È scomparso all'età di 89 anni Marcello Cini. Con "L'ape e l'architetto" mise in discussione la visione di una scienza neutrale e impersonale, mettendone in luce non solo le implicazioni, ma anche e soprattutto le responsabilità sociali. Precorse una specie di “terza via”, a metà strada tra gli eccessi acritici dell’accettazione scientista e del rifiuto idealista.
di Piergiorgio Odifreddi, da Repubblica
È
morto a quasi novant’anni Marcello Cini, influente e discusso
scienziato engagé, nel senso alto della parola: quello portato alla
ribalta dalle contestazioni studentesche degli anni ’60, e oggi
purtroppo solo un ricordo di tempi passati. Esatta antitesi
dell’intellettuale chiuso nel suo laboratorio a osservare le particelle,
o rinserrato nel suo studio a cercarne le leggi, Cini era uscito allo
scoperto per diventare un “cattivo maestro”, come si era definito con
provocatoria civetteria negli autobiografici Dialoghi di un cattivo maestro, appunto.
A portarlo alla ribalta nel 1976 fu L’ape e l’architetto, un libro scritto con Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio, che sollevò un vero e proprio polverone. Cini e i suoi coautori attaccavano infatti la visione di una scienza neutrale e impersonale. Ne mettevano in luce non solo le implicazioni, ma anche e soprattutto le responsabilità sociali. E percorrevano una specie di “terza via”, a metà strada tra gli eccessi acritici dell’accettazione scientista e del rifiuto idealista.
Il linguaggio di quelle pagine oggi suona un po’ arcaico e demodé, con tutti quei riferimenti ai “modi di produzione” e alle “classi dominanti”. Ma la sostanza rimane attuale, se è vero che, come ricordava qualche tempo fa lo scomparso premio Nobel per la pace Joseph Rotblatt, la maggioranza degli scienziati attualmente lavora a ricerche direttamente o indirettamente legate agli armamenti. E una percentuale ancora maggiore, ovviamente, a ricerche direttamente o indirettamente legate all’industria e alla tecnologia.
Sorprendentemente, a scagliarsi contro quest’interpretazione marxista della scienza fu Lucio Colletti, coetaneo di Cini, che in una famosa recensione sull’Espresso scrisse: «Qui la scienza e il capitalismo fanno tutt’uno. Il valore oggettivo della conoscenza scientifica è saltato. Malgrado le intenzioni è saltato anche il materialismo». Quasi quarant’anni dopo, la storia registra la coerenza di Cini, collaboratore fino all’ultimo del Manifesto, e il tradimento di Colletti, fiore all’occhiello di Forza Italia dal 1996 alla morte nel 2001.
Politicamente, Cini (nato nel 1923 a Firenze, chiamato alla Sapienza da Edoardo Amaldi per insegnare Fisica teorica e, poi, Teorie quantistiche) aveva fatto parte del Partito Comunista Italiano fino al 1970, quando ne era stato espulso insieme agli altri fondatori del Manifesto, appunto. E nel 2010 aveva accettato la candidatura da capolista di Sinistra Ecologia Libertà alle regionali del Lazio. D’altronde, l’ecologia e l’ambientalismo erano due dei grandi temi del suo pensiero, a favore dei quali si era impegnato nella presidenza del consiglio scientifico di Legambiente.
L’ultima zampata da leone l’aveva data il 14 novembre 2007, indirizzando al rettore della Sapienza una lettera di protesta in cui gli chiedeva di annullare l’invito a Benedetto XVI in occasione dell’apertura dell’anno accademico. Decine di docenti dell’università sottoscrissero l’appello di Cini, e centinaia di studenti manifestarono contro la visita del papa, che decise diplomaticamente di cancellare la propria lectio magistralis.
Fu in quell’occasione che vidi Cini per l’ultima volta. Partecipammo insieme, la sera del 16 gennaio 2008, a una puntata di Porta a Porta, il giorno prima della mancata visita papale. Monsignor Fisichella e l’onorevole Buttiglione chiamarono a raccolta per la domenica successiva in Piazza San Pietro. Cini intervenne signorilmente e pacatamente, a difesa della scienza e della sua separazione dalla religione. E le sue parole e la sua chioma bianca sono il mio ultimo ricordo del “cattivo maestro”, che quella volta era riuscito a scuotere l’Italia intera.
