Ex dirigente di Lotta Continua, giornalista, scrittore ed
economista che sostiene con forza una riconversione industriale che
faccia finalmente i conti con la questione ambientale, ora anche
esponente dell’associazione A.l.b.a. (Alleanza lavoro beni comune
ambiente), Guido Viale è uno degli intellettuali di sinistra più
originali. Avendo le caratteristiche che abbiamo appena descritto non
poteva certo manifestare grande entusiasmo di fronte alla genericità
dei punti di “Italia. BeneComune”, Carta d’Intenti sottoscritta dal Pd,
da Sel e dal Psi. «Si tratta di un bellissimo compitino – dice Viale –
oggi si usa dire “compito a casa”, che prende dieci per la scrittura e
zero come programma, come contenuto, perché non c’è scritto
assolutamente niente di quello che si deve fare e come. In particolare
le ultime righe, dove si parla dell’osservanza degli accordi
internazionali a meno di una rinegoziazione che non viene comunque
proposta ma solo ipotizzata, annullano tutto quello che è scritto
precedentemente. Perché gli accordi internazionali vogliono dire due
guerre nelle quali siamo impegnati o ci stiamo per impegnare; il già
adottato pareggio di bilancio in Costituzione e il fiscal compact da
adottare che sono di per sé sufficienti ad azzerare qualsiasi
prospettiva di risamento economico ed occupazionale dell’Italia. Oltre
alle misure razziste per limitare l’arrivo degli immigrati e dei
richiedenti asilo che contraddicono in maniera frontale la recente
assegnazione del Premio Nobel per la Pace all’Unione Europea per il
semplice fatto che noi abbiamo una guerra in corso contro la gente che
cerca di entrare in Europa».
Venendo alle forze politiche che hanno aderito a questa Carta
d’Intenti, chi rischia di più è Sel. Ascoltando i dirigenti di questa
forza prevale la convinzione che l’asse politico di quell’alleanza si
sposterà a sinistra di fronte all’evidenza di certi problemi e alla
necessità, per esempio, di fare delle scelte relative ai diversi
referendum in ballo su tematiche che riguardano in particolare i diritti
e il lavoro. Non rischiano, se così non sarà, o di ingoiare il rospo o
di essere costretti a ritirare il sostegno ad un futuro governo con
tutto quello che ne consegue?Io di questa materia m’intendo
pochissimo e ne capisco ancora meno. Mi sembra che la situazione sia
talmente fluida che parlare oggi di forze politiche sia ipotizzare una
situazione consolidata e statica che invece non c’è assolutamente. Non
sappiamo se il Pd arriverà integro a queste elezioni e Sel, per quello
che mi risulta, non esiste. Cioè esiste Vendola che aveva un seguito
molto forte ora un po’ ridimensionato ma se poi si va a vedere che cosa è
Sel in giro per l’Italia trovi accanto a delle iniziative straordinarie
di giovani che si danno da fare dei vecchi burocrati che non esitano
minimamente ad approvare le cose peggiori, addirittura la
privatizzazione dell’acqua e dei servizi pubblici locali in contrasto
non solo con i risultati dei referendum ma addirittura con il fatto che
sia stato proprio il governo della Puglia a ricorrere alla Corte
Costituzionale per cercare di far rispettare l’esito del referendum. Poi
oggi avevo letto un’intervista a Tabacci, entrato nella giunta milanese
per il buco della serratura perché non faceva parte delle forze che
sostenevano Pisapia, dove spiega che se non verrà modificata la Carta
d’Intenti lui si porterà via tutto un pezzo della coalizione a Milano.
Quindi di qui alle elezioni, o di qui alla conclusione delle primarie,
non sapremo quali saranno le forze in campo. Quello che si capisce è che
l’unico elemento solido, duraturo e consistente è la cosiddetta agenda
Monti, dato che nessuno, e nemmeno Vendola, è riuscito ad ottenerne la
cancellazione dalla Carta. Del nome sì, ma del programma appunto no.
Nessuno insomma ha il coraggio, tranne e forse l’Idv, di mettere in
discussione questo. Che poi vuole dire mettere in discussione il
pareggio di bilancio, il fiscal compact e tutte le normative che
comportano la privatizzazione dei servizi locali e dei beni pubblici.
