“…non
si tratta del grado maggiore o minore di sviluppo degli antagonismi
sociali derivanti dalle leggi naturali della produzione capitalistica,
ma proprio di tali leggi, di tali tendenze che operano e si fanno valere con bronzea necessità.” (K. Marx, Il Capitale, libro I, p. 32).
La forza-lavoro come capitale
La considerazione marxiana della forza-lavoro come di una merce speciale in una “immane raccolta di merci” va ricondotta alla sua genesi esposta da Marx in quella che egli ha chiamato “accumulazione originaria”. Attraverso l’espropriazione dei mezzi di produzione ai produttori diretti accadono due cose: a) la “forza-lavoro” si presenta come un insieme di capacità lavorative storicamente acquisite in forma di proprietà d’individui che si trovano costretti a venderle sul mercato in cambio di un equivalente; b) quell’espropriazione trasforma i mezzi di produzione in “capitale”. E’ questo che fa d’individui, un tempo espressione d’altri rapporti sociali, lavoratori salariati. La forza-lavoro adesso non fa parte dei mezzi di produzione - come poteva essere, ma solo sul piano giuridico, per schiavi e certe figure di servitù -, così come ai salariati in quanto tali non appartengono più i mezzi di produzione - contrariamente ai fittavoli, artigiani etc. Il risultato è che l’appropriazione del prodotto sociale si presenta inevitabilmente come un processo estraneo ai lavoratori1. Come valore d’uso mercificato la forza-lavoro diviene la sola merce che crea valore, di una parte del quale, eccedente il corrispettivo salario, s’appropria il capitalista, ma in un sistema sociale che appare caratterizzato da un libero mercato dove libere persone scambiano valori equivalenti. Questa è l’essenza dell’accumulazione di capitale. Ora, il fatto che l’appropriazione sia un processo estraneo ai lavoratori, ciò in cui consiste lo sfruttamento capitalistico, non ha significato soltanto che una classe (i capitalisti) sia stata in “perenne lotta” con l’altra onde realizzarla2, ossia conservare un rapporto sociale, ma che nel contempo questo rapporto ha legato indissolubilmente la sorte d’entrambe le classi al “buon funzionamento” del capitalismo, fenomeno verificatosi soprattutto in alcune aree del pianeta nel corso del ‘900, dove sembra avere accontentato entrambe.
Il lavoratore salariato esiste dunque nella misura in cui può vendere la sua forza-lavoro, e per lui un’altra forma d’esistenza è stata finora pressoché inimmaginabile3. Questo vale tanto più per i lavoratori che nella teoria marxiana sono considerati improduttivi, il cui salario è pagato attraverso il plusvalore creato dalla sfera produttiva.
Diversamente da come immaginato, capitale e lavoro salariato non possono così essere considerate “grandezze estranee” l’un l’altra, base di rapporti sociali suscettibili di contrapporsi per loro natura e da sempre in via assoluta, bensì, per così dire, “omogenee” (lavoro salariato - e pluslavoro – sono l’altra faccia del capitale), ed in questo senso si può certamente affermare che nel capitalismo non convivono differenti modi di produzione, com’è accaduto in periodi storici precedenti, ma siamo di fronte ad un sistema unico, oltre il quale, come per il nostro universo, in un certo senso “non si può vedere”. Si può semmai constatare che sono esistite differenti forme di capitalismo, dove le altre, e ci riferiamo alle esperienze di capitalismo di stato4, non hanno potuto rappresentare com’è risultato evidente un’alternativa storica superiore, ci hanno fatto semmai “vedere indietro”, ad una sorta di ramo secco dello sviluppo capitalistico, essendosi infine trasformate, proprio in ragione della loro specifica natura, in semplice barbarie. Occorre precisare, circa il suddetto rapporto capitale-lavoro salariato, che esso va inteso nel senso che la forza-lavoro essendo capitale variabile, possedendo quindi un valore di scambio, è parte del capitale complessivo e dunque sottostà alle leggi che presiedono alla produzione di qualunque merce, ed essa, in quanto usata nel processo di produzione-distribuzione, in quanto possiede uno specifico valore d’uso, come fonte di valore, consente quella medesima produzione, nonché la riproduzione dell’intero capitale5.
