Questo
nostro VIII congresso si svolge in un momento molto difficile per il
nostro partito e per il Paese. Usciamo da tre anni durissimi, segnati
dal disastro del 2008 e dalla scissione seguita a Chianciano (la più
grave tra tutte quelle subite da Rifondazione comunista).
Il partito è
stato sistematicamente oscurato dall’informazione e ha subito
l’offensiva che i poteri dominanti hanno sferrato contro il movimento di
classe. Considerata l’enormità della sfida, è di per sé motivo di
soddisfazione il fatto di essere nonostante tutto qui. A chi in questi
tre anni si è augurato che noi scomparissimo, la nostra risposta è
questo congresso nazionale, che ha visto la partecipazione appassionata e
generosa di decine di migliaia di compagne e di compagni.
Proprio questa passione è la ragione
principale della nostra resistenza. Se siamo qui è anche perché non ci
siamo sbagliati nell’analisi politica, anche perché abbiamo finalmente
saputo imboccare la strada dell’unità del partito; ma è soprattutto
perché in questo partito rimane viva la passione politica dei nostri
militanti, che ogni giorno, nonostante enormi difficoltà anche
materiali, nonostante incertezze e preoccupazioni, continuano la
battaglia: stanno nelle lotte, fanno i banchetti, tengono aperte le
sedi. Sono loro, in gran parte assenti da questa sala, i veri
protagonisti del congresso, ai quali va il nostro saluto riconoscente.
A proposito dell’unità del partito,
testimoniata dal vastissimo consenso riscosso dal primo documento, è
importante intendersi. Unità non significa unanimità, ma coesione,
fiducia reciproca, sentimento della comune appartenenza. Se la si prende
sul serio, l’unità è una forma dell’esperienza: si consolida
praticandola. Su questo terreno non servono proclami né regolamenti.
Servono gesti concreti all’insegna della buona volontà, del rispetto e
della fiducia reciproca. Mi pare che con questo congresso stiamo facendo
un importante passo avanti, che ciascuno di noi ha il compito di
consolidare, adottando nel concreto comportamenti conseguenti.
Ma se è vero che siamo riusciti a
resistere ai tre anni più duri della storia di Rifondazione comunista,
non per questo possiamo affermare che la sfida è vinta e che il pericolo
è alle nostre spalle. La sfida è ancora aperta, i pericoli incombono
sul partito e sul Paese, a cominciare dalla nostra gente: il mondo del
lavoro dipendente (in particolare nel Mezzogiorno e nella sua componente
femminile), i giovani, i migranti.
Sappiamo tutti qual è il cuore del
problema. Sono più di trent’anni che in tutto l’Occidente (ma in Italia
in particolare) il lavoro è sotto attacco, colpito nel reddito, nei
diritti, nella stessa dignità. Di questo attacco (che ha comportato
anche il riattivarsi della macchina bellica dell’imperialismo nelle aree
geopolitiche cruciali per il controllo delle materie prime e delle
risorse energetiche) – di questo attacco non si vede la fine.
In fondo la crisi che cos’è? È una
condizione generale prodotta dal capitale, di cui il capitale si serve
per continuare nell’attacco contro il lavoro. Pensateci: da una parte,
per salvaguardare il profitto, il capitale nega reddito abbassando i
salari e licenziando, costringe le persone a indebitarsi e specula sul
loro debito gonfiando enormi bolle finanziarie che prima o poi scoppiano
(com’è avvenuto tra il 2007 e il 2008); dall’altra parte, il capitale
si serve degli Stati (dei soldi pubblici) per far quadrare i bilanci
delle imprese private, per cui poi gli Stati tornano ad attaccare la
massa delle famiglie (le classi lavoratrici) colpendole nel reddito e
nei diritti, tagliando i servizi pubblici, riducendo gli organici nel
pubblico impiego. Ormai si è perso il conto di quante centinaia di
miliardi di euro questa politica di rapina è costata, negli ultimi tre
anni, a chi cerca di mantenere la famiglia col salario, lo stipendio o
la pensione.
Ma questa è solo una parte del problema.