Se dovesse vincere Bersani pensa che dentro quella carta possa cambiare qualcosa oppure è già tutto scritto?No,
è già tutto scritto. Io non vedo nessuna delle forze in campo, compreso
Di Pietro che ora sta correndo dietro alla Carta per paura di rimanere
nell’angolo, che ne abbia la forza. Anche perché per fare questo ci
vuole non dico una teoria ma almeno una strategia e una capacità di
pensare, di mettere in discussione l’egemonia di Monti, chiunque sia poi
a doverlo interpretare nel prossimo periodo. Che poi è mettere in
discussione il diktat che proviene dagli organismi dell’Ue in
particolare dalla Bce e dall’alta finanza internazionale.
Malgrado l’esistenza di un dibattito interno, la Federazione
della Sinistra ha assunto una posizione di assoluta opposizione nei
riguardi dell’alleanza che ha dato vita alla Carta d’Intenti. E si fa
molto riferimento a questo modello Sicilia perché mette insieme tutte
quelle forze, da Sel all’Idv passando appunto per la Fds, che hanno
osteggiato Monti. Ora però la Carta, sostenuta appunto da Sel e vista
con simpatia da Di Pietro, rischia di limitare alla Sicilia o poco più
quel modello. Qual è la sua opinione? E che cosa dovrebbero fare Ferrero
e compagni?Credo innanzitutto che la Fds sia
nell’impossibilità di presentarsi alle elezioni autonomamente e di
rappresentare una reale opposizione. E questo vale per tutti quanti, che
ormai sono moltissimi, quei partiti che si autodenominano comunisti
nessuno dei quali è in grado di realizzare un’operazione di questo
genere. Sicuramente c’è uno spazio enorme per la presentazione di una
lista alternativa al montismo, con chiari riferimenti ad obiettivi di
giustizia sociale ed ambientale. Ma questo vuole dire in tempi molto
rapidi riuscire a dismettere le proprie connotazioni ideologiche,
storiche o identitarie, e riuscire a far partire un processo dal basso
che coinvolga tutti quei militanti e quegli attivisti, che in Italia
sono centinaia di migliaia, che in questi anni sono stati impegnati sul
fronte della lotta e dell’iniziativa sociale e non hanno nessuna
rappresentanza. Tra l’altro mi sembra ci sia una scadenza a brevissimo
termine, oltre alla Sicilia, che ci mette ulteriormente in difficoltà
perché accelera i tempi per una possibile pronuncia, e sono le elezioni
in Lombardia. I tempi per la costruzione di una qualsiasi alternativa mi
sembra che manchino e però non essere presenti in quella occasione
pregiudica molto anche la possibilità di lavorare su tempi leggermente
più lunghi come quelli delle elezioni nazionali.
Sono d’accordo con questa analisi. Come al solito siamo però in ritardo…Devo
dire che incontro moltissimi rappresentanti di Rifondazione e di
organizzazioni affini e vedo che non si parla più sulla base di una
identità. Però tra questo e riuscire a ricomporre un processo unitario
c’è un salto che si fa fatica a fare. Io naturalmente parlo da una
posizione di privilegio perché A.l.b.a. è la più inconsistente di tutti,
è nata dopo tutti quanti ed ha molta più facilità a rinunciare alla
propria identità che non esiste ancora. Non c’è dubbio, e credo che
anche moltissimi militanti della Federazione questa posizione la
condividano, che ci sia poco da difendere la propria identità e invece
moltissimo da costruire.
Credo che voi di A.l.b.a. possiate ambire a diventare uno
stimolo per gli altri piuttosto che arrivare a costituire un’ennesima
forza politica. Questa è la nostra posizione di vantaggio.
Un perno sicuro di questa operazione, anche se non comparirà mai in
prima persona, è la Fiom, nonostante il fatto che su molte questioni sia
suscettibile di critiche anche molto profonde. Per noi di A.l.b.a. è
stato molto importante questo incontro di Torino e siamo stati di fatto
gli unici a rispondere concretamente con una iniziativa al loro appello
del luglio scorso per sondare le forze politiche. Ma indubbiamente
bisogna rimboccarsi molto le maniche, fare i conti sulle forze su cui si
può effettivamente contare e capire fino a dove ci si può spingere nel
mantenere le proprie identità e dove invece bisogna avere il coraggio e
la forza di puntare per instaurare un rapporto nuovo con altri.
