Dalla crisi nella quale siamo immersi non si può uscire né con brodini caldi (come punta a fare la finanziaria in discussione in Parlamento), né con il nuovo piano di dismissioni e privatizzazioni annunciato dal governo. Occorre rimettere in discussione i trattati europei: ecco perché le prossime elezioni per il rinnovo del parlamento Ue sono così importanti.
Con la legge di stabilità (ex legge finanziaria) attualmente in discussione alla Camera sono entrate in vigore le ultime norme che la governance europea si è recentemente data, derivanti dal Trattato detto Two pack. Nella fattispecie esse consistono nel fatto che il testo della legge di stabilità, prima ancora di essere messo in discussione dai singoli parlamenti, deve ricevere una supervisione dagli organismi europei, i quali hanno il potere di entrare nel merito per verificare se la legge proposta è congrua con gli obiettivi di riduzione del debito che la Ue si è data. In caso contrario il governo è invitato da apporre le correzioni “suggerite” dalla Commissione europea. Solo dopo interverrà il Parlamento.
E’ evidente che siamo di fronte ad un ulteriore passo verso il rafforzamento in senso a-democratico degli organi di governo della Ue. La potestà in materia di bilancio dei singoli parlamenti è completamente esautorata o quantomeno posta , passo per passo, sotto il vigile e invadente controllo degli organismi europei. La situazione è paradossale. In sostanza la politica economica dei singoli stati europei la decide e la fa la Commissione europea, mentre non esiste una vera politica economica a livello complessivo della Ue.
La “prima volta” dell’Italia non è andata bene. Il testo proposto non è piaciuto affatto a Olli Rehn & C. Così la possibilità su cui contava molto Letta di potere fruire nell’anno prossimo di un pacchetto di investimenti da fare fuori dai margini del patto di stabilità pare sfumata. Bisogna usare ancora il dubitativo, perché il ministro Saccomanni ha insistito sul fatto che c’è stato un equivoco sui numeri e sui conti. Il che indica, se non altro, come il testo fosse pasticciato e abborracciato. Poi vi sono state le modifiche introdotte dalla maggioranza di governo con annessa fiducia al Senato. Vedremo ora cosa uscirà dalla Camera. Ma è chiaro che dopo la fiducia al Senato i margini di modifica sono minimi se non nulli.
Se guardiamo al contenuto della proposta di legge governativa, comprensiva delle modifiche già apportate (che sanno tanto di cose previste già in anticipo per dare un contentino al dibattito parlamentare svuotato di sostanza decisionale), non si può non convenire con un bocconiano doc, quale è Tito Boeri, che ironicamente ha scritto che questo governo andrebbe denunciato per omissione di soccorso. Si intende nei confronti della boccheggiante economia italiana.
Del resto il dibattito reale è dominato dalla questione Imu sì Imu no, con il tentativo di risolvere l’elevata contesa con un semplice cambio di nome alla tassa (Iuc). Ma se uno cerca il filo conduttore di una politica economica un minimo coerente nel testo governativo, non lo trova. La paura di incorrere negli strali della Ue - che peraltro come abbiamo visto non è stato evitato – connessa con una gestione tardo neo-democristiana, mi si conceda l’ossimoro, in base alla quale non bisogna scontentare (quasi) nessuno di coloro che hanno una qualche forza contrattuale – non parlo del lavoro dipendente visto che i sindacati tale forza hanno deciso di non esercitarla o l’hanno del tutto perduta – e lobbistica, ha partorito un testo che al massimo tira a campare.
Ma questa è un’illusione del tutto politicista. L’Italia non è solo in crisi, è entrata oramai in una profonda depressione, che per il nostro paese – ma anche per buona parte dell’Europa - ha conseguenze ben peggiori di quella del 1929. Se guardiamo alla minore crescita negli ultimi due lustri, quindi anche prima dell’inizio della crisi economica internazionale; all’aumento della disoccupazione, con punte di disperazione come in quel 41,2% di disoccupazione giovanile; alla riduzione del reddito procapite e quindi allo spostamento di reddito da lavoro verso il capitale e la finanza; all’incremento della povertà fuori e dentro il lavoro, si hanno tutti gli elementi che qualificano uno stato di depressione.