D’altronde, il secolo appena trascorso ci pare abbia fornito ampia prova di come i comportamenti collettivi dei lavoratori salariati, quelli reali e non immaginati, abbiano nella pratica rappresentato e rappresentino nella sostanza tuttora l’unico, continuo e sistematico sostegno al sistema sociale nel quale viviamo, finanche nei momenti storici di crisi acuta delle dinamiche di riproduzione del capitale. Ciò ha prodotto, sino a qualche tempo fa, diversi livelli d’integrazione socio-economica e politica dei lavoratori salariati, in misura ampia nell’Occidente europeo, particolarmente nei cosiddetti stati “corporatisti”. La storia dell’espansione del capitalismo sembra così essere stata anzitutto la storia dell’espansione del lavoro salariato e dell’estensione, a partire da una certa fase, delle strutture socio-politiche da esso espresse (sindacati, partiti – d’ogni colore – e strutture di welfare)6. Sembra conseguirne che l’attuale dis-integrazione delle classiche forme d’organizzazione dei lavoratori e delle strutture di welfare (o de-integrazione socio-economica dei salariati)7 in aree economicamente avanzate (strutture quasi del tutto assenti, per esempio, durante la nota acuta crisi economica del 1929) è del tutto parallela alla dis-integrazione delle dinamiche della riproduzione capitalistica, perché, appunto, sono in gran parte la stessa cosa8. E’ chiaro, ci sembra, che la natura delle “lotte di classe” vada storicamente riconsiderata, così come la storia dell’intero movimento dei lavoratori, così come sembra chiaro, d’altro lato, che l’attuale fase qui definita di de-integrazione potrà consegnare - dopo la perdita continua di quanto acquisito fin qui dai lavoratori - forme di reazione organizzata alle loro condizioni sociali del tutto dissimili da quelle espresse in una fase d’integrazione, ma proprie di una fase di possibile transizione ad un superiore modo di produzione.
Riguardo al welfare state occorre rilevare che numerosi studi hanno dimostrato che la consueta lettura keynesiana e “marxista” secondo la quale esso sarebbe il risultato delle politiche redistributive (dal capitale al lavoro) dello stato e/o di politiche in deficit, magari come conseguenza dell’esistenza dei regimi dell’est o della depressione economica degli anni ’30 o ancora delle lotte prodottesi a cavallo delle crisi incorse negli anni ’70, non trova riscontro sul piano delle contabilità nazionali per quanto riguarda i paesi occidentali e comunque industrializzati, soprattutto per il periodo del cosiddetto golden age in cui vi fu la crescita più sostenuta del welfare, in assenza praticamente di politiche del tipo indicato. L’elaborazione e l’uso della categoria di “salario sociale netto” in ambito marxiano hanno consentito di comprendere come il welfare state sia stato in verità reso possibile dalla crescita dei salari lordi dei lavoratori produttivi, che ha accresciuto notevolmente le entrate dello stato sotto forma d’imposte e contributi ed ha consentito il finanziamento delle strutture di welfare, certo anche grazie al contributo del lavoratori sotto forma di spinte da loro provenienti per ottenere sussidi, pensioni, sanità, sistemi d’istruzione di massa attraverso l’apparato statale9. Queste indagini dimostrano, soprattutto, che i lavoratori salariati hanno ottenuto sotto forma di servizi grosso modo quanto elargito sotto forma di tasse e contributi10. Tant’è che l’ormai cronica e crescente crisi del welfare, a cui va da tempo sostituendosi la privatizzazione di quelli che erano servizi pubblici o s’assiste alla crescente onerosità di questi, è conseguenza di una crisi fiscale dello stato dovuta ad una riduzione complessiva delle entrate e non ad un eccesso di spese (rispetto a che?), espressione puramente ideologica tesa a nascondere il declino economico in corso che vede ridurre le entrate da lavoro dipendente per l’aumento della disoccupazione e di forme d’occupazione precarie (con relativi contratti atipici e differenziazioni contrattuali tra vecchi e nuovi assunti), nonché quelle provenienti da redditi da capitale, vuoi per le politiche di agevolazione fiscale alle imprese, vuoi, dal lato delle spese, per numerose forme di sostegno statale alle stesse.
Il capitale come profitto
Il fatto che i capitalisti s'approprino di plusvalore, o più correttamente che il capitalismo s'espanda (o s'autodistrugga come oggidì) in questo modo, che la sua caratteristica peculiare d'esistenza sia il sistema del lavoro salariato, rende il ruolo sociale dei lavoratori in parte analogo a quello dei capitalisti. La loro esistenza lavorativa - il loro stesso modus vivendi -, in qualunque ciclo o fase economica, esprime il loro essere parte del sistema. La lotta per aumenti salariali, quando possibile e anche quando questi hanno eguagliato o superato l'aumento della produttività, con una conseguente diminuzione effettiva dei profitti, non ha mai indicato un'oggettiva tendenza al superamento dei rapporti di produzione capitalistici per effetto delle lotte. Il “buon funzionamento” del capitalismo per gli uni ha significato e significa un’alta redditività del capitale investito11, per gli altri anzitutto crescita dei salari reali (comprensivo di crescenti benefici di welfare) e riduzione dell’orario e dell’intensità del lavoro.