Se l’attacco capitalistico colpisce con tale violenza, è perché non
incontra sufficiente resistenza. Il capitale non ha cambiato natura.
Vive da sempre a spese del lavoro, da sempre cresce a misura di quanto
sottrae alla controparte. Non dobbiamo pensare che oggi i capitalisti
siano più cattivi di prima. Quel che è cambiato (a vantaggio del
capitale) è il rapporto tra le forze, e in questo cambiamento la crisi
storica della sinistra è l’aspetto cruciale.
Anche a questo riguardo sappiamo come
stanno le cose. In Italia questa vicenda si chiama, nell’ordine:
compromesso storico e logica delle compatibilità, Bolognina,
concertazione e trattato di Maastricht, riforme maggioritarie e
bipolarismo, neoliberismo temperato e Ulivo, e finalmente Partito
democratico e governo Monti.
Trent’anni di lenta eutanasia della
sinistra hanno regalato al capitale una libertà di manovra che si è
tradotta nel trasferimento annuo, dal lavoro al capitale, di oltre il
dieci per cento del reddito nazionale, e nella sistematica distruzione
delle tutele e dei diritti conquistati con le lotte operaie e sociali
degli anni Sessanta e Settanta. E tutto questo a danno del Paese, perché
l’assenza del conflitto ha permesso al capitale di valorizzarsi senza
sviluppo. Se l’Italia è messa peggio di quasi tutti i Paesi in Europa lo
si deve proprio al fatto che il capitale, potendo risolvere i suoi
problemi a spese del lavoro, non ha dovuto investire nella ricerca
tecnologica e ha lasciato invecchiare l’apparato produttivo.
Però non è che possiamo cavarcela solo
deprecando le scelte altrui. La responsabilità di chi ha distrutto il
Pci, di chi ha imbrigliato il sindacato nello schema concertativo e di
chi ha praticato la politica dell’equivicinanza rispetto al lavoro e
all’impresa sono enormi, ma molto pesanti sono anche le responsabilità
nostre. Vent’anni fa Rifondazione aveva la concreta possibilità di
contrastare questa deriva e, se non c’è riuscita, questo si deve anche a
molte nostre scelte sbagliate. Non è possibile ripercorrere qui questa
storia (che peraltro attende ancora di essere fatta collettivamente), ma
sono convinto che un bilancio serio non possa prescindere da una
serrata autocritica, che dovrebbe coinvolgerci tutti, a cominciare dai
gruppi dirigenti (compresi, ovviamente, tante compagne e tanti compagni
che hanno abbandonato il partito nelle varie scissioni che lo hanno
dissanguato).
Qual è il punto – per indicare la questione principale, quello che a me sembra l’errore più grave in questa vicenda?
Molto semplicemente, non avere capito che non ci si poteva permettere il lusso di dividersi.
Dire questo non significa banalizzare le
differenze né sottovalutarle. Significa dire che se le differenze
prevalgono sulle ragioni dell’unità, si perde inevitabilmente tutti
quanti, perché ci si riduce in piccoli frammenti irrilevanti e perché si
imbocca una spirale in cui ogni difficoltà alimenta nuove divisioni e
ogni nuova divisione accresce le difficoltà. Questa è la nostra colpa:
parlo di tutta la sinistra di alternativa in Italia. E questa colpa oggi
rischia di provocare una conseguenza gravissima.
Quello che il governo Monti progetta di
fare non è solo iniquo e intollerabile. È anche pericolosissimo, poiché
semina paura, disperazione e rabbia, una miscela esplosiva che, se
capitalizzata dalla destra, può spingere un Paese già stremato verso
avventure tragiche.
Il fascismo nel Novecento si affermò in
condizioni non molto diverse dall’attuale. In questo scenario la
frammentazione e la debolezza della sinistra e del movimento di classe
pesano come macigni. Il fatto che essi non siano in grado di svolgere la
funzione che competerebbe loro (quella di costituire riferimenti
credibili per il mondo del lavoro, presidi forti ed efficaci per le
classi subalterne) costituisce una responsabilità gravissima, che non
dovremmo esitare a definire storica.
