«Affama
la bestia» è lo slogan con cui Ronald Reagan aveva inaugurato il
trentennio di liberismo di cui oggi stiamo pagando le conseguenze. La
«bestia» per Reagan era il governo: che - è un altro suo celebre detto -
«non è la soluzione ma il problema». La bestia da affamare è in realtà
la democrazia, l'autogoverno, la possibilità per i cittadini e i
lavoratori di decidere il proprio destino. Il programma è di mettere
tutto in mano ai privati, che si appropriano così delle funzioni di
governo e le gestiscono in base alle leggi del profitto. Quel programma è
stato ora tradotto dall'Ue e dai governi dell'eurozona in due strumenti
micidiali: il pareggio di bilancio e il fiscal compact. Con queste due
misure in Italia verranno prelevati ogni anno dalle tasse, cioè dai
bilanci di chi le paga, quasi 100 miliardi di interessi e altri 45-50 di
ratei, per versarli ai detentori del debito: in larga parte banche e
assicurazioni sull'orlo del fallimento per operazioni avventate e altri
grandi speculatori nazionali ed esteri, e solo in minima parte singoli
risparmiatori. L'assurdità di queste misure non va sottovalutata: nessun
paese al mondo, nemmeno la Germania di Weimar, condannata al pagamento
dei danni di guerra, ha mai rimborsato un proprio debito: che è stato
sempre ridimensionato o riassorbito dalla «crescita» del Pil - quando
c'è stata - o dall'inflazione, o da un condono, o da un default.
Sottoporre a un salasso del genere un paese come il nostro, con un
debito di oltre il 120 per cento del Pil, vuol dire condannarlo alla
rovina. L'esempio della Grecia, a cui pure sono imposte per ora misure
assai meno drastiche di quelle previste dal fiscal compact, è sotto gli
occhi di tutti. Ma bisogna ricordare che tre anni fa, quando la Grecia
ha cominciato a dare attuazione al primo memorandum della Trojka (Bce,
Fmi e Commissione europea), Monti aveva salutato il cammino intrapreso
come l'alba del risanamento economico del paese. Esattamente quello che
ripete ogni giorno, ora che è presidente del consiglio, lodandosi, e
lodando le politiche del suo governo, mentre occupazione, redditi da
lavoro, produzione, bilanci aziendali, Pil e debito pubblico precipitano
verso il baratro.
D'altronde, se non bastassero le misure contro i lavoratori varati dal suo Governo, va ricordato anche che meno di un mese fa il parlamento europeo ha dovuto bloccare un regolamento proposto dalla Commissione, ma redatto e ispirato nel 2010 proprio da Monti, che mira a subordinare alle «convenienze» dell'impresa il diritto di sciopero: «Regolamentazione dell'esercizio del diritto di promuovere azioni collettive nel contesto della libertà d'impresa e della garanzia dei servizi».
Ecco chi è quello che i partiti che lo sostengono considerano salvatore della patria! «In Portogallo nel 1932 - ricorda l'associazione veneziana Fondamenta - un professore di economia, al secolo António de Oliveira Salazar, fu chiamato a dirigere il Paese per far fronte alla crisi economica e all'enorme deficit di bilancio che attanagliava la terra lusitana. Il suo intento era di creare una struttura super partes capace di riunire in sé tutte le correnti nazionali e di sostituirsi ai partiti. Rimase al potere per 36 anni e 82 giorni, e il suo regime, noto come salazarismo, ebbe termine solo con una rivoluzione, il 25 aprile del 1974». Vogliamo imboccare la stessa strada? O non l'abbiamo forse già imboccata?