Tuttavia, da quando questo trend si è gradualmente invertito (da circa trent’anni) i lavoratori salariati, ovunque nel mondo, nel migliore dei casi attuano causa la crescente concorrenza tra loro stessi - unica ed efficiente, dunque continua e sistematica arma usata dai capitalisti contro di loro -una pura lotta difensiva, ossia di mantenimento di standard d’integrazione considerati da tempo “eccessivi”, ma per lo più diffusamente attuano una pura lotta per l’esistenza sociale, accontentandosi di ottenere sic et simpliciter una o più occupazioni qualunque, in pratica a qualunque condizione.
Ciò sembra dire molto a proposito della natura del processo d’accumulazione del capitale. Al momento, sembra in corso soltanto un lungo processo di vero e proprio adattamento socio-biologico dei lavoratori salariati a standard di vita decisamente peggiori ai precedenti (in termini di salari reali, orari e condizioni di lavoro). Questa è la caratteristica saliente degli ultimi decenni, una sorta di “gestione capitalistica della miseria crescente”, sempre che le condizioni di vendita della forza-lavoro non risultino vieppiù insostenibili, come pare stia accadendo in quelle aree di capitalismo avanzato e con tradizionali strutture di welfare più o meno consistenti - giacché nel resto del pianeta lo sono da tempo, senza che i lavoratori abbiano saputo mettere in campo alcuna reazione organizzata. Questa insostenibilità potrebbe esprimere adesso forme sociali e politiche del tutto imprevedibili, ma si può soltanto sperare caratterizzate dal tentativo di mettere in discussione in toto i rapporti economici esistenti.
“Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso”12
Marx osserva: "Il mezzo - lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali - viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente"13. Questa incompatibilità tra forze produttive e rapporti di produzione desta un notevole interesse sotto due aspetti: primo, perché vorrebbe indicare che la formazione economica capitalistica dovrebbe tendere a terminare il suo corso del tutto oggettivamente, in virtù di un meccanismo che per la propria stessa dinamica evolutiva non gli consentirebbe più oltre di sopravvivere di là di un certo lasso di tempo, un po’ come una specie – nel presente caso unica - che abbia esaurito tutte le proprie risorse e possibilità all’interno della propria nicchia ecologica (nulla di più lontano da come i rivoluzionari del secolo appena trascorso hanno immaginato tutta la faccenda, una sorta d’antropomorfizzazione epica della lotta di classe); secondo, perché, proprio per quanto detto, la suddetta incompatibilità potrebbe e andrebbe misurata empiricamente, “con la precisione delle scienze naturali”. Tuttavia per poterlo fare dovremmo caratterizzarla per come si presenta oggi. Intanto - visto che non viviamo di solo pane ma di tutto ciò che lo sviluppo storico ci ha consegnato, compreso quello che dovremo toglierci di mezzo per sempre -, attraverso quello che per gli uomini più conta, ossia sul piano effettuale osservando da decenni il più o meno graduale peggioramento delle condizioni di vita nelle aree in cui il capitalismo si è pienamente realizzato, e quindi pure a livello globale, a partire dagli standard in precedenza raggiunti. Se, infatti, il boom del dopoguerra fosse proseguito indefinitamente non staremmo qui a preoccuparci. Salari reali che decrescono, smantellamento progressivo del welfare state, crescita della disoccupazione o della precarietà occupazionale, in altre parole miseria crescente invece che benessere (nelle forme di fatto conosciute in regime capitalistico). Poi, sul piano delle dinamiche di riproduzione del capitale, osservando un arresto degli investimenti lordi, un rallentamento della produttività (dovuta per altro all’aumento dell’intensità del lavoro), una stagnazione o decrescita dei profitti realizzati dal settore manifatturiero, insomma una riproduzione allargata del capitale che non è più tale ed una parallela metamorfosi del capitalismo in una direzione speculativa a cui si assiste dalla fine degli anni ‘7014-onde compensare appunto la bassa redditività del capitale investito negli altri settori -, il che renderebbe possibile un crollo manifesto dell’intero sistema a causa degli alti rapporti d’indebitamento che essa procura. Occorrerebbe poi, sul piano teorico, indagarne le cause15.
