli e periferici. È difficile ipotizzare un recupero delle
condizioni di operai e piccoli e medi imprenditori, se restano
inalterate le regole del gioco e si attribuiscono tutti i mali alla
sola politica. Per salvare le condizioni di vita di milioni di
individui bisogna uscire dalle leggi dell’ipercompetizione, provare
a immaginare un’economia basata su cooperazione e coordinamento.
Anziché una «forza produttiva devastante» bisognerebbe
auspicarne una capace di salvare la vita del pianeta. Questo sarebbe
l’inizio di una vera rivoluzione.
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