Ecco allora un primo passaggio ineludibile: se non vogliamo rinchiuderci nel solco salazariano tracciato da Monti, pareggio di bilancio e fiscal compact devono venir respinti e disattesi e il debito pubblico va affrontato con altri strumenti. L'Italia ha un avanzo primario consistente: consolidando il proprio debito potrebbe evitare di ricorrere al mercato finanziario per parecchi anni. E senza «uscire dall'euro», a meno di venirne cacciata; cosa che porrebbe più problemi che vantaggi anche a tutti gli altri paesi dell'eurozona. D'altronde, che una ristrutturazione del debito italiano sia prima o poi inevitabile lo dicono ormai anche molti economisti mainstream, da Rubini a Savona. Una forte patrimoniale è certo necessaria, ma non basta a risolvere il problema. Ma questo non va affrontato in ordine sparso: con il fiscal compact i paesi che si troveranno nella nostra situazione, o anche peggio, sono destinati a crescere; e le forze sociali disposte a prendere di petto il debito sono sì sparse e per lo più senza rappresentanza, ma sempre più numerose. Dinnanzi a un loro schieramento compatto, le autorità monetarie e il cosiddetto fronte del nord si vedrebbero costretti a imboccare di corsa strade, come la mutualizzazione o la monetizzazione dei debiti pubblici dell'eurozona, che oggi vedono come fumo negli occhi.
La stretta monetaria e fiscale imposta dalle autorità europee - e, per lo meno fino a ieri, dal Fmi, che con queste imposizioni ha mandato in rovina ben più di un paese nel corso del tempo - ha il suo riflesso più vistoso nel patto di stabilità interno: quello che mette alle corde le finanze degli enti locali - e innanzitutto dei Comuni - costringendoli a svendere patrimonio immobiliare, beni comuni e servizi pubblici per far cassa. Così, nonostante che 27 milioni di italiani abbiano abrogato, con il referendum dello scorso anno, l'obbligo di svendere i servizi pubblici, sono ben quattro i decreti e le leggi che da allora prima il Governo Berlusconi e poi quello Monti hanno varato per reintrodurre quell'obbligo; e l'ultimo anche dopo che la Corte Costituzionale aveva decretato l'illegittimità dei primi tre; e tutti prontamente controfirmati dal Presidente della Repubblica, supremo «tutore» della Costituzione, per il quale evidentemente della volontà degli elettori si può e deve far strame. A sostegno di questo scippo viene poi mobilitata anche la Cassa Depositi e Prestiti - un istituto creato oltre 150 anni fa e finanziato dal risparmio postale per sostenere le iniziative dei Comuni, cioè i servizi pubblici locali - che il governo Berlusconi ha privatizzato con un trucco contabile e il governo Monti sta mettendo al servizio dei peggiori scempi perpetrati a danno dei territori e delle loro comunità. Più salazarismo di così ... .
La cosa è tanto più grave perché è solo dai territori e dalle comunità che lo abitano, e proprio facendo leva su un approccio innovativo ai servizi pubblici locali, che possono prendere piede progetti e pratiche di una vera politica industriale orientata alla conversione ecologica. Una politica industriale fondata sul decentramento delle decisioni, sulla partecipazione della cittadinanza attiva, su impianti di piccola taglia, su servizi flessibili diffusi e diversificati in base alle risorse disponibili e alle esigenze locali: nel campo della cultura, dell'educazione, dell'energia, della mobilità, degli approvvigionamenti alimentari (e quindi di un'agricoltura a km0), della gestione delle risorse materiali (oggi chiamata gestione dei rifiuti), dell'edilizia ecologica, della salvaguardia del territorio; e di tutte le produzioni che potrebbero essere avviate, creando un mercato e riconvertendo molte aziende in crisi, per fornire materiali, impianti, attrezzature e supporto tecnico a quei progetti. E' l'unico modo per salvaguardare l'occupazione e promuoverne di nuova, legandola al sostegno attivo della cittadinanza. Invece, tra patto di stabilità e assalto alla finanza locale sferrato dalle banche, che hanno riempito i comuni di debiti e di derivati per finanziare bilanci sempre meno trasparenti e comprensibili, le amministrazioni locali sono state svuotate di ogni funzione, se non quella di fare da paravento a una progressiva cessione di sovranità a favore dei privati, dell'alta finanza e di poteri centralizzati. Questa cessione di funzioni è illegittima, contraria alla volontà espressa dagli elettori con il referendum; e i sindaci delle giunte che vogliono rinnovarsi e assumere le responsabilità che la Costituzione attribuisce loro devono prenderne atto: anche adottando - ed è il secondo passaggio ineludibile - misure di requisizione e di esproprio delle aziende necessarie a rimettere in moto l'economia dei propri territori.