Questa operazione in che misura dovrà continuare a prendere
in considerazione forze che invece in questo momento hanno deciso di
allearsi con Bersani o Renzi che sia?In questo vedo una
debolezza nostra e non loro. Se indubbiamente ci fosse stata da parte
nostra una capacità di attrazione per realizzare una forza più radicale
ed antimontiana probabilmente anche Sel, e in particolare Vendola,
avrebbe potuto fare delle scelte differenti. La sua è una scelta di
disperazione nel senso che non ha visto o intravisto nessuna possibilità
alternativa e si è affrettato a saltare sul carro di Bersani per paura
di rimanere completamente tagliato fuori. Rischio che corrono tutti
quanti gli altri che non sono saliti e non vogliono salire e non
saliranno mai sul carro del Pd e che rischiano di contare meno di zero.
Del resto lo stesso Vendola, quando è uscito da Rifondazione,
non ha mai pensato di fondare una nuova forza di alternativa ma, al
contrario, ha puntato subito al Pd, alle primarie, attuando una politica
che una volta si sarebbe definita “entrista”. Senza nascondere
ambizioni di governo…Questo è un vizio che si ritrova però
in molte altre formazioni che in qualche maniera hanno cercato e
ottenuto ridottissime posizioni di potere in qualche assessorato o in
qualche municipalizzata. Quello che si vede in generale è che quando si
tratta di difendere delle piccole posizioni di potere o privilegio le
enunciazioni di principio diventano molto più sfumate. E’ il dramma
dell’Italia che non risparmia neanche le forze più radicali.
Quel documento è pubblicità ingannevole
Neppure il genio della lampada potrebbe aiutarci a
capire come si tradurrà in programmi e in conseguenti atti politici la
“Lettera di intenti dei democratici e dei progressisti” che Pd,
Socialisti e Sel hanno posto a base della coalizione di centrosinistra.Quel
testo, fra allusioni ed omissioni, sembra confezionato col solo intento
di consentire a ciascun attore di recitare la parte in commedia che più
gli si confà, soddisfando (o non affossando) le aspettative – anche le
più contraddittorie – del proprio potenziale elettorato di riferimento.
A ben vedere, più di ogni altra cosa, la Lettera serve a marcare i confini di un'alleanza che, a prescindere dai contenuti invero evanescenti, si conferma come il vero obiettivo politico dell'operazione. Il cui senso giunge a compimento con l'affermazione – questa sì inequivocabile – che l'alleanza di democratici e progressisti «si impegna a promuovere un accordo di legislatura con le forze del centro liberale». Dove per centro liberale si intende una costellazione di forze e soggetti che va dall'Udc ad altri agglomerati in gestazione, nel magma ancora fluido del capitalismo di matrice cattolica in libera uscita dopo la crisi irreversibile della destra berlusconiana.
In ogni caso, è da questa impegnativa dichiarazione, ben più che dai dieci esili capitoletti di cui è composto il documento, che si possono comprendere le intenzioni, la rotta ed il disegno politico che connotano il profilo della nuova coalizione.
Ha dunque scarso interesse indagare in quale dei due gruppi (democratico? progressista?) si collochi Sel. Merita semmai notare che del termine sinistra non si trova traccia nel testo. Si obietterà che non è da una parola sola che si può dedurre la portata di un progetto politico, anche se il linguaggio non è mai casuale ed evoca sempre un universo simbolico. Ma prendiamo per buona l'osservazione e proviamo ad esaminare il testo, nell'insieme e nelle parti. Cominciando da un punto che occupa nel documento una posizione di assoluto rilievo: il lavoro.