Certo, oggi, al punto in cui siamo,
ciascuno può chiamarsi fuori, addossando agli altri la colpa della
frammentazione e dell’impotenza complessiva. Ma responsabili siamo
tutti, senza eccezione. Ognuno ha il dovere di fare la propria parte,
cominciando con l’assumere comportamenti coerenti con la necessità di
ricomporre il campo unitario della sinistra di alternativa, pena la sua
irrilevanza e la sua incapacità di fare argine al pericolo di un
rigurgito reazionario che è, oggi, la minaccia di gran lunga più grave.
D’altra parte – ed è l’ultima cosa che
vorrei dire – l’attuale situazione politica presenta anche una grande
opportunità per la sinistra, a cominciare dal nostro partito e dalla
Federazione.
Noi siamo le uniche forze che non
debbono cambiare nemmeno una virgola della propria analisi per essere
contro il governo Monti e per indicare la via d’uscita dalla crisi nel
segno della giustizia sociale e dell’autonomia delle classi subalterne.
Siamo indipendenti dal centrosinistra, nemici del capitalismo, radicati
nel movimento di classe. Dobbiamo solo sforzarci di spiegare bene le
nostre convinzioni evitando scorciatoie estremistiche che
comprometterebbero in radice la nostra credibilità. Tanto per fare un
esempio, penso sia sbagliato dire che il debito non va pagato o che
bisogna battere la strada della bancarotta (sia pure pilotata) e uscire
dall’euro. Oltre ad essere tecnicamente insostenibili, queste parole
d’ordine appaiono irrealistiche e catastrofiche, e inducono la nostra
gente a ritenere che quella di Monti sia l’unica strada possibile. Noi
dobbiamo puntare l’indice sui veri debitori: i detentori di grandi
patrimoni, i fruitori delle grandi rendite, gli evasori fiscali (che
sottraggono ogni anno alla collettività 200 miliardi di euro). Dobbiamo
esigere che dalla crisi si esca con una grande operazione di
redistribuzione della ricchezza, che sarebbe l’unico processo in grado
di coniugare giustizia sociale e ripresa dell’economia nazionale.
Ma, al netto delle esasperazioni estremistiche, la nostra posizione è giusta e capace di risultare attrattiva ed egemonica.
I problemi più seri li hanno le altre
componenti della sinistra, e lo stesso Pd, come dimostrano la sofferenza
della Cgil e i furibondi attacchi mossi al responsabile economico del
partito, diretti al bersaglio grosso del segretario nazionale.
I maggiori problemi li ha il gruppo
dirigente di Sel, che deve scegliere se sostenere Monti, rischiando di
perdere gran parte dei consensi che raccoglie tra i giovani e tra i
lavoratori, o combatterlo, come chiede il popolo della sinistra,
archiviando la strategia del Nuovo Ulivo e dell’internità al
centrosinistra.
A noi, in questa fase, occorre soltanto
tenere i nervi saldi, impegnarci per rafforzare il partito e la
Federazione, e compiere ogni sforzo perché la sinistra di alternativa
ritrovi unità e torni ad essere quella grande forza che era ancora nel
2003, quando si consumò lo scontro sull’articolo 18 dello Statuto dei
lavoratori.
Se davvero metteremo tutte le nostre
energie in questo lavoro, senza riserve mentali; se riusciremo a
convincere la nostra gente (che è potenzialmente maggioranza nel Paese)
che davvero Rifondazione comunista e la Federazione della sinistra sono
in campo e lavorano per rifare grande la sinistra di alternativa e il
movimento dei lavoratori, allora io credo che potremo farcela. Non solo a
sopravvivere, come siamo riusciti a fare in questi tre anni, ma anche a
tornare quello che siamo stati e, ancora di più, ad assolvere il
compito per cui siamo nati vent’anni fa: restituire all’Italia una
grande forza comunista, popolare e di classe, senza la quale non ci
sarebbero state né la Repubblica democratica né la Costituzione
antifascista.
Alberto Burgio - intervento all'VIII Congresso nazionale del PRC
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