IL BRILLANTE DOCENTE E RICERCATORE CHE INCONTRÒ LA STORIA E LA SOCIETÀ
di Giorgio Parisi, da il manifesto
Durante il '68 Marcello Cini non stava a Roma: aveva preso un anno sabbatico in un'università parigina. In quel periodo sentivo spesso parlare di questo compagno professore, che aveva sempre pronta una citazione raffinata di Marx e che era appena andato nel Vietnam del Nord bombardato dagli americani.Lo incontrai al suo ritorno a Roma, avrei dovuto seguire un suo corso di fisica, ma tra occupazioni e altre vicende le lezioni a cui sono andato si contano sulle punte delle dita. Ma ho ancora impresso in mente lo sforzo che Marcello faceva per non separare i risultati della meccanica quantistica (la formulazione matematica, i teoremi, le previsioni sperimentali) dal come un piccolo numero di uomini era riuscito a fare queste scoperte meravigliose, formulando all'inizio ipotesi insensate e contraddittorie che con gli anni si modificavano e diventavano sempre più sensate e coerenti. Non era affatto facile portare assieme i due discorsi: la storia di un'avventura che si dipanava per un periodo di una trentina d'anni (dal 1900 al 1930) e la descrizione della teoria risultante. Era un modo diverso di raccontare la scienza, che faceva notevole impressione a noi abituati a vedere solo il prodotto finale, bello lucido, senza che ci rendessimo conto della fatica che era stata necessaria per arrivarci.
Era un periodo di transizione nella vita di Marcello. Nel primo dopoguerra era diventato un brillante fisico teorico nella disciplina allora di punta, la fisica delle altre energie, e a soli 33 anni nel 1956 aveva vinto una cattedra all'università di Catania. Aveva continuato a lavorare, pubblicava articoli su prestigiose riviste, era invitato a parlare a importanti congressi internazionali, ma la fisica teorica gli stava diventando stretta. Come lui stesso dice nei Dialoghi di un cattivo maestro, «la fisica teorica stava cambiando. La concorrenza diventava sfrenata. Se avevi un'idea, scoprivi che altre sei persone ci stavano lavorando sopra. (...) Quando eravamo pochi, anche il nostro lavoro aveva un senso. Ma una volta diventati tanti, veniva da domandarsi a che cosa servisse. (...) Questo disagio professionale si accompagnava all'insoddisfazione che provavo da qualche anno nei confronti della politica del Pci».
In quel periodo Marcello stava cessando di lavorare nel filone principale della fisica: riprenderà la sua attività di ricercatore diversi anni dopo, affascinato da uno dei problemi più intriganti e mai ben risolti della fisica: quale sia «il significato» della meccanica quantistica, cosa sia la realtà fisica, quale sia in questo contesto il rapporto tra la l'osservatore e l'oggetto osservato, quanto l'osservazione di un fenomeno modifichi necessariamente il fenomeno stesso. Marcello incominciava a riflettere su i rapporti tra la scienza, la storia e la società, a vedere la scienza come una delle tante attività umane che diventa «comprensibile solo se riferita alla totalità dell'operare degli uomini». La scienza non è più neutrale, ma porta con sé i segni delle ideologie degli scienziati che l'hanno prodotta.
Sono le tesi che confluiscono ne L'Ape e l'Architetto, libro pubblicato nel 1976 e che raccoglie saggi scritti negli anni precedenti da Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona Lasinio. Erano tesi doppiamente eretiche rispetto all'ortodossia dominante, dal punto di vista sia politico che scientifico, e suscitarono una reazione furiosa: Lucio Colletti e Giorgio Bocca furono tra gli oppositori più accesi che cercarono di smontarle con una serie di banalità impressionanti. La reazione del mondo scientifico fu più composta, di grande freddezza in pubblico, ma veementemente negativa in privato. Il libro, che ebbe una notorietà enorme e che è stato recentemente ristampato, ebbe tuttavia, col passare degli anni, una fortissima influenza sul modo in cui concepiamo il rapporto tra scienza e società e molte delle tesi scandalose sono diventate sentire comune.