«La nostra visione – vi si legge – assume il lavoro come parametro di tutte le politiche. Cuore del nostro progetto è la dignità del lavoratore...». Ma, subito dopo, il colpo al cerchio viene bilanciato da un simmetrico (e più sostanziale) colpo alla botte. Infatti scopriamo che la natura del conflitto sociale non porta più il segno «dell'antagonismo classico tra impresa e operai» e che il lavoro va piuttosto inteso come «il mondo complesso dei produttori, cioè delle persone che pensano, lavorano, fanno impresa». In questa nuova “visione”, pare di capire, la modernità starebbe nell'alleanza fra capitale e lavoro, entrambi messi alla frusta «per garantire guadagni e lussi alla rendita finanziaria». Insomma, secondo questo non proprio inedito manifesto interclassista, il sistema d'impresa non avrebbe alcuna responsabilità della bassa produttività, della scarsa competitività, persino della compressione dei salari e dei diritti: fra Marchionne e gli operai che l'amministratore delegato della Fiat tratta al pari di schiavi non si rileva un irriducibile antagonismo. Il disconoscimento della natura classista dell'organizzazione sociale unisce in un indistinto mondo dei produttori lavoratori e imprenditori, borghesi e proletari, proprietari e diseredati. E questo proprio in una fase della storia in cui la polarizzazione sociale, lo sfruttamento, la disuguaglianza e la proletarizzazione di ampie fsce di ceto medio dovrebbero rendere chiaro il carattere intrinsecamente duale dei rapporti sociali. Tutto, alla fine, si riduce ad un generico appello per una «politica sobria», capace di «dare segnali netti all'Italia onesta che cerca nelle istituzioni un alleato contro i violenti e i corruttori».
Il solo vero avversario individuato è la rendita finanziaria, trattata tuttavia come una sorta di invasione aliena: un cancro insediatosi clandestinamente nel corpo altrimenti sano di un'economia di mercato dispensatrice di frutti copiosi per tutti. Peccato che proprio quella rendita speculativa e usuraria sia sin qui ingrassata proprio grazie alle politiche monetariste di cui la Bce, l'Ue e Mario Monti sono stati i principali sostenitori e interpreti, corroborati dal consenso che il Pd non ha mai fatto mancare, sostenendo con convinzione tutti i trattati europei responsabili di avere sacrificato proprio il lavoro e il welfare alla mitologia del pareggio di bilancio.
La confusione raggiunge perciò inedite vette quando il documento cita proprio la Costituzione (che invece il conflitto fra capitale e lavoro lo vede al punto da indicare nei diritti del secondo il limite invalicabile alla libera iniziativa del primo) per rivendicarne «la corretta e integrale applicazione», essendo essa «tra le più belle e avanzate del mondo». Ma trascurando che sono proprio le politiche di rigore in pieno dispiegamento ad avere posto fuori legge non soltanto il keynesismo, ma tutta l'impalcatura dei diritti, a partire dal diritto al lavoro, che della Costituzione rappresenta l'architrave. Sicché risuona francamente grottesca l'affermazione: «Per noi salute, istruzione, sicurezza, ambiente sono campi dove in via di principio non deve esserci il povero e il ricco, perché sono beni indisponibili alla logica del mercato e dei profitti». In linea di principio, appunto, mentre in linea di fatto, che è ciò che conta, si sta compulsivamente facendo l'opposto, poiché la strategia dei tagli e delle privatizzazioni sta espiantando l'intero sistema di protezione sociale e sta facendo carne di porco dei diritti di cittadinanza, malgrado l'articolo 3 della Carta li pretenda protetti al di sopra di ogni vincolo esterno.
Ora, è facile capire che dentro un siffatto impianto ideologico le affermazioni di principio appaiono come “caciocavalli appesi”, prive cioè di realtà e concretezza.
Il patto leonino che oggi viene imposto ai popoli d'Europa rievoca piuttosto la caustica definizione che ne diede Jean Jacque Rousseau nel diciottesimo secolo e che suona così: «Il ricco dice al povero: io sono ricco e tu povero, dunque ti propongo un patto: tu mi darai il poco che ti resta in cambio del disturbo che mi prendo nel comandarti». Non è forse con la stessa arrogante supponenza che i tecnocrati bocconiani stanno propinando al popolo il loro gigantesco salasso?
Si può infatti essere certi che le cosiddette “riforme” sciorinate da Monti e dal suo governo (abolizione dell'articolo 18, eutanasia del contratto nazionale di lavoro, eliminazione delle pensioni di anzianità, varo di un sistema fiscale jugulatorio, ecc.) non saranno mai revocate dalla coalizione di centrosinistra ove questa si guadagnasse il diritto a governare. E infatti non troverete nel documento nulla che autorizzi una pur lieve speranza in tal senso.
