Un libro ricostruisce la storia della Prima Internazionale, ovvero del pionieristico tentativo di stabilire legami di solidarietà e di azione fra i lavoratori di tutto il mondo. Una ricognizione storica approfondita e puntuale, utilissima a fare anche il punto sulla genealogia di idee e parole d'ordine oggi molto in voga a sinistra.
di Marco Zerbino, Micromega.it
Capita spesso, nei rari dibattiti teorici che ancora si fanno a sinistra, di sentir propagandare come innovative e più adatte alla comprensione e alla trasformazione del tempo presente categorie che non mancano di rivelarsi, ad un'analisi attenta, piuttosto antiche. È questo ad esempio il caso, a nostro avviso, dell'idea di una possibile “terza via” fra Stato e mercato, pubblico e privato, incarnata dal cosiddetto “comune”, che permetterebbe più o meno magicamente di eludere il nodo del potere politico a chi auspica una trasformazione radicale all'insegna dell'eguaglianza e della libertà dell'attuale società divisa in classi. Un approccio, quello del “né Stato, né mercato”, che è in realtà andato incontro a ripetute “metemsomatosi” (mutamenti di corpo, non certo di anima) nel corso degli ultimi duecento anni, e che pure viene spesso presentato come innovativo e conseguente agli “errori ed orrori” novecenteschi del socialismo reale e dello stalinismo. Senza voler negare il problematico lascito di questi ultimi, non si può tuttavia non riflettere sul fatto che, in questo caso specifico, le soluzioni ai problemi posti da tale pesante eredità rischiano di riportarci a fasi ancora precedenti della storia del movimento operaio e della sinistra, non necessariamente meno cariche di abbagli, delusioni e sconfitte.
Bisogna pertanto essere grati a uno storico come Mathieu Léonard – che pure, sospettiamo, sarebbe intelligentemente in disaccordo con quanto abbiamo appena sostenuto a proposito dell'inconsistenza di presunte “terze vie” – per averci consentito di ripercorrere, in un suo recente volume sulla Prima Internazionale da poco pubblicato anche in Italia (La Prima Internazionale. L'emancipazione dei lavoratori sarà opera dei lavoratori stessi, Edizioni Alegre, 2013, pp. 352, € 22,00), quella storia originaria e fondamentale, nella quale un ruolo di primo piano venne giocato proprio dal contrasto fra gli “autoritari” (Marx, Engels e i socialisti tedeschi) che assegnavano un ruolo prioritario alla lotta per la conquista del potere statale, e gli “antiautoritari” (Proudhon prima, Bakunin e i suoi dopo), che insistevano invece sulla necessità di abbattere il sistema capitalista dando vita ad una libera associazione di produttori in grado di rendere lo Stato stesso un'entità superflua. Contrasto talmente acceso da portare, nel giro di pochi anni, alla fine poco gloriosa di un laboratorio teorico e organizzativo che conserverà comunque un valore seminale per la successiva storia del movimento operaio.
Come recita infatti la quarta di copertina di questa lunga e dettagliata ricerca, “... è all'interno di questa dimensione plurale”, quella cioè caratterizzante il primo sviluppo dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori (Ait, dalla sigla francese), “che si formano le correnti di sinistra che hanno segnato il Novecento: marxiste, anarchiche e socialdemocratiche”. Il tutto, però, si compie in mezzo a conflitti fortissimi (a riprova del fatto che la storia del movimento operaio è sempre stata ed è tuttora lotta per l'egemonia fra tendenze politico-culturali eterogenee) e in un clima caratterizzato, oltre che da nobili finalità e da generosissimi sforzi e sacrifici personali, anche da odi e diffidenze più o meno motivati, aspri scontri congressuali e, talvolta, veri e propri pregiudizi e calunnie (dalle invettive di Bakunin contro “gli ebrei tedeschi” capeggiati da Marx ed Engels fino all'atteggiamento assunto da questi ultimi col dare strumentalmente credito alle calunnie di Utin contro il “gigante russo”).
Ed è forse anche questo il pregio di un libro che rifugge da qualsiasi intento propagandistico e agiografico: quello di riuscire a dare al lettore l'idea, da un lato, della magmaticità, del carattere aperto, sofferto e contrastato dello sviluppo storico e della lotta per l'egemonia di cui sopra (importante, ad esempio, la maniera in cui Léonard illustra la faticosa e per nulla scontata ascesa del marxismo al rango di dottrina “ufficiale” dell'Ait, che si compie veramente solo quando l'Internazionale stessa è ormai sulla via dell'implosione) e, dall'altro, di come sempre di storia di uomini si tratti, di come le idee, anche le più avanzate, si trovino necessariamente ad essere incarnate in individui che, per quanto grandi e geniali, rimangono esseri umani pieni di limiti personali e costantemente esposti al condizionamento del tempo e del luogo in cui vivono (non è forse questa, del resto, una delle lezioni fondamentali del marxismo?).