Marcello non si era però fermato lì: aveva continuato a riflettere sui rapporti tra scienza, tecnologia società e democrazia, su quali fossero concretamente e in dettaglio queste relazioni, come si modificassero con il tempo, su come fossero diverse per esempio fisica e biologia, riflessioni che hanno generato molti libri in cui raffina e approfondisce il suo pensiero. Marcello è stato uno dei pochi grandi intellettuali che ha cercato di capire a fondo il mondo, non solo negli aspetti tecnici di una disciplina scientifica, ma nella sua interezza, riempiendo la propria vita sia dell'impegno politico che dello sforzo per arrivare a una maggiore comprensione e controllo della natura. Era uno dei pochi punti di riferimento che avevamo, sempre pronto a discutere e ad aiutarti a capire. Ci mancherà moltissimo.
UN OTTIMO CATTIVO MAESTRO
di Marco D’Eramo, da il manifesto
Marcello Cini lo conobbi prima come professore, al terzo anno, quando dall'ottobre del 1968 seguii il suo corso di Istituzioni di fisica teorica. Parlava molto lentamente, con quel tossicchiare a scandire le frasi che avrei imparato a conoscere così bene, e all'inizio trovavo noiose le sue lezioni. Col mio sguardo di 21-enne lo trovavo vecchio. Aveva 45 anni ed era nel pieno fulgore della sua maturità. Non sapevo quanto le nostre vite sarebbero state intrecciate. Infatti nel gennaio di quello stesso anno erano iniziate le agitazioni studentesche a Roma, che erano culminate il primo marzo con quella che fu chiamata «la battaglia di Valle Giulia» ma che continuarono per tutto l'anno successivo. L'istituto di fisica Enrico Fermi fu uno dei centri del movimento romano, insieme a Lettere e Architettura. Leader del movimento erano giovani fisici, assistenti e borsisti, che nel decennio successivo avrebbero seguito traiettorie diverse: Franco Piperno, Gianni Mattioli, Massimo Scalia, Sandro Petruccioli, Mimmo De Maria. E, quando tornò dal suo anno sabatico a Parigi, Marcello fu l'unico ordinario a interloquire con noi, anche a polemizzare, ma stando sempre dalla nostra parte, lui che era noto per la sua militanza nel Partito comunista italiano (da cui sarebbe stato radiato dopo pochi mesi, nel 1969, insieme a tutto il gruppo della rivista il manifesto).
Poi Marcello fu il mio direttore di tesi e dopo la laurea si adoperò perché divenissi borsista nel suo gruppo di ricerca teorica. Quando abbandonai la fisica e andai a studiare sociologia a Parigi, negli anni Settanta, ogni volta che veniva sulla Senna, ci vedevamo, cenavamo insieme con la sua (allora) nuova compagna, Agnese. Poi, nel 1980 per le peripezie della vita, venni a lavorare nel quotidiano di cui Marcello era stato uno dei fondatori e dalle cui colonne ora vi sto scrivendo. Ancora, il figlio di Marcello, il regista Daniele Cini, aveva vissuto per anni nella stessa casa della nostra indimenticata Carla Casalini, e la sua perdita nel 2008 ci ha stretti alla sua figlia Gaia.Non solo, ma negli anni Settanta Marcello aveva animato un gruppo di fisici teorici (di cui oltre a Marcello facevano parte Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio) che avrebbe prodotto l'unico contributo italiano davvero rilevante alla filosofia della scienza, e cioè L'ape e l'architetto (Feltrinelli 1976, ripubblicato con rivisitazioni degli autori presso Franco Angeli nel 2011). Era la prima volta in Italia che a discutere di neutralità della scienza erano scienziati professionisti.
Fino al fine anni Sessanta infatti la sinistra italiana era stata scientista, d'istinto e di convenienza. Lo scientismo era l'orizzonte filosofico più comodo per coniugare insieme emancipazione sociale e progresso tecnologico, razionalismo antisuperstizioso e laicità. Una versione paludata di quello slogan «Soviet + elettrificazione» in cui cui Lenin aveva condensato tutto il comunismo. Sul versante opposto, le critiche alla scienza venivano tutte da un orizzonte irrazionalista, poetante, nietzscheano, aborrente i numeri («la legge di gravità non renderà mai conto della poesia della luna di notte») e la rivendicazione di un'ineffabilità sostanziale del mondo.Ma già dal sottotitolo, Paradigmi scientifici e materialismo storico, i quattro autori rimescolavano le carte ed esplicitavano il loro obiettivo: affrontare la non-neutralità della scienza, la sua storicità, non dalla prospettiva di un irrazionalismo di destra, ma da sinistra e dall'interno del razionalismo. Non a caso i quattro autori avevano tutti partecipato in modi diversi al '68.