Risiede in questa incompatibilità tra quello che potremmo definire il processo d’evoluzione sociale della nostra specie ed il processo di valorizzazione del capitale descritto e spiegato da Marx nelle sue opere economiche il limite dell’attuale formazione sociale e dunque la possibilità del suo superamento verso un sistema sociale superiore, ossia nella distinzione che occorre fare tra la produzione di beni materiali e servizi di qualunque tipo atti a soddisfare e dunque riprodurre la nostra specie ai livelli che il progresso storico e tecnico consente e la forma storica capitalistica attualmente data per la gestione di questo processo16.
Dovremmo in sostanza interpretare l'attuale fase del capitalismo, iniziata grosso modo da trent'anni, come caratterizzata da un lento ed inevitabile declino di questo modo di produzione, che non si tratti cioè della fase di un ciclo destinato a ripetersi eternamente, come taluni argomentano, né si tratti di una fase qualitativamente nuova del capitalismo, come s'ama disquisire “a destra e a sinistra", onde augurarsi di salvaguardare le posizioni di privilegio proprie della sfera politica e intellettuale, in una sorta di sceneggiata tragicomica, dove i partecipanti fanno a gara tra chi meglio, nella maniera più giusta questa fase sarebbe in grado di rappresentare. Come le leggi biologiche pur essendo le stesse in un organismo non si ripetono allo stesso modo e durante la fase della vecchiaia conducono un organismo alla morte, così il capitalismo contemporaneo mostra dei chiarissimi segni del fatto che esso è incapace di riprodursi (accumulazione allargata) come in passato.
Attualmente, invece, il dibattito economico-sociale a sinistra, specie in Italia, pare essere ricolmo d’ideologismi dal chiaro significato apologetico di “quest’ultimo capitalismo” (globalizzazione, postfordismo o new economy, la solita accoppiata terzomondismo-imperialismo etc.), giacché, di pari passo alla propaganda delle solite “élite dominanti”, vengono forniti elementi descrittivi e/o esplicativi tanto falsi quanto comuni, dando forma alla percezione “umana troppo umana” che la precarietà, il disagio sociale e la miseria crescenti sul pianeta non siano dovuti ad una sistema economico che incontra mai come ora notevoli difficoltà a riprodursi, avviandosi in realtà solo verso uno stato segnatamente caotico (come la fenomenologia politica e militare internazionali di questi ultimi quindici anni – si vedano le recenti “guerre” con tanto di nuovi nemici fasulli - dovrebbe fare intendere17), ma ad un mutamento qualitativo in corso delle sue strutture, che si accompagnerebbe ad inevitabili perturbazioni rispetto agli equilibri socio-economici e politici tradizionali ma nella direzione di un nuovo regime economico (l’era della flessibilità!). Alcuni dei corollari alquanto idioti di questa prospettiva sono la “fine del lavoro”, “l’ozio creativo”, la rilevanza assunta dal cosiddetto “lavoro immateriale”, nell’insieme legati appunto all’idea dell’avvento di un nuovo paradigma tecnologico18; ma il corollario più rilevante, l’alfa e l’omega politico manifesto di questa prospettiva, è dato dalla pretesa che esso possa essere gestito in funzione “anticapitalistica” da una qualche solita nuova avanguardia rivoluzionaria, portatrice di un nuovo “progetto egemonico”, quello del “lavoro immateriale”. Tale weltanschauung ideologica deve tuttavia fare i conti col fatto che l’attuale fase del capitalismo è chiaramente caratterizzata da una performance negativa o decrescente di fondamentali indici economici (produttività, profitti industriali, investimenti, ossia da un declino dell’accumulazione), da eccessi finanziari e rapporti d’indebitamento senza precedenti (vieppiù per gli USA) - connessi certamente alla rilevanza assunta dal settore speculativo –, dal ritrarsi del capitalismo da aree consistenti del pianeta, di pari passo, come già osservato, all’inversione di trend che tradizionalmente hanno espresso un’evoluzione favorevole delle condizioni di vita dei lavoratori salariati dentro il sistema capitalistico ( peggiore composizione della distribuzione del reddito, crescita d’intensità e orario di lavoro, diminuzione dei salari reali, aumento della disoccupazione e della miseria, ossia della precarietà, ovunque) e, infine, dalla necessità da parte degli istituti d'analisi economica (specie in USA, Giappone e UK) di modificare i parametri di misurazione della performance economica onde farla risultare meno negativa di quanto sia.
Magari non nuoce citare il solito Marx, quando asseriva, in una lettera a Kugelmann, che "La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bestione borghese ci crede e li diffonde) in un giorno, di quanto una volta se ne potevano costruire in un secolo”19.