Ma i governi locali, si obietta, sono proprio quelli dove corruzione e malgoverno allignano maggiormente, come mostrano gli episodi più recenti di cronaca politica. Intanto se il malgoverno alligna anche lì è perché a promuoverlo sono i poteri centrali: basta pensare a una legge contro la corruzione che non contiene nulla contro il falso in bilancio e che nonostante ciò fatica a passare - e poi si lamentano che nessuno investe in Italia! Lo è venuto a spiegare l'emiro del Qatar al prof. Monti, il quale «credeva» invece che gli investimenti non arrivassero per via dell'art. 18. Per questo l'art. 18 è stato cancellato e per la corruzione è stato invece votato un salvacondotto. Poi ha ragione chi scrive che la corruzione della politica è una compensazione per la cessione del potere reale all'alta finanza e alle grandi corporation. Ma se il governo del territorio viene affidato a una gestione privata, i poteri pubblici perdono la loro stessa ragion d'essere e non resta loro altra finalità che quella di perpetuarsi a qualunque costo. Per questo l'alternativa tra pubblico e privato ha perso gran parte del suo significato; solo gestendo patrimonio e servizi pubblici come beni comuni, in forme partecipate, si può restituire alla politica il suo significato originario, che è quello di autogoverno.
D'altronde, se non bastassero le misure contro i lavoratori varati dal suo Governo, va ricordato anche che meno di un mese fa il parlamento europeo ha dovuto bloccare un regolamento proposto dalla Commissione, ma redatto e ispirato nel 2010 proprio da Monti, che mira a subordinare alle «convenienze» dell'impresa il diritto di sciopero: «Regolamentazione dell'esercizio del diritto di promuovere azioni collettive nel contesto della libertà d'impresa e della garanzia dei servizi».
Ecco chi è quello che i partiti che lo sostengono considerano salvatore della patria! «In Portogallo nel 1932 - ricorda l'associazione veneziana Fondamenta - un professore di economia, al secolo António de Oliveira Salazar, fu chiamato a dirigere il Paese per far fronte alla crisi economica e all'enorme deficit di bilancio che attanagliava la terra lusitana. Il suo intento era di creare una struttura super partes capace di riunire in sé tutte le correnti nazionali e di sostituirsi ai partiti. Rimase al potere per 36 anni e 82 giorni, e il suo regime, noto come salazarismo, ebbe termine solo con una rivoluzione, il 25 aprile del 1974». Vogliamo imboccare la stessa strada? O non l'abbiamo forse già imboccata?
Ecco allora un primo passaggio ineludibile: se non vogliamo rinchiuderci nel solco salazariano tracciato da Monti, pareggio di bilancio e fiscal compact devono venir respinti e disattesi e il debito pubblico va affrontato con altri strumenti. L'Italia ha un avanzo primario consistente: consolidando il proprio debito potrebbe evitare di ricorrere al mercato finanziario per parecchi anni. E senza «uscire dall'euro», a meno di venirne cacciata; cosa che porrebbe più problemi che vantaggi anche a tutti gli altri paesi dell'eurozona. D'altronde, che una ristrutturazione del debito italiano sia prima o poi inevitabile lo dicono ormai anche molti economisti mainstream, da Rubini a Savona. Una forte patrimoniale è certo necessaria, ma non basta a risolvere il problema. Ma questo non va affrontato in ordine sparso: con il fiscal compact i paesi che si troveranno nella nostra situazione, o anche peggio, sono destinati a crescere; e le forze sociali disposte a prendere di petto il debito sono sì sparse e per lo più senza rappresentanza, ma sempre più numerose. Dinnanzi a un loro schieramento compatto, le autorità monetarie e il cosiddetto fronte del nord si vedrebbero costretti a imboccare di corsa strade, come la mutualizzazione o la monetizzazione dei debiti pubblici dell'eurozona, che oggi vedono come fumo negli occhi.