E ci voleva la carica eversiva del '68 per poter formulare - contro tutto l'establishment accademico e contro la corporazione degli scienziati, in primis dei fisici - una visione storicizzata della scienza. Per poter cioè dire che la scienza è prodotto storico, come ogni altra attività umana, e in quanto tale condizionata dalla società in cui viene esercitata. Fino ad allora aveva prevalso la tesi che la scienza di per sé è neutra e a-storica, anche se il suo (buono o cattivo) uso può essere determinato dal contesto sociale. L'ambizione dell'Ape era invece quella di mostrare che la correlazione tra società e ricerca scientifica penetrava fino nelle teorie e nei concetti. Un'ambizione che valse al libro una levata di scudi sul genere becero «la legge di gravità fa cadere i corpi allo stesso modo in un regime socialista e in uno capitalista».
Fu proprio la non neutralità degli stessi concetti scientifici a indirizzare il lavoro giornalistico e di ricerca che facemmo sul manifesto per tutti gli anni '80 sulle pagine culturali e sul supplemento monografico settimanale la talpa. Un lavoro cui partecipavano tra gli altri Michelangelo Notarianni, Franco Carlini, Danielle Mazzonis.Certo Marcello, non sempre andavamo d'accordo tu e io: per esempio non condividevo la sua passione per Bateson, ma è certo che il confronto intellettuale sui temi che ci arrovellavano entrambi ha stimolato la mia mente, come quella di tanti altri, e ci ha consentito di non assopirci nel generale letargo della ragione che ha colpito la nostra società.E come apprezzammo nel 2007 la lettera che dalle colonne del manifesto scrivesti (insieme ad alcuni altri docenti tra cui Giorgio Parisi) al rettore dell'università La Sapienza di Roma per far annullare la lectio magistralis di Benedetto XVI!
Una vita lunga e invidiabile la tua Marcello: non solo sei sempre stato un bellissimo uomo, ma hai fatto un bellissimo lavoro, quello di fisico teorico, hai visitato terre lontane (come quando nel 1967 andasti in Vietnam e in Laos, sotto le bombe americane, come membro della giuria del Tribunale Russell), hai avuto una miriade di amici intelligenti che ti amavano, eri stimato, hai militato per una società migliore, hai contribuito a fondare il manifesto, hai stimolato la discussione filosofica italiana, hai goduto i piaceri della vita. Come scrisse Catullo a suo fratello: et in perpetuo salve atque vale.
A portarlo alla ribalta nel 1976 fu L’ape e l’architetto, un libro scritto con Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio, che sollevò un vero e proprio polverone. Cini e i suoi coautori attaccavano infatti la visione di una scienza neutrale e impersonale. Ne mettevano in luce non solo le implicazioni, ma anche e soprattutto le responsabilità sociali. E percorrevano una specie di “terza via”, a metà strada tra gli eccessi acritici dell’accettazione scientista e del rifiuto idealista.
Il linguaggio di quelle pagine oggi suona un po’ arcaico e demodé, con tutti quei riferimenti ai “modi di produzione” e alle “classi dominanti”. Ma la sostanza rimane attuale, se è vero che, come ricordava qualche tempo fa lo scomparso premio Nobel per la pace Joseph Rotblatt, la maggioranza degli scienziati attualmente lavora a ricerche direttamente o indirettamente legate agli armamenti. E una percentuale ancora maggiore, ovviamente, a ricerche direttamente o indirettamente legate all’industria e alla tecnologia.
Sorprendentemente, a scagliarsi contro quest’interpretazione marxista della scienza fu Lucio Colletti, coetaneo di Cini, che in una famosa recensione sull’Espresso scrisse: «Qui la scienza e il capitalismo fanno tutt’uno. Il valore oggettivo della conoscenza scientifica è saltato. Malgrado le intenzioni è saltato anche il materialismo». Quasi quarant’anni dopo, la storia registra la coerenza di Cini, collaboratore fino all’ultimo del Manifesto, e il tradimento di Colletti, fiore all’occhiello di Forza Italia dal 1996 alla morte nel 2001.