Un’ideologia rivoluzionaria?
I “Vecchi” avevano osservato che “l’emancipazione della classe operaia dev’essere opera dei lavoratori stessi”20, che essa dovrebbe prendere la forma di una comunità dei “produttori associati” e che per giungere a ciò, qualunque cosa significhi, occorrono condizioni economiche particolari: ad esempio condizioni tecniche ed un sistema d’organizzazione produttiva talmente evoluti da rendere inutile un’organizzazione sociale che ha espresso sin’ora, con forme economiche e politiche date, la lotta per l’esistenza a cui gli uomini sono sottoposti come qualunque altra specie animale. Col senno di poi, potremmo aggiungere un’ulteriore condizione, quella di un sistema economico che seppur giunto probabilmente a tanto rende impossibile, data la performance di questi ultimi decenni, l’uso di queste potenzialità tecniche ed organizzative, ed anzi fa retrocedere la condizione della nostra specie, riproducendo artificialmente condizioni di lotta per l’esistenza in parte eliminate in un recente passato, ciò attraverso lo smantellamento delle strutture di welfare, dunque attraverso il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori nei paesi capitalisticamente più progrediti, dal cui concorso pratico e teorico, secondo i “Vecchi”, doveva venire la soluzione a quell’emancipazione.
Contro quell’obiettivo si frapponevano alcune condizioni, una delle quali era da loro indicata nella “concorrenza inevitabile tra i lavoratori stessi”, che di fatto ne annulla il loro potere sociale, dato dal semplice crescere del loro numero. In tal senso i lavoratori salariati sono tutto, sia che compiano la loro emancipazione sia che ciò non avvenga, vieppiù quando si presume che le condizioni endogene siano date e sia che essi accentuino la concorrenza tra loro stessi, come oggidì, sia che ne riducano l’intensità, come quando, in presenza di bassi tassi di disoccupazione, attraverso l’unione sindacale, riuscirono ad imporre migliori condizioni di lavoro e di vita. Si può osservare en passant come in tutta questa faccenda non abbiano avuto parte alcuna le cosiddette rivoluzioni comuniste prodottesi nel corso del ‘900, così come le guerre di liberazione nazionali etichettate come antimperialiste, ossia tutto ciò che è accaduto nei paesi meno progrediti e rimasti tali dal punto di vista della crescita capitalistica. Osservava Marx che se il proletariato rovescia il solo dominio politico della borghesia, in condizioni in cui il modo di produzione capitalistico non può essere soppresso per ovvie ragioni, la sua vittoria sarà solo un momento al servizio della rivoluzione borghese stessa21, ossia consentirà e rifletterà uno sviluppo capitalistico o protocapitalistico in corso (ciò che sembra applicarsi a quanto accaduto in URSS, nei paesi dell’est o in Cina).
Non sarà un caso che proprio in queste aree si sia accentuata e abbia preso corpo un’ideologia politica che ha sottolineato all’inverosimile, ma conseguenzialmente, l’idea comune a tutte le sfere della divisione del lavoro intellettuale, quella cioè di avere una qualche direzione nello sviluppo dei processi storici, ossia, in questo caso, che il compiersi delle rivoluzioni proletarie sia tutt’uno col consegnare ai lavoratori una coscienza rivoluzionaria dall’esterno, un compito che verrebbe assunto dall’avanguardia comunista, il quale, a differenza di quelli propri di altre sezioni di quella divisione intellettuale del lavoro, consisterebbe nell’ “unificare … due mostri metafisici: ‘Un movimento operaio spontaneo, privo di ogni teoria’ e una coscienza socialista disincarnata”, sicché la crisi dell’umanità, come un corollario, sarebbe data da una “crisi della direzione” politica22. In questo senso, la teoria della coscienza portata dall’esterno ha avuto un valore del tutto autoreferenziale, non ha indicato l’esistenza di un processo effettivo, ha posseduto invece un valore consolatorio, di giustificazione storica delle cosiddette avanguardie, alla stessa stregua di come, ad esempio, l’incredibile teoria del big bang serve solo a giustificare il business di certa cosmologia. D’altronde se volessimo considerarla un’ipotesi comunque ragionevole, ossia trovare metodi e fatti per verificarla, tutta la storia trascorsa insegna piuttosto il contrario, dove pare essa abbia trovato una sua realizzazione. Se una teoria predice qualcosa e ciò che accade contraddice la predizione, la teoria è o falsa, anche se chiunque può imbastire ipotesi ad hoc in numero indefinito per salvarne la veridicità, o potrebbe possedere nel migliore dei casi una validità parziale.