Da qui non si può uscire né con brodini caldi, né puntando su un nuovo piano di dismissioni e privatizzazioni. Anche in questo caso si naviga molto a vista e con scarso senso di responsabilità. Quasi si trattasse di fatti che dipendono più dalle emozioni che non da calcoli economici. La confusione è tanta e invade anche il mondo dei più informati. Sintomatico a questo riguardo era l’editoriale di qualche giorno fa sul Sole 24 Ore di Alberto Quadrio Curzio che cercava di sostenere la possibilità di smontare le perplessità della Commissione europea attraverso una specie di gioco di prestigio. L’autorevole economista dell’Università Cattolica di Milano scriveva testualmente (il virgolettato è necessario altrimenti si stenta a credere): “La stessa (la Cassa Depositi e Prestiti, n.d.r.) è un’azienda privata di mercato pur essendo posseduta dallo Stato all’80% e perciò è sbagliato dire che cessioni di partecipazioni alla Cdp non sono privatizzazioni o addirittura dire che sono mere partite di giro a carico del contribuente.”
A questo punto a Enrico Letta, ascoltate alcune polemiche suscitate dall’articolo dell’autorevole editorialista, non rimaneva che precisare che, al contrario, l’intenzione del governo è proprio quella di vendere le quote di società pubbliche che attualmente sono in possesso della Cdp! Ma tutto ciò è solo un’ipotesi per il futuro, oltre che essere una minaccia per quel poco di pubblico che è rimasto nel nostro paese. Non accontenta quindi gli occhiuti “revisori dei conti” in anticipo di Bruxelles, né tantomeno chi vuole uscire dalla crisi senza impoverire ulteriormente il nostro paese.
Ma tutta questa vicenda – al di là del dettaglio delle norme contenute nella legge su cui conviene tornare una volta che sia definitivamente approvata – sottolinea ancora una volta di più la necessità di abrogare e rimettere in discussione i recenti trattati, il fiscal compact, il two pack, nonché i trattati originari a partire da quello di Maastricht. Questo è il tema che ci troveremo di fronte nella prossima primavera, quando si voterà per il rinnovo del parlamento europeo.
La destra spera di rimettere in sesto le proprie fila acciaccate dopo l’epilogo della vicenda di Berlusconi, puntando su una versione nostrana di un tradizionale antieuropeismo tipico delle destre continentali. Il movimento grillino pare agitare la stessa scelta in chiave ancora più populista, e trova anche nella sinistra estrema qualcuno che lo ascolta o addirittura lo ha preceduto.
Il Pse e le forze che lo compongono puntano sulla candidatura di Martin Shulz a Presidente della Commissione – la nuova formula che personalizza seppure in modo virtuale il voto, rendendo però anche più semplice l’individuazione degli schieramenti in campo. Nel contempo il partito cui Schulz appartiene, la Spd, ha concluso un accordo per dare vita a una Grosse Koalition in Germania assieme alla Merkel. Come noto ha contrattato un programma che ha qualche elemento di novità per ciò che riguarda la situazione interna – fra cui una retribuzione minima oraria – ma è perfettamente coerente con le politiche precedenti seguite dalla Germania in Europa, a partire dal rifiuto degli Eurobonds. In sostanza anche i socialdemocratici si schierano con nettezza contro ogni forma di mutualizzazione del debito e di riequilibrio nei rapporti tra i paesi europei, che sono concause della più grave crisi economica che il continente europeo abbia mai affrontato. Ha ragione quindi Guido Rossi nel dire che più che una Grande Coalizione la si potrebbe definire un’intesa per una Grande Stagnazione.
