Alla
fine la sensazione l’hanno avuta in tanti. Il
congresso che s’è concluso domenica a Napoli ha restituito una boccata
d’ossigeno a un partito che negli ultimi due anni aveva introiettato un senso
di fatalismo. La comunità di Rifondazione comunista esce da tre giornate di
lavori congressuali con una prospettiva e una nuova segreteria (Paolo Ferrero,
riconfermato segretario, Irene Bregola, Roberta Fantozzi, Marco Gelmini,
Claudio Grassi, Gianluigi Pegolo, Rosa Rinaldi e Augusto Rocchi). «Questo è un
partito vero – rivendica nelle conclusioni Paolo Ferrero – non un ectoplasma. È
un partito fatto di circoli e di militanti. Gramsci diceva che la storia di un
partito si legge da quanto incide nella vita di un paese, non dalle
deliberazioni del comitato politico».
L’aggettivo «costituente» – lo si è detto più volte – è il termine chiave per definire la visione strategica, progettuale, nient’affatto provvisoria del governo Monti. E la battaglia per l’egemonia si vince portando la lotta di classe al livello del capitale, non rifugiandosi in un ribellismo, magari molto urlato, ma in fondo subalterno – dirà Ferrero citando Panzieri. Alla fine dei conti, «costituente» è stato questo stesso congresso, incentrato soprattutto su un lavoro di riforma del partito per renderlo adeguato ai compiti che l’attendono in questa fase. La relazione conclusiva di Ferrero è stata una sorta di inventario degli arnesi da lavoro indispensabili nell’immediato futuro.
L’aggettivo «costituente» – lo si è detto più volte – è il termine chiave per definire la visione strategica, progettuale, nient’affatto provvisoria del governo Monti. E la battaglia per l’egemonia si vince portando la lotta di classe al livello del capitale, non rifugiandosi in un ribellismo, magari molto urlato, ma in fondo subalterno – dirà Ferrero citando Panzieri. Alla fine dei conti, «costituente» è stato questo stesso congresso, incentrato soprattutto su un lavoro di riforma del partito per renderlo adeguato ai compiti che l’attendono in questa fase. La relazione conclusiva di Ferrero è stata una sorta di inventario degli arnesi da lavoro indispensabili nell’immediato futuro.
La «linea politica», innanzitutto,
basata su una «opposizione netta» al governo Monti, ma nient’affatto vaga e
inconcludente.
«Dobbiamo lavorare da subito perché ogni
scadenza diventi un appuntamento per costruire il massimo di opposizione», a
cominciare dallo sciopero dichiarato dalla Fiom per il 12 dicembre e dalla
«assemblea del comitato No debito del 17». Lo scenario politico cambia in
fretta, «le posizioni di Cgil, Cisl e Uil, per altro da verificare sul campo,
sarebbero state impensabili fino a pochi giorni fa» e lo stesso «imbarazzo del
Pd» di fronte alla stangata del governo Monti dà il segnale di una situazione contraddittoria nella quale noi
dobbiamo saper intervenire. L’obiettivo è che si arrivi a «uno sciopero
generale». La rapidità della risposta è
decisiva altrimenti si rischia che a livello di massa, dopo l’iniziale
aspettativa suscitata dall’avvicendamento di Monti a Berlusconi, subentri la
delusione, la rabbia e l’impotenza.
Ferrero
tiene a dire che la linea politica deve essere accessibile,
pubblica, chiara e riassumibile in pochi punti, «altrimenti non funziona».
«Unità della sinistra» (nella Fds ma
«senza rimanere nei suoi confini»), «lavoro
di massa», sviluppo del “partito
sociale”, «costituente dei beni
comuni e del lavoro», «stati
generali dell’opposizione»: sono queste le indicazioni pratiche elencate da
Paolo Ferrero.
Secondo, la critica al settarismo,
sotto ogni forma, sia quando si manifesta come atteggiamento culturale, come
propensione al dogmatismo o schematismo, sia quando sfocia in un tipo di
pratica politica che produce isolamento, preclusione di rapporti unitari,
incapacità di confrontarsi sul merito delle questioni.
Scegliere l’opposizione e la nostra
autonomia dal centrosinistra come «collocazione strategica» non significa
ridurre la nostra linea politica ad una discussione sulle alleanze elettorali e avventurarsi in un’assurda
diatriba su cosa si farà alle prossime elezioni in un quadro che non è dato
prevedere. «Il bipolarismo deforma la
rappresentazione della società, serve a garantire che il centro governi sempre,
a prescindere da chi vince le elezioni, e a distruggere la sinistra
d’alternativa», costretta o a integrarsi in accordi di governo col
centrosinistra, in rapporti di forza sfavorevoli, o ad andare da sola e subire
l’accusa di fare il gioco della destra. «Le
alleanze elettorali devono essere per noi una questione di tattica e non di
identità», non si può costruire su di esse il proprio progetto politico.
«Tutte le scissioni di Rifondazione sono nate dall’aver considerato la
collocazione politica un problema di identità, e non di tattica». Un esempio?
Chi a Milano non ha sostenuto la coalizione di Pisapia «non ha preso neppure i
voti dei familiari». «Non ci avrebbe capito nessuno se non l’avessimo fatto», «non si può stare a chilometri di distanza
dal senso comune». Ma è altrettanto «giusto» che la Federazione della sinistra
voti «contro le politiche “continuiste” sull’expo dell’amministrazione Pisapia»
e questo «possiamo farlo perché nel
consiglio comunale ci siamo». Altro esempio, «in Val di Susa considero un atto di intelligenza politica che le liste
civiche No tav, anziché chiudersi in un angolo e limitarsi a denunciare,
abbiano raggiunto un compromesso col Pd per formare le giunte. Così sono
riuscite a isolare la destra e l’ala del Pd che sta con Chiamparino». La politica sta nel sapere utilizzare la
propria forza «anche quando questa di per sé è insufficiente».
Terzo, il rapporto col Pd. La possibilità di fare politica
dipende dall’impostazione della propria analisi. Se si dice che «il Pd è un partito organicamente borghese» ne deriva
che al suo interno «non ci sono più contraddizioni» e, quindi, che lo scenario
attuale è destinato a rimanere immobile, qualunque cosa noi facciamo. Non
si tratta di negare che il sostegno del Pd a Monti è una posizione di
subalternità alla borghesia italiana. Se
però il Pd fosse «organico» alla borghesia italiana come spiegarsi il contrasto
nelle sue file tra Fassina e l’ala liberal? Si possono forse negare le
turbolenze nella stessa base del Pd o nella Cgil?Invece, se lavoriamo come si
deve, senza cedimenti e nel fuoco dello scontro sociale, se non rinunciamo a
fare politica, è più facile che un compagno del Pd arrivi a dare ragione a noi,
piuttosto che uno di Rifondazione passi dalla parte di Ichino». E allora perché
precludersi questa possibilità? «Denunciare che nel Pd
sono tutti traditori e venduti serve a noi o a Veltroni? Io penso che serva a
Veltroni.
Tonino Bucci - Liberazione
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