Ora, se appare ragionevolmente corroborata l’ipotesi che con il capitalismo non si è data la fine della storia ( tutt’altro: esso si sta frantumando pezzo dopo pezzo a cominciare dalla sue aree più deboli - terzo mondo, paesi dell’est, America latina -, che si sono viste consegnare il nulla economico o un capitalismo di stampo gangsteristico), così la storia dei regimi cosiddetti comunisti ha semmai rappresentato un evidente freno al processo dell’emancipazione umana.
L’idea della coscienza portata dall’esterno non è altro che un aspetto specifico di un processo ideologico più generale a cui mette capo una società divisa in classi, soprattutto quella capitalistica, quello che meno impegnativamente ha espresso l’idea del “primato della politica”, delle politiche economiche sopra l’intero universo sociale, propagandata da tempo in ogni anfratto del party mass-mediologico sino alla nausea e proprio in quanto di continuo smentita dai fatti, e che non sembra essere null’altro che la veste ideologica di processi economico-sociali manifestamente ingovernabili. Il primato della politica (governi, funzionari statali, intellettuali, management, sistema dell’istruzione etc.) non è altro che un surrogato del “regno della necessità”, ciò che ne indica la valenza unicamente e puramente pratica. Esso non si riferisce a qualcosa di effettivo, semmai legittima gli apparati intellettuali tutti, giacché al governo sulle persone non s’è ancora per nulla sostituita l’amministrazione delle cose.
In tempi in cui occorre pure vergognarsi di continuare a protrarre un’esistenza calpestata di continuo da menzogne e fatti criminali spacciati come cose buone e giuste, se si sono finalmente da lungo tempo abbandonati i sogni di un’”emancipazione proveniente dall’alto”, occorre anche ricordare che dietro le contemporanee imposture politiche v’è solo la realtà di coloro che infine devono fare i conti con condizioni sociali insostenibili e all’apparenza inevitabili, di fronte alle quali vale la pena volgere il ricordo alla decenza di chi, abbandonata da tempo ogni speranza, almeno consigliava che "Il solo atteggiamento responsabile è quello di vietarsi l'abuso ideologico della propria esistenza, e - per il resto - condursi della vita privata, con la modestia e la mancanza di pretese a cui ci obbliga, da tempo, non più la buona educazione, ma la vergogna di possedere ancora, nell'inferno, l'aria per respirare23."
“La classe dei lavoratori e quella dei capitalisti non hanno nulla di comune ", si recita nel preambolo dell'I.W.W.
Una classe rivoluzionaria?
Nel primo libro del Capitale, l’unica opera economica di rilievo pubblicata da Marx ancora in vita, l’autore, lungi dal presentare il proletariato come una classe rivoluzionaria, espone la dinamica del processo d’accumulazione capitalistico, della quale il proletariato, la classe dei lavoratori produttori di plusvalore, è il cardine unico. Il suo punto di vista “concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale”(p. 34)24, a tal punto che nei suoi scritti economici – a differenza di quelli politici – il termine “lotta di classe” compare assai raramente. Se si prende ad esempio il capitolo su “La legge generale dell’accumulazione capitalistica” si resta sorpresi dalla vulgata politica socialista e comunista prodottasi nel secolo appena trascorso, relativa al perenne dominio di classe della borghesia. Di là dal reale valore storico di questa “legge”, il termine usato da Marx serve proprio ad indicare una dinamica economica oggettiva, del tutto specifica al capitalismo, alla quale i lavoratori salariati in quanto tali sono soggetti, meglio ne sono l’espressione. Ricorrere alle citazioni procura generalmente quel piacevole torpore proprio di chi si vieta la fatica d’usare il cervello, tuttavia nel nostro caso è necessario farne alcune onde esporre quella che si ritiene essere la più profonda prospettiva marxiana intorno alla natura ed alla funzione dei lavoratori salariati. Nel capitolo citato, in cui Marx focalizza la sua attenzione su alcuni aspetti del rapporto capitale-lavoro, egli conclude alcune considerazioni intorno a ciò che determina il prezzo della forza-lavoro sostenendo che “Per usare un’espressione matematica: la grandezza dell’accumulazione è la variabile indipendente, la grandezza del salario quella dipendente, non viceversa”.*