Sul versante della sinistra anti-austerity ha preso invece corpo la candidatura di Alexis Tsipras, il dirigente di Syriza, la formazione politica che si è battuta con coerenza contro i diktat della Troika in Grecia, senza cedere alle pulsioni di una fuoriuscita dall’Europa e dall’Euro. Su questa base Syriza ha costruito in breve tempo tali e tanti consensi che rendono probabile una sua vittoria, dopo averla già sfiorata, in caso di nuove elezioni in Grecia. La candidatura di Tsipras appare quindi autorevole per più motivi. Ha dimostrato di sapere condurre in patria una lotta capace di aggregare un vasto schieramento e di volere affrontare il problema di un cambiamento radicale nelle politiche economiche della Ue, a partire da un’alleanza con i paesi del sud dell’Europa, che sia anche in grado di rivitalizzare un processo di democratizzazione nella costruzione politica della Unione europea.
La scelta è dunque chiara a sinistra. Chi, nelle prossime elezioni europee, si collocherà sulla scia di Shulz non potrà, nel migliore ma improbabile dei casi, che temperare un poco le politiche smaccatamente neoliberiste della Merkel. Chi sceglierà lo schieramento “guidato” da Tsipras si porrà nel campo della ricostruzione di un’altra Europa, senza tacere le difficoltà che una simile impresa comporta. Ma è l’unica strada per salvare l’idea stessa di Europa come soggetto autonomo agente sullo scenario mondiale.
In Italia il movimento politico della sinistra è estremamente frammentato. I tentativi di rimetterlo insieme in precedenti elezioni nazionali ha sortito effetti pessimi. E’ invece necessario e possibile costruire una lista di cittadinanza europea che aspiri legittimamente a portare eletti a Strasburgo partendo e rendendo protagonista, dalla definizione del programma alla scelta dei candidati, la sinistra diffusa: quella dei referendum vincenti e delle lotte sociali dentro e fuori i luoghi di lavoro; quella delle lotte per i diritti civili e per la difesa della Costituzione, quella dei conflitti per la casa, la difesa del territorio, contro il precariato; quella delle intellettualità critiche e dei lavoratori dell’informazione. Quella sinistra cioè che continua a esistere ad onta dei ripetuti flop delle piccole organizzazioni partitiche che non riescono a rappresentarla e che non vuole perdere l’occasione della scadenza elettorale europea per affermare che per costruire un’altra Europa c’è bisogno di un non breve processo di riunificazione degli interessi popolari in tutto il continente
Con la legge di stabilità (ex legge finanziaria) attualmente in discussione alla Camera sono entrate in vigore le ultime norme che la governance europea si è recentemente data, derivanti dal Trattato detto Two pack. Nella fattispecie esse consistono nel fatto che il testo della legge di stabilità, prima ancora di essere messo in discussione dai singoli parlamenti, deve ricevere una supervisione dagli organismi europei, i quali hanno il potere di entrare nel merito per verificare se la legge proposta è congrua con gli obiettivi di riduzione del debito che la Ue si è data. In caso contrario il governo è invitato da apporre le correzioni “suggerite” dalla Commissione europea. Solo dopo interverrà il Parlamento.
E’ evidente che siamo di fronte ad un ulteriore passo verso il rafforzamento in senso a-democratico degli organi di governo della Ue. La potestà in materia di bilancio dei singoli parlamenti è completamente esautorata o quantomeno posta , passo per passo, sotto il vigile e invadente controllo degli organismi europei. La situazione è paradossale. In sostanza la politica economica dei singoli stati europei la decide e la fa la Commissione europea, mentre non esiste una vera politica economica a livello complessivo della Ue.
La “prima volta” dell’Italia non è andata bene. Il testo proposto non è piaciuto affatto a Olli Rehn & C. Così la possibilità su cui contava molto Letta di potere fruire nell’anno prossimo di un pacchetto di investimenti da fare fuori dai margini del patto di stabilità pare sfumata. Bisogna usare ancora il dubitativo, perché il ministro Saccomanni ha insistito sul fatto che c’è stato un equivoco sui numeri e sui conti. Il che indica, se non altro, come il testo fosse pasticciato e abborracciato. Poi vi sono state le modifiche introdotte dalla maggioranza di governo con annessa fiducia al Senato. Vedremo ora cosa uscirà dalla Camera. Ma è chiaro che dopo la fiducia al Senato i margini di modifica sono minimi se non nulli.