Politicamente, Cini (nato nel 1923 a Firenze, chiamato alla Sapienza da Edoardo Amaldi per insegnare Fisica teorica e, poi, Teorie quantistiche) aveva fatto parte del Partito Comunista Italiano fino al 1970, quando ne era stato espulso insieme agli altri fondatori del Manifesto, appunto. E nel 2010 aveva accettato la candidatura da capolista di Sinistra Ecologia Libertà alle regionali del Lazio. D’altronde, l’ecologia e l’ambientalismo erano due dei grandi temi del suo pensiero, a favore dei quali si era impegnato nella presidenza del consiglio scientifico di Legambiente.
L’ultima zampata da leone l’aveva data il 14 novembre 2007, indirizzando al rettore della Sapienza una lettera di protesta in cui gli chiedeva di annullare l’invito a Benedetto XVI in occasione dell’apertura dell’anno accademico. Decine di docenti dell’università sottoscrissero l’appello di Cini, e centinaia di studenti manifestarono contro la visita del papa, che decise diplomaticamente di cancellare la propria lectio magistralis.
Fu in quell’occasione che vidi Cini per l’ultima volta. Partecipammo insieme, la sera del 16 gennaio 2008, a una puntata di Porta a Porta, il giorno prima della mancata visita papale. Monsignor Fisichella e l’onorevole Buttiglione chiamarono a raccolta per la domenica successiva in Piazza San Pietro. Cini intervenne signorilmente e pacatamente, a difesa della scienza e della sua separazione dalla religione. E le sue parole e la sua chioma bianca sono il mio ultimo ricordo del “cattivo maestro”, che quella volta era riuscito a scuotere l’Italia intera.
IL BRILLANTE DOCENTE E RICERCATORE CHE INCONTRÒ LA STORIA E LA SOCIETÀ
di Giorgio Parisi, da il manifesto
Durante il '68 Marcello Cini non stava a Roma: aveva preso un anno sabbatico in un'università parigina. In quel periodo sentivo spesso parlare di questo compagno professore, che aveva sempre pronta una citazione raffinata di Marx e che era appena andato nel Vietnam del Nord bombardato dagli americani.Lo incontrai al suo ritorno a Roma, avrei dovuto seguire un suo corso di fisica, ma tra occupazioni e altre vicende le lezioni a cui sono andato si contano sulle punte delle dita. Ma ho ancora impresso in mente lo sforzo che Marcello faceva per non separare i risultati della meccanica quantistica (la formulazione matematica, i teoremi, le previsioni sperimentali) dal come un piccolo numero di uomini era riuscito a fare queste scoperte meravigliose, formulando all'inizio ipotesi insensate e contraddittorie che con gli anni si modificavano e diventavano sempre più sensate e coerenti. Non era affatto facile portare assieme i due discorsi: la storia di un'avventura che si dipanava per un periodo di una trentina d'anni (dal 1900 al 1930) e la descrizione della teoria risultante. Era un modo diverso di raccontare la scienza, che faceva notevole impressione a noi abituati a vedere solo il prodotto finale, bello lucido, senza che ci rendessimo conto della fatica che era stata necessaria per arrivarci.
Era un periodo di transizione nella vita di Marcello. Nel primo dopoguerra era diventato un brillante fisico teorico nella disciplina allora di punta, la fisica delle altre energie, e a soli 33 anni nel 1956 aveva vinto una cattedra all'università di Catania. Aveva continuato a lavorare, pubblicava articoli su prestigiose riviste, era invitato a parlare a importanti congressi internazionali, ma la fisica teorica gli stava diventando stretta. Come lui stesso dice nei Dialoghi di un cattivo maestro, «la fisica teorica stava cambiando. La concorrenza diventava sfrenata. Se avevi un'idea, scoprivi che altre sei persone ci stavano lavorando sopra. (...) Quando eravamo pochi, anche il nostro lavoro aveva un senso. Ma una volta diventati tanti, veniva da domandarsi a che cosa servisse. (...) Questo disagio professionale si accompagnava all'insoddisfazione che provavo da qualche anno nei confronti della politica del Pci».