Ha dunque ragione Pierluigi Bersani quando rivendica che «c'è tanto montismo sparso in quel documento». E non ne ha di meno Francesco Boccia, che parlando a nome di Enrico Letta rivela che «una carta così la potrebbe firmare persino Monti». Va al sodo anche l'ultramoderato Giuseppe Fioroni quando osserva che, al netto di qualche fuoco pirotecnico, «Vendola si è accontentato di rottamare il nome del premier, impegnandosi però ad accettare la sostanza della sua azione».
In definitiva, il documento vergato dai promotori del nuovo centrosinistra non inverte la rotta, ma la conferma. Tutt'al più concede qualcosa alla retorica: combatte – parafrasando il Moro - “le frasi” del mondo, non certo il mondo reale.
La strada della discontinuità non passa da quelle parti: guai a tornare a prendere lucciole per lanterne!
Il dovere della sinistra è allora quello di unificarsi attorno ad un progetto alternativo di società e ad un programma di governo fatto di pochi ma chiarissimi obiettivi. Occorre farlo subito. Perdere altro tempo in dispute personalistiche, in snervanti primazie da piccola bottega di fronte a pericoli letali sarebbe segno di imperdonabile irresponsabilità, “passibile del codice penale della storia”.
A ben vedere, più di ogni altra cosa, la Lettera serve a marcare i confini di un'alleanza che, a prescindere dai contenuti invero evanescenti, si conferma come il vero obiettivo politico dell'operazione. Il cui senso giunge a compimento con l'affermazione – questa sì inequivocabile – che l'alleanza di democratici e progressisti «si impegna a promuovere un accordo di legislatura con le forze del centro liberale». Dove per centro liberale si intende una costellazione di forze e soggetti che va dall'Udc ad altri agglomerati in gestazione, nel magma ancora fluido del capitalismo di matrice cattolica in libera uscita dopo la crisi irreversibile della destra berlusconiana.
In ogni caso, è da questa impegnativa dichiarazione, ben più che dai dieci esili capitoletti di cui è composto il documento, che si possono comprendere le intenzioni, la rotta ed il disegno politico che connotano il profilo della nuova coalizione.
Ha dunque scarso interesse indagare in quale dei due gruppi (democratico? progressista?) si collochi Sel. Merita semmai notare che del termine sinistra non si trova traccia nel testo. Si obietterà che non è da una parola sola che si può dedurre la portata di un progetto politico, anche se il linguaggio non è mai casuale ed evoca sempre un universo simbolico. Ma prendiamo per buona l'osservazione e proviamo ad esaminare il testo, nell'insieme e nelle parti. Cominciando da un punto che occupa nel documento una posizione di assoluto rilievo: il lavoro.
«La nostra visione – vi si legge – assume il lavoro come parametro di tutte le politiche. Cuore del nostro progetto è la dignità del lavoratore...». Ma, subito dopo, il colpo al cerchio viene bilanciato da un simmetrico (e più sostanziale) colpo alla botte. Infatti scopriamo che la natura del conflitto sociale non porta più il segno «dell'antagonismo classico tra impresa e operai» e che il lavoro va piuttosto inteso come «il mondo complesso dei produttori, cioè delle persone che pensano, lavorano, fanno impresa». In questa nuova “visione”, pare di capire, la modernità starebbe nell'alleanza fra capitale e lavoro, entrambi messi alla frusta «per garantire guadagni e lussi alla rendita finanziaria». Insomma, secondo questo non proprio inedito manifesto interclassista, il sistema d'impresa non avrebbe alcuna responsabilità della bassa produttività, della scarsa competitività, persino della compressione dei salari e dei diritti: fra Marchionne e gli operai che l'amministratore delegato della Fiat tratta al pari di schiavi non si rileva un irriducibile antagonismo. Il disconoscimento della natura classista dell'organizzazione sociale unisce in un indistinto mondo dei produttori lavoratori e imprenditori, borghesi e proletari, proprietari e diseredati. E questo proprio in una fase della storia in cui la polarizzazione sociale, lo sfruttamento, la disuguaglianza e la proletarizzazione di ampie fsce di ceto medio dovrebbero rendere chiaro il carattere intrinsecamente duale dei rapporti sociali. Tutto, alla fine, si riduce ad un generico appello per una «politica sobria», capace di «dare segnali netti all'Italia onesta che cerca nelle istituzioni un alleato contro i violenti e i corruttori».