La stretta monetaria e fiscale imposta dalle autorità europee - e, per lo meno fino a ieri, dal Fmi, che con queste imposizioni ha mandato in rovina ben più di un paese nel corso del tempo - ha il suo riflesso più vistoso nel patto di stabilità interno: quello che mette alle corde le finanze degli enti locali - e innanzitutto dei Comuni - costringendoli a svendere patrimonio immobiliare, beni comuni e servizi pubblici per far cassa. Così, nonostante che 27 milioni di italiani abbiano abrogato, con il referendum dello scorso anno, l'obbligo di svendere i servizi pubblici, sono ben quattro i decreti e le leggi che da allora prima il Governo Berlusconi e poi quello Monti hanno varato per reintrodurre quell'obbligo; e l'ultimo anche dopo che la Corte Costituzionale aveva decretato l'illegittimità dei primi tre; e tutti prontamente controfirmati dal Presidente della Repubblica, supremo «tutore» della Costituzione, per il quale evidentemente della volontà degli elettori si può e deve far strame. A sostegno di questo scippo viene poi mobilitata anche la Cassa Depositi e Prestiti - un istituto creato oltre 150 anni fa e finanziato dal risparmio postale per sostenere le iniziative dei Comuni, cioè i servizi pubblici locali - che il governo Berlusconi ha privatizzato con un trucco contabile e il governo Monti sta mettendo al servizio dei peggiori scempi perpetrati a danno dei territori e delle loro comunità. Più salazarismo di così ... .
La cosa è tanto più grave perché è solo dai territori e dalle comunità che lo abitano, e proprio facendo leva su un approccio innovativo ai servizi pubblici locali, che possono prendere piede progetti e pratiche di una vera politica industriale orientata alla conversione ecologica. Una politica industriale fondata sul decentramento delle decisioni, sulla partecipazione della cittadinanza attiva, su impianti di piccola taglia, su servizi flessibili diffusi e diversificati in base alle risorse disponibili e alle esigenze locali: nel campo della cultura, dell'educazione, dell'energia, della mobilità, degli approvvigionamenti alimentari (e quindi di un'agricoltura a km0), della gestione delle risorse materiali (oggi chiamata gestione dei rifiuti), dell'edilizia ecologica, della salvaguardia del territorio; e di tutte le produzioni che potrebbero essere avviate, creando un mercato e riconvertendo molte aziende in crisi, per fornire materiali, impianti, attrezzature e supporto tecnico a quei progetti. E' l'unico modo per salvaguardare l'occupazione e promuoverne di nuova, legandola al sostegno attivo della cittadinanza. Invece, tra patto di stabilità e assalto alla finanza locale sferrato dalle banche, che hanno riempito i comuni di debiti e di derivati per finanziare bilanci sempre meno trasparenti e comprensibili, le amministrazioni locali sono state svuotate di ogni funzione, se non quella di fare da paravento a una progressiva cessione di sovranità a favore dei privati, dell'alta finanza e di poteri centralizzati. Questa cessione di funzioni è illegittima, contraria alla volontà espressa dagli elettori con il referendum; e i sindaci delle giunte che vogliono rinnovarsi e assumere le responsabilità che la Costituzione attribuisce loro devono prenderne atto: anche adottando - ed è il secondo passaggio ineludibile - misure di requisizione e di esproprio delle aziende necessarie a rimettere in moto l'economia dei propri territori.
Ma i governi locali, si obietta, sono proprio quelli dove corruzione e malgoverno allignano maggiormente, come mostrano gli episodi più recenti di cronaca politica. Intanto se il malgoverno alligna anche lì è perché a promuoverlo sono i poteri centrali: basta pensare a una legge contro la corruzione che non contiene nulla contro il falso in bilancio e che nonostante ciò fatica a passare - e poi si lamentano che nessuno investe in Italia! Lo è venuto a spiegare l'emiro del Qatar al prof. Monti, il quale «credeva» invece che gli investimenti non arrivassero per via dell'art. 18. Per questo l'art. 18 è stato cancellato e per la corruzione è stato invece votato un salvacondotto. Poi ha ragione chi scrive che la corruzione della politica è una compensazione per la cessione del potere reale all'alta finanza e alle grandi corporation. Ma se il governo del territorio viene affidato a una gestione privata, i poteri pubblici perdono la loro stessa ragion d'essere e non resta loro altra finalità che quella di perpetuarsi a qualunque costo. Per questo l'alternativa tra pubblico e privato ha perso gran parte del suo significato; solo gestendo patrimonio e servizi pubblici come beni comuni, in forme partecipate, si può restituire alla politica il suo significato originario, che è quello di autogoverno.
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