In quel periodo Marcello stava cessando di lavorare nel filone principale della fisica: riprenderà la sua attività di ricercatore diversi anni dopo, affascinato da uno dei problemi più intriganti e mai ben risolti della fisica: quale sia «il significato» della meccanica quantistica, cosa sia la realtà fisica, quale sia in questo contesto il rapporto tra la l'osservatore e l'oggetto osservato, quanto l'osservazione di un fenomeno modifichi necessariamente il fenomeno stesso. Marcello incominciava a riflettere su i rapporti tra la scienza, la storia e la società, a vedere la scienza come una delle tante attività umane che diventa «comprensibile solo se riferita alla totalità dell'operare degli uomini». La scienza non è più neutrale, ma porta con sé i segni delle ideologie degli scienziati che l'hanno prodotta.
Sono le tesi che confluiscono ne L'Ape e l'Architetto, libro pubblicato nel 1976 e che raccoglie saggi scritti negli anni precedenti da Giovanni Ciccotti, Marcello Cini, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona Lasinio. Erano tesi doppiamente eretiche rispetto all'ortodossia dominante, dal punto di vista sia politico che scientifico, e suscitarono una reazione furiosa: Lucio Colletti e Giorgio Bocca furono tra gli oppositori più accesi che cercarono di smontarle con una serie di banalità impressionanti. La reazione del mondo scientifico fu più composta, di grande freddezza in pubblico, ma veementemente negativa in privato. Il libro, che ebbe una notorietà enorme e che è stato recentemente ristampato, ebbe tuttavia, col passare degli anni, una fortissima influenza sul modo in cui concepiamo il rapporto tra scienza e società e molte delle tesi scandalose sono diventate sentire comune.
Marcello non si era però fermato lì: aveva continuato a riflettere sui rapporti tra scienza, tecnologia società e democrazia, su quali fossero concretamente e in dettaglio queste relazioni, come si modificassero con il tempo, su come fossero diverse per esempio fisica e biologia, riflessioni che hanno generato molti libri in cui raffina e approfondisce il suo pensiero. Marcello è stato uno dei pochi grandi intellettuali che ha cercato di capire a fondo il mondo, non solo negli aspetti tecnici di una disciplina scientifica, ma nella sua interezza, riempiendo la propria vita sia dell'impegno politico che dello sforzo per arrivare a una maggiore comprensione e controllo della natura. Era uno dei pochi punti di riferimento che avevamo, sempre pronto a discutere e ad aiutarti a capire. Ci mancherà moltissimo.
UN OTTIMO CATTIVO MAESTRO
di Marco D’Eramo, da il manifesto
Marcello Cini lo conobbi prima come professore, al terzo anno, quando dall'ottobre del 1968 seguii il suo corso di Istituzioni di fisica teorica. Parlava molto lentamente, con quel tossicchiare a scandire le frasi che avrei imparato a conoscere così bene, e all'inizio trovavo noiose le sue lezioni. Col mio sguardo di 21-enne lo trovavo vecchio. Aveva 45 anni ed era nel pieno fulgore della sua maturità. Non sapevo quanto le nostre vite sarebbero state intrecciate. Infatti nel gennaio di quello stesso anno erano iniziate le agitazioni studentesche a Roma, che erano culminate il primo marzo con quella che fu chiamata «la battaglia di Valle Giulia» ma che continuarono per tutto l'anno successivo. L'istituto di fisica Enrico Fermi fu uno dei centri del movimento romano, insieme a Lettere e Architettura. Leader del movimento erano giovani fisici, assistenti e borsisti, che nel decennio successivo avrebbero seguito traiettorie diverse: Franco Piperno, Gianni Mattioli, Massimo Scalia, Sandro Petruccioli, Mimmo De Maria. E, quando tornò dal suo anno sabatico a Parigi, Marcello fu l'unico ordinario a interloquire con noi, anche a polemizzare, ma stando sempre dalla nostra parte, lui che era noto per la sua militanza nel Partito comunista italiano (da cui sarebbe stato radiato dopo pochi mesi, nel 1969, insieme a tutto il gruppo della rivista il manifesto).