Il solo vero avversario individuato è la rendita finanziaria, trattata tuttavia come una sorta di invasione aliena: un cancro insediatosi clandestinamente nel corpo altrimenti sano di un'economia di mercato dispensatrice di frutti copiosi per tutti. Peccato che proprio quella rendita speculativa e usuraria sia sin qui ingrassata proprio grazie alle politiche monetariste di cui la Bce, l'Ue e Mario Monti sono stati i principali sostenitori e interpreti, corroborati dal consenso che il Pd non ha mai fatto mancare, sostenendo con convinzione tutti i trattati europei responsabili di avere sacrificato proprio il lavoro e il welfare alla mitologia del pareggio di bilancio.
La confusione raggiunge perciò inedite vette quando il documento cita proprio la Costituzione (che invece il conflitto fra capitale e lavoro lo vede al punto da indicare nei diritti del secondo il limite invalicabile alla libera iniziativa del primo) per rivendicarne «la corretta e integrale applicazione», essendo essa «tra le più belle e avanzate del mondo». Ma trascurando che sono proprio le politiche di rigore in pieno dispiegamento ad avere posto fuori legge non soltanto il keynesismo, ma tutta l'impalcatura dei diritti, a partire dal diritto al lavoro, che della Costituzione rappresenta l'architrave. Sicché risuona francamente grottesca l'affermazione: «Per noi salute, istruzione, sicurezza, ambiente sono campi dove in via di principio non deve esserci il povero e il ricco, perché sono beni indisponibili alla logica del mercato e dei profitti». In linea di principio, appunto, mentre in linea di fatto, che è ciò che conta, si sta compulsivamente facendo l'opposto, poiché la strategia dei tagli e delle privatizzazioni sta espiantando l'intero sistema di protezione sociale e sta facendo carne di porco dei diritti di cittadinanza, malgrado l'articolo 3 della Carta li pretenda protetti al di sopra di ogni vincolo esterno.
Ora, è facile capire che dentro un siffatto impianto ideologico le affermazioni di principio appaiono come “caciocavalli appesi”, prive cioè di realtà e concretezza.
Il patto leonino che oggi viene imposto ai popoli d'Europa rievoca piuttosto la caustica definizione che ne diede Jean Jacque Rousseau nel diciottesimo secolo e che suona così: «Il ricco dice al povero: io sono ricco e tu povero, dunque ti propongo un patto: tu mi darai il poco che ti resta in cambio del disturbo che mi prendo nel comandarti». Non è forse con la stessa arrogante supponenza che i tecnocrati bocconiani stanno propinando al popolo il loro gigantesco salasso?
Si può infatti essere certi che le cosiddette “riforme” sciorinate da Monti e dal suo governo (abolizione dell'articolo 18, eutanasia del contratto nazionale di lavoro, eliminazione delle pensioni di anzianità, varo di un sistema fiscale jugulatorio, ecc.) non saranno mai revocate dalla coalizione di centrosinistra ove questa si guadagnasse il diritto a governare. E infatti non troverete nel documento nulla che autorizzi una pur lieve speranza in tal senso.
Ha dunque ragione Pierluigi Bersani quando rivendica che «c'è tanto montismo sparso in quel documento». E non ne ha di meno Francesco Boccia, che parlando a nome di Enrico Letta rivela che «una carta così la potrebbe firmare persino Monti». Va al sodo anche l'ultramoderato Giuseppe Fioroni quando osserva che, al netto di qualche fuoco pirotecnico, «Vendola si è accontentato di rottamare il nome del premier, impegnandosi però ad accettare la sostanza della sua azione».
In definitiva, il documento vergato dai promotori del nuovo centrosinistra non inverte la rotta, ma la conferma. Tutt'al più concede qualcosa alla retorica: combatte – parafrasando il Moro - “le frasi” del mondo, non certo il mondo reale.
La strada della discontinuità non passa da quelle parti: guai a tornare a prendere lucciole per lanterne!
Il dovere della sinistra è allora quello di unificarsi attorno ad un progetto alternativo di società e ad un programma di governo fatto di pochi ma chiarissimi obiettivi. Occorre farlo subito. Perdere altro tempo in dispute personalistiche, in snervanti primazie da piccola bottega di fronte a pericoli letali sarebbe segno di imperdonabile irresponsabilità, “passibile del codice penale della storia”.
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