Egli osserva ciò per sostenere che la determinazione del prezzo della forza-lavoro non è dovuta ad un fattore esterno (in questo caso demografico, da cui, al fine dell’analisi in corso, è necessario astrarre) all’andamento ciclico dell’accumulazione, come la diminuzione o l’aumento dell’incremento assoluto della forza-lavoro, ma al contrario è l’aumento o la diminuzione dell’accumulazione di capitale a rendere insufficiente od eccedente la forza-lavoro. Tuttavia, un movimento tipicamente ideologico rende quelli che sono “movimenti assoluti entro l’accumulazione del capitale … movimenti relativi entro la massa della forza-lavoro sfruttabile e quindi sembrano dovuti al movimento proprio di quest’ultima” (un eccellente esempio di “falsa coscienza”, tipica dei nostri tempi, col continuo ricorso, ad esempio, alla presunta eccessiva crescita demografica mondiale). “La legge della produzione capitalistica”, continua Marx, dice che “il rapporto fra capitale, accumulazione e saggio del salario” è “il rapporto tra il lavoro non retribuito trasformato in capitale e il lavoro addizionale richiesto” dal capitale addizionale. “Non si tratta dunque affatto di un rapporto fra due grandezze indipendenti fra di loro* … si tratta bensì in ultima istanza solo del rapporto fra il lavoro non retribuito e quello retribuito di una medesima popolazione operaia” (p. 679). Considerando la natura di questo rapporto, conclude in merito alla stessa legge “che la sua natura esclude ogni diminuzione del grado di sfruttamento del lavoro o ogni aumento” del suo prezzo “che siano tali da esporre ad un serio pericolo* la riproduzione del rapporto capitalistico” di produzione (p. 680). Il capitalismo, a differenza di modi di produzione precedenti, in questa descrizione appare omogeneo al suo interno e non sembra possa contemplare l’esistenza di una classe che abbia elementi o una dinamica strutturalmente estranei a questo modo di produzione, come fu, ad esempio, del rapporto tra signori, servi ed altre figure di contadini nel medioevo e prima ancora nel sistema schiavistico, dove si manifestavano autenticamente “interessi contrapposti”, che erano tali poiché una delle due classi sociali coinvolte non richiedeva affatto l’esistenza dell’altra. I ceti sociali coinvolti erano del tutto eterogenei tra loro. E’ come se il rapporto di produzione in questione operasse una semplice “sovrapposizione” d’elementi. In altre parole, le classi sociali implicate erano “tenute assieme” da una coercizione politica, non economica. Questa era la condizione che rendeva possibile rivolgimenti rivoluzionari (e di natura prevalentemente politica, ossia che accadevano quando le condizioni economiche delle classi e ceti sociali implicati erano già mutate).
Nella successiva trattazione della “sovrappopolazione relativa” risulta evidente come, invece, nella società capitalistica per Marx non operi alcun elemento estraneo al rapporto di produzione capitalistico, o meglio essa si caratterizzi per l’omogeneità degli elementi (classi sociali!) che la costituiscono. L’esercito industriale di riserva “appartiene al capitale in maniera … completa …indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione (p. 692)…I movimenti generali del salario sono regolati esclusivamente dall’espansione e dalla contrazione dell’esercito industriale di riserva, le quali corrispondono all’alternarsi dei periodi del ciclo industriale (p. 697) …La sovrappopolazione relativa è quindi lo sfondo sul quale si muove la legge della domanda e dell’offerta di lavoro”(p. 699), che è come dire che essa diviene la “legge della popolazione peculiare del modo di produzione capitalistico” (p. 691). Marx conclude significativamente: “La domanda di lavoro non è tutt’uno con l’aumento del capitale, l’offerta di lavoro non è tutt’uno con l’aumento della classe operaia, in modo che due potenze indipendenti fra loro* agiscano l’una sull’altra. Les dés sont pipés. Il capitale agisce contemporaneamente* da tutte e due le parti.” (p. 700). Questa è la “legge naturale della produzione capitalistica” (p. 701), che fa sì che la condizione d’esistenza della classe operaia, la sua propria natura, consista nella vendita della forza lavoro.
E ancora nel capitolo su “La cosiddetta accumulazione originaria” Marx assai lucidamente scrive: “Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L'organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell'offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull'operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l'operaio può rimanere affidato alle “leggi naturali della produzione”, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizione della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse. Altrimenti vanno le cose durante la genesi storica della produzione capitalistica. La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere dello Stato, e ne fa uso, per “regolare” il salario, cioè per costringerlo entro limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso a un grado normale di dipendenza. E’ questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria”25 (pp. 800-801).