Poi Marcello fu il mio direttore di tesi e dopo la laurea si adoperò perché divenissi borsista nel suo gruppo di ricerca teorica. Quando abbandonai la fisica e andai a studiare sociologia a Parigi, negli anni Settanta, ogni volta che veniva sulla Senna, ci vedevamo, cenavamo insieme con la sua (allora) nuova compagna, Agnese. Poi, nel 1980 per le peripezie della vita, venni a lavorare nel quotidiano di cui Marcello era stato uno dei fondatori e dalle cui colonne ora vi sto scrivendo. Ancora, il figlio di Marcello, il regista Daniele Cini, aveva vissuto per anni nella stessa casa della nostra indimenticata Carla Casalini, e la sua perdita nel 2008 ci ha stretti alla sua figlia Gaia.Non solo, ma negli anni Settanta Marcello aveva animato un gruppo di fisici teorici (di cui oltre a Marcello facevano parte Giovanni Ciccotti, Michelangelo De Maria e Giovanni Jona-Lasinio) che avrebbe prodotto l'unico contributo italiano davvero rilevante alla filosofia della scienza, e cioè L'ape e l'architetto (Feltrinelli 1976, ripubblicato con rivisitazioni degli autori presso Franco Angeli nel 2011). Era la prima volta in Italia che a discutere di neutralità della scienza erano scienziati professionisti.
Fino al fine anni Sessanta infatti la sinistra italiana era stata scientista, d'istinto e di convenienza. Lo scientismo era l'orizzonte filosofico più comodo per coniugare insieme emancipazione sociale e progresso tecnologico, razionalismo antisuperstizioso e laicità. Una versione paludata di quello slogan «Soviet + elettrificazione» in cui cui Lenin aveva condensato tutto il comunismo. Sul versante opposto, le critiche alla scienza venivano tutte da un orizzonte irrazionalista, poetante, nietzscheano, aborrente i numeri («la legge di gravità non renderà mai conto della poesia della luna di notte») e la rivendicazione di un'ineffabilità sostanziale del mondo.Ma già dal sottotitolo, Paradigmi scientifici e materialismo storico, i quattro autori rimescolavano le carte ed esplicitavano il loro obiettivo: affrontare la non-neutralità della scienza, la sua storicità, non dalla prospettiva di un irrazionalismo di destra, ma da sinistra e dall'interno del razionalismo. Non a caso i quattro autori avevano tutti partecipato in modi diversi al '68.
E ci voleva la carica eversiva del '68 per poter formulare - contro tutto l'establishment accademico e contro la corporazione degli scienziati, in primis dei fisici - una visione storicizzata della scienza. Per poter cioè dire che la scienza è prodotto storico, come ogni altra attività umana, e in quanto tale condizionata dalla società in cui viene esercitata. Fino ad allora aveva prevalso la tesi che la scienza di per sé è neutra e a-storica, anche se il suo (buono o cattivo) uso può essere determinato dal contesto sociale. L'ambizione dell'Ape era invece quella di mostrare che la correlazione tra società e ricerca scientifica penetrava fino nelle teorie e nei concetti. Un'ambizione che valse al libro una levata di scudi sul genere becero «la legge di gravità fa cadere i corpi allo stesso modo in un regime socialista e in uno capitalista».
Fu proprio la non neutralità degli stessi concetti scientifici a indirizzare il lavoro giornalistico e di ricerca che facemmo sul manifesto per tutti gli anni '80 sulle pagine culturali e sul supplemento monografico settimanale la talpa. Un lavoro cui partecipavano tra gli altri Michelangelo Notarianni, Franco Carlini, Danielle Mazzonis.Certo Marcello, non sempre andavamo d'accordo tu e io: per esempio non condividevo la sua passione per Bateson, ma è certo che il confronto intellettuale sui temi che ci arrovellavano entrambi ha stimolato la mia mente, come quella di tanti altri, e ci ha consentito di non assopirci nel generale letargo della ragione che ha colpito la nostra società.E come apprezzammo nel 2007 la lettera che dalle colonne del manifesto scrivesti (insieme ad alcuni altri docenti tra cui Giorgio Parisi) al rettore dell'università La Sapienza di Roma per far annullare la lectio magistralis di Benedetto XVI!
Una vita lunga e invidiabile la tua Marcello: non solo sei sempre stato un bellissimo uomo, ma hai fatto un bellissimo lavoro, quello di fisico teorico, hai visitato terre lontane (come quando nel 1967 andasti in Vietnam e in Laos, sotto le bombe americane, come membro della giuria del Tribunale Russell), hai avuto una miriade di amici intelligenti che ti amavano, eri stimato, hai militato per una società migliore, hai contribuito a fondare il manifesto, hai stimolato la discussione filosofica italiana, hai goduto i piaceri della vita. Come scrisse Catullo a suo fratello: et in perpetuo salve atque vale.
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