Se guardiamo al contenuto della proposta di legge governativa, comprensiva delle modifiche già apportate (che sanno tanto di cose previste già in anticipo per dare un contentino al dibattito parlamentare svuotato di sostanza decisionale), non si può non convenire con un bocconiano doc, quale è Tito Boeri, che ironicamente ha scritto che questo governo andrebbe denunciato per omissione di soccorso. Si intende nei confronti della boccheggiante economia italiana.
Del resto il dibattito reale è dominato dalla questione Imu sì Imu no, con il tentativo di risolvere l’elevata contesa con un semplice cambio di nome alla tassa (Iuc). Ma se uno cerca il filo conduttore di una politica economica un minimo coerente nel testo governativo, non lo trova. La paura di incorrere negli strali della Ue - che peraltro come abbiamo visto non è stato evitato – connessa con una gestione tardo neo-democristiana, mi si conceda l’ossimoro, in base alla quale non bisogna scontentare (quasi) nessuno di coloro che hanno una qualche forza contrattuale – non parlo del lavoro dipendente visto che i sindacati tale forza hanno deciso di non esercitarla o l’hanno del tutto perduta – e lobbistica, ha partorito un testo che al massimo tira a campare.
Ma questa è un’illusione del tutto politicista. L’Italia non è solo in crisi, è entrata oramai in una profonda depressione, che per il nostro paese – ma anche per buona parte dell’Europa - ha conseguenze ben peggiori di quella del 1929. Se guardiamo alla minore crescita negli ultimi due lustri, quindi anche prima dell’inizio della crisi economica internazionale; all’aumento della disoccupazione, con punte di disperazione come in quel 41,2% di disoccupazione giovanile; alla riduzione del reddito procapite e quindi allo spostamento di reddito da lavoro verso il capitale e la finanza; all’incremento della povertà fuori e dentro il lavoro, si hanno tutti gli elementi che qualificano uno stato di depressione.
Da qui non si può uscire né con brodini caldi, né puntando su un nuovo piano di dismissioni e privatizzazioni. Anche in questo caso si naviga molto a vista e con scarso senso di responsabilità. Quasi si trattasse di fatti che dipendono più dalle emozioni che non da calcoli economici. La confusione è tanta e invade anche il mondo dei più informati. Sintomatico a questo riguardo era l’editoriale di qualche giorno fa sul Sole 24 Ore di Alberto Quadrio Curzio che cercava di sostenere la possibilità di smontare le perplessità della Commissione europea attraverso una specie di gioco di prestigio. L’autorevole economista dell’Università Cattolica di Milano scriveva testualmente (il virgolettato è necessario altrimenti si stenta a credere): “La stessa (la Cassa Depositi e Prestiti, n.d.r.) è un’azienda privata di mercato pur essendo posseduta dallo Stato all’80% e perciò è sbagliato dire che cessioni di partecipazioni alla Cdp non sono privatizzazioni o addirittura dire che sono mere partite di giro a carico del contribuente.”
A questo punto a Enrico Letta, ascoltate alcune polemiche suscitate dall’articolo dell’autorevole editorialista, non rimaneva che precisare che, al contrario, l’intenzione del governo è proprio quella di vendere le quote di società pubbliche che attualmente sono in possesso della Cdp! Ma tutto ciò è solo un’ipotesi per il futuro, oltre che essere una minaccia per quel poco di pubblico che è rimasto nel nostro paese. Non accontenta quindi gli occhiuti “revisori dei conti” in anticipo di Bruxelles, né tantomeno chi vuole uscire dalla crisi senza impoverire ulteriormente il nostro paese.
Ma tutta questa vicenda – al di là del dettaglio delle norme contenute nella legge su cui conviene tornare una volta che sia definitivamente approvata – sottolinea ancora una volta di più la necessità di abrogare e rimettere in discussione i recenti trattati, il fiscal compact, il two pack, nonché i trattati originari a partire da quello di Maastricht. Questo è il tema che ci troveremo di fronte nella prossima primavera, quando si voterà per il rinnovo del parlamento europeo.