È quindi importante, e lo è da un punto di vista genuinamente storiografico, documentare come lo sviluppo e la progressiva espansione dell'Ait attraverso quelle che l'autore chiama fase cooperativa (1864-1866), fase collettivista (1866-1869) e fase della lotta di classe (1869-1870) si siano verificati non all'interno di un vuoto, ma a stretto contatto con gli eventi storici che caratterizzarono anni drammatici, segnati, oltre che da aspri conflitti fra capitale e lavoro e dall'esplosione rivoluzionaria che porterà alla nascita della Comune, da ben due guerre, quella austro-prussiana del 1866 e quella franco-tedesca del 1870.
Senza il movimento autonomo della classe operaia a quel tempo in ascesa in buona parte dell'Europa, vale a dire senza gli scioperi del 1867-68 e quelli del 1869, l'Ait non sarebbe mai diventata una “forza reale”, secondo l'espressione usata da Léonard, che richiama a questo proposito anche le parole di Franz Mehring (“Tutto quel sangue sparso venne a nutrire l'Internazionale”). D'altro lato, l'autore da anche opportunamente conto di come gli anni della guerra franco-tedesca, del crollo del Secondo Impero e della Comune, siano segnati da una tensione costante, tanto in seno all'Ait quanto, più in generale, all'interno della classe lavoratrice francese e addirittura nello stesso Consiglio della Comune, fra le spinte più avanzate, genuinamente internazionaliste, e la zavorra dello sciovinismo e dei pregiudizi antitedeschi (la cui persistenza fra i lavoratori transalpini è del resto comprensibile, dato il contesto). Sullo sfondo, ma neanche troppo, rimangono inoltre altri fantasmi: quello dell'antisemitismo (profondamente diffuso fra le classi popolari e le élite intellettuali, anche socialiste, dell'epoca, tanto da fare ripetutamente capolino, come già ricordato, nella polemica di Bakunin e dei suoi contro Marx), le accuse incrociate di panrussismo e di pangermanesimo e, certo non ultimo, il pervicace sessismo che impregna il movimento operaio ottocentesco (significativi, da questo punto di vista, i ripetuti riferimenti dell'autore alla misoginia dei proudhoniani e la menzione dell'episodio dello sciopero delle setaiole di Lione, “appuntamento mancato tra il movimento operaio e il movimento femminista”).
Tornando quindi alla nostra osservazione iniziale, se è vero che la storia del passato serve (anche) ad avere delle coordinate di massima per orientarsi nel presente, bisogna ammettere che il lavoro di Léonard si presta molto bene allo scopo, e proprio per ciò che si diceva poc'anzi. Cominciata sotto l'egemonia ideologica del proudhonismo, dunque all'insegna del rifiuto della lotta politica e di una preminenza assegnata alle questioni economico-sociali e in particolare al tentativo/possibilità di edificare una società libera dallo sfruttamento tramite l'associazione dei lavoratori in cooperative, la storia della Prima Internazionale prosegue con la vittoria del principio collettivista, che coincide grosso modo con il congresso di Bruxelles (settembre 1868): fu allora che sembrò ormai “largamente condiviso”, scrive l''autore “il principio secondo cui le miniere, le ferrovie, i canali, le strade, le linee telegrafiche e i boschi debbano essere collettivizzati. Resta da mettersi d'accordo su chi li debba gestire”. Messe da parte le utopie proudhoniane miranti ad instaurare una società di piccoli proprietari beneficianti del credito gratuito (“una fantasia degna di un bottegaio”, aveva sibilato Marx in Miseria della filosofia), il fronte collettivista ormai vittorioso si spacca e due diverse concezioni del “collettivo” si confrontano in quel congresso: “secondo una di queste, è l'associazione dei lavoratori a incarnare la volontà dell'intera società sostituendosi allo Stato; secondo l'altra, è lo Stato, entità astratta e proteiforme, a rappresentare la volontà dei lavoratori”. Come si vede, siamo qui in presenza di una questione ancora oggi dibattuta, come testimonia la fortuna della già richiamata categoria di “comune” e di “bene comune”, che si sforza (alla maniera di un De Paepe durante l'assise di Bruxelles) di tirare fuori dal cilindro hic et nunc un “collettivo”, un “partecipato”, allo stesso tempo “non statale”.
Fin qui, tuttavia, (e tuttora, temiamo) la questione viene posta nel dibattito interno all'Ait in maniera piuttosto astratta, e sarà solo tramite le traumatiche e sanguinose vicende della guerra franco-tedesca e della Comune di Parigi che si aprirà la terza fase, che Léonard definisce “della lotta di classe” e che sfocerà nel progressivo predominio delle teorie marxiane (compiutosi tuttavia a prezzo di una scissione della componente anarchica che nel volgere di pochi anni porterà l'Ait “ufficiale” all'autoestinzione). Segnaliamo incidentalmente l'estremo interesse, come documento comprovante la crescente influenza e notorietà di Marx tanto in seno all'Ait quanto a livello di opinione pubblica mondiale, dell'intervista rilasciata dal pensatore di Treviri al giornale statunitense The World nel luglio del 1871, che Léonard ha opportunamente inserito nell'appendice del volume (contenente anche l'indirizzo inaugurale dell'Ait, scritto sempre da Marx nel 1864, e gli statuti provvisori di quest'ultima redatti poco dopo l'assemblea di fondazione tenutasi al Saint-Martin's Hall di Londra nello stesso anno).