La destra spera di rimettere in sesto le proprie fila acciaccate dopo l’epilogo della vicenda di Berlusconi, puntando su una versione nostrana di un tradizionale antieuropeismo tipico delle destre continentali. Il movimento grillino pare agitare la stessa scelta in chiave ancora più populista, e trova anche nella sinistra estrema qualcuno che lo ascolta o addirittura lo ha preceduto.
Il Pse e le forze che lo compongono puntano sulla candidatura di Martin Shulz a Presidente della Commissione – la nuova formula che personalizza seppure in modo virtuale il voto, rendendo però anche più semplice l’individuazione degli schieramenti in campo. Nel contempo il partito cui Schulz appartiene, la Spd, ha concluso un accordo per dare vita a una Grosse Koalition in Germania assieme alla Merkel. Come noto ha contrattato un programma che ha qualche elemento di novità per ciò che riguarda la situazione interna – fra cui una retribuzione minima oraria – ma è perfettamente coerente con le politiche precedenti seguite dalla Germania in Europa, a partire dal rifiuto degli Eurobonds. In sostanza anche i socialdemocratici si schierano con nettezza contro ogni forma di mutualizzazione del debito e di riequilibrio nei rapporti tra i paesi europei, che sono concause della più grave crisi economica che il continente europeo abbia mai affrontato. Ha ragione quindi Guido Rossi nel dire che più che una Grande Coalizione la si potrebbe definire un’intesa per una Grande Stagnazione.
Sul versante della sinistra anti-austerity ha preso invece corpo la candidatura di Alexis Tsipras, il dirigente di Syriza, la formazione politica che si è battuta con coerenza contro i diktat della Troika in Grecia, senza cedere alle pulsioni di una fuoriuscita dall’Europa e dall’Euro. Su questa base Syriza ha costruito in breve tempo tali e tanti consensi che rendono probabile una sua vittoria, dopo averla già sfiorata, in caso di nuove elezioni in Grecia. La candidatura di Tsipras appare quindi autorevole per più motivi. Ha dimostrato di sapere condurre in patria una lotta capace di aggregare un vasto schieramento e di volere affrontare il problema di un cambiamento radicale nelle politiche economiche della Ue, a partire da un’alleanza con i paesi del sud dell’Europa, che sia anche in grado di rivitalizzare un processo di democratizzazione nella costruzione politica della Unione europea.
La scelta è dunque chiara a sinistra. Chi, nelle prossime elezioni europee, si collocherà sulla scia di Shulz non potrà, nel migliore ma improbabile dei casi, che temperare un poco le politiche smaccatamente neoliberiste della Merkel. Chi sceglierà lo schieramento “guidato” da Tsipras si porrà nel campo della ricostruzione di un’altra Europa, senza tacere le difficoltà che una simile impresa comporta. Ma è l’unica strada per salvare l’idea stessa di Europa come soggetto autonomo agente sullo scenario mondiale.
In Italia il movimento politico della sinistra è estremamente frammentato. I tentativi di rimetterlo insieme in precedenti elezioni nazionali ha sortito effetti pessimi. E’ invece necessario e possibile costruire una lista di cittadinanza europea che aspiri legittimamente a portare eletti a Strasburgo partendo e rendendo protagonista, dalla definizione del programma alla scelta dei candidati, la sinistra diffusa: quella dei referendum vincenti e delle lotte sociali dentro e fuori i luoghi di lavoro; quella delle lotte per i diritti civili e per la difesa della Costituzione, quella dei conflitti per la casa, la difesa del territorio, contro il precariato; quella delle intellettualità critiche e dei lavoratori dell’informazione. Quella sinistra cioè che continua a esistere ad onta dei ripetuti flop delle piccole organizzazioni partitiche che non riescono a rappresentarla e che non vuole perdere l’occasione della scadenza elettorale europea per affermare che per costruire un’altra Europa c’è bisogno di un non breve processo di riunificazione degli interessi popolari in tutto il continente
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