A partire dall'esperienza parigina matura in molti aderenti all'associazione la consapevolezza della centralità della questione politica. Nella Comune Marx individua, secondo le celebri parole de La guerra civile in Francia (testo che nasce come documento di indirizzo del Consiglio generale dell'Ait e che l'autore del Capitale comincia a scrivere l'ultimo giorno della settimana di sangue), “la forma politica, finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro”. Il “vero segreto” della Comune veniva quindi identificato da Marx con il suo essere “essenzialmente un governo della classe operaia”. Poiché è precisamente in questa fase, come scrive Léonard, “che il nome di Marx esce dalle cerchie iniziatiche”, è facile capire come l'ultimo stadio di sviluppo della storia della Prima Internazionale sia caratterizzato dalla crescente tematizzazione della questione del potere politico e della sua necessaria conquista da parte della classe lavoratrice. Un potere egualitario, all'insegna della democrazia più radicale, “partecipato” e “comune” (lo dice il nome!), se vogliamo, ma non di meno statale (sia pure di uno Stato che pone le premesse per la propria stessa estinzione e che prende le mosse dalla distruzione della macchina burocratico-poliziesca ereditata dal regime precedente, come avrà modo di argomentare diffusamente Lenin in Stato e rivoluzione).
Su questo tema, e su quello correlato della necessità del centralismo organizzativo in vista dell'“assalto al cielo”, si consumerà la rottura con la componente anarchica al congresso dell'Aja (settembre 1872), che vede l'espulsione di Bakunin, e sarà questa impostazione ormai apertamente politica e “statalista” (ma quest'ultima è evidentemente un'etichetta impropria e fuorviante) a dare l'impronta alla fase successiva della storia del movimento operaio, caratterizzata dalla nascita dei partiti di ispirazione socialista su base nazionale. A questo proposito, e per concludere, ci sembrano opportune alcune osservazioni critiche riguardanti le valutazioni che Léonard propone nelle pagine conclusive del volume.
L'autore, di tendenza libertaria, sembra stabilire in effetti una linea di continuità fra il nuovo corso sopraccennato, che emerge più o meno verso la fine degli anni Settanta dell'Ottocento, e la tendenza al riformismo. Come se la scelta del partito come forma organizzativa, la ripulsa dell'astensionismo e la partecipazione, in quanto partito, al gioco politico nazionale comportassero automaticamente il passaggio ad un'ottica gradualista, di collaborazione di classe e nazionalista. Ora, se è senz'altro vero, sul piano degli eventi storici, che gli anni Settanta e Ottanta del XIX secolo vedranno l'emergere dei grandi partiti socialdemocratici, Spd in primis, e di quella Seconda Internazionale che morirà di scarso internazionalismo il 4 agosto del 1914, la correlazione fra la forma organizzativa del partito e il riformismo appare quanto meno discutibile. Così come appare dubbia anche un'altra idea dell'autore, quella per cui il tentativo di tenere insieme la forma partito, la rivoluzione e la marxiana dittatura del proletariato avrebbe come necessarie conseguenze lo stalinismo e la tirannide più pura.
Questa seconda convinzione di Léonard è a nostro avviso leggibile fra le righe del giudizio liquidatorio che lo storico francese da del bolscevismo, assimilato al blanquismo e messo in una relazione diretta e molto poco problematica con il “modello unico del Partito-Stato”. Stupisce che l'autore di questa rigorosa ricerca, che riconosce senz'altro il valore del marxismo come strumento analitico, citi, a proposito del problema della “burocrazia rossa”, Bakunin (che pure ebbe senz'altro delle importanti intuizioni in proposito) e non la figura e il pensiero di Lev Trotskij, anche solo per criticarli o distanziarsene. Di fatto, quella dell'organizzatore dell'armata rossa fu una critica della burocrazia svolta su basi marxiste, e qualche riferimento ad essa nel contesto di cui si è detto sarebbe stato quanto mai opportuno. Quanto alla questione del rapporto fra stalinismo e bolscevismo, notiamo en passant che Trotskij dedicò uno dei suoi scritti al tema, scagliandosi contro l'idea dello “sviluppo del bolscevismo nel vuoto” e volendo con questo significare che le cause del Termidoro burocratico non dovevano essere ricercate in una sorta di autogenerazione del concetto “bolscevismo”, che conterrebbe in se lo “stalinismo”, ma nelle concrete condizioni storiche, materiali, che caratterizzarono la vita del giovane Stato sovietico rimasto isolato, ancorché in piedi e vittorioso, dopo la conclusione della guerra civile.
Piccole omissioni, forse dovute ad esigenze di spazio, in un libro che conserva intatto il suo valore e che si occupa in realtà di una fase ancora precedente, caotica, creativa, e proprio per questo molto interessante, dello sforzo storico di organizzare e dare l'assalto al cielo.
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