In questi capitoli, come in tutto il primo libro del Capitale, l’autore, nel fornire un’esposizione considerata scientifica della formazione economico-sociale capitalistica, non individua né elementi endogeni (classi) che contrastano il processo d’accumulazione capitalistica26, né elementi esogeni (qui demografici). La presenza di forme di produzione non propriamente capitalistiche è poi del tutto irrilevante per questo modo di produzione, così come l’eventualità di catastrofi naturali impreviste non può evidentemente essere contemplata in una simile esposizione.
In virtù dunque delle su indicate “leggi naturali della produzione” e di ciò che Marx ha descritto come “feticismo delle merci” - in base a cui il valore di scambio, in una società dove la produzione di merci è completamente sviluppata, non si presenta come “una determinata maniera sociale di esprimere il lavoro applicato alle cose”, ma come la necessaria “parvenza che le determinazioni sociali del lavoro siano caratteri degli oggetti” (p. 114) -, un’ideologia ed una pratica rivoluzionarie sono pressoché impossibili, non invece una “cognizione scientifica” rivoluzionaria, rappresentata anzitutto dallo stesso Capitale di Marx. In questo senso nessuna “battaglia d’idee” sembra sia stata in grado di dissimulare la realtà del modo di produzione capitalistico come di un sistema sociale storicamente determinato, ciò che sembra dimostrato sia dai risultati delle cosiddette rivoluzioni comuniste del secolo scorso, dalle quali sono sorti sistemi economici nelle loro varianti di tipo capitalistico, sia dai risultati delle politiche socialdemocratiche che sono solo riuscite a mettere in campo, in realtà storiche favorevoli, un capitalismo dal “volto umano”. Le ideologie cosiddette rivoluzionarie non sono riuscite, da parte loro, ad andare di là di una propaganda antimperialista che ha dissimulato solo il nazionalismo del XX secolo.
Nessuna prassi rivoluzionaria è stata fino ad ora possibile nel capitalismo, sapremo che cosa essa potrà mai significare soltanto quando il corso storico del capitalismo verrà meno, ciò che evidentemente ancora non ha fatto capolino nella sua lunga storia.
A mo’ di pia conclusione
La considerazione svolta da Marx circa il salario, il lavoratore salariato come di una variabile dipendente presenta immediatamente un’altra faccia, oltre a quella da noi evidenziata. Proprio quanto osservato rende altrettanto evidente come i lavoratori salariati, in tutti gli ambiti del rapporto sociale capitalistico, siano gli unici depositari della capacità di gestire il sistema economico-sociale in proprio, ossia al di fuori dei rapporti di produzione capitalistici dentro e tra le unità produttive. Proprio perché il processo di produzione capitalistico presuppone l’esistenza della merce forza-lavoro, che altrimenti non sarebbe mai esistito, i lavoratori salariati rappresentano l’unica forza produttiva che storicamente potrebbe essere in grado di sostituire allo spettacolo ridicolo e da tempo criminale delle politiche economiche dei governi - che ha fatto in specie degli economisti, delle varie istituzioni economiche tanto glorificate e della “scienza economica” i principali e più efficaci, sul piano pratico, apologeti del deterioramento delle condizioni di vita sul pianeta - una gestione delle risorse e dei sistemi di produzione tale da superare lo stato di lotta per l’esistenza artificialmente riprodotto dal capitalismo sull’intero pianeta.
Appare evidente infatti come lo stato del capitalismo mondiale riproduca artificialmente quella che il “Vecchio” aveva definito “preistoria dell’umanità”, intendendo una condizione “paradossale” nella quale gli uomini subiscono i risultati e le acquisizioni della civilizzazione nei termini di uno sfruttamento sistematico degli uni sugli altri ossia di una sorta di seconda diffusa lotta per l’esistenza - dopo quella propriamente preistorica -, che interessa anzitutto le loro reciproche relazioni sociali piuttosto che il loro rapporto con ciò che la natura offre e sulle cui ragioni e cause non ci si vuole qui soffermare. La pena infinita che essa procura oggi, data dalle rilevabili condizioni di precarietà sociale crescente, è dovuta al fatto che essa non ha alcun analogo nella storia umana trascorsa prima della rivoluzione capitalistica, a causa del consistente progresso tecnico da questa determinato. Invece d’osservare una ricaduta del potenziale tecnico acquisito e di quello possibile nei termini di un crescente miglioramento della qualità della vita e di un superamento definitivo delle condizioni di povertà e fame nel mondo, assistiamo invece ad un arretramento anche rispetto a ciò che si considerava acquisito nelle società altamente industrializzate, nonché alla conseguente propaganda ideologica che vuol fare apparire tutto ciò come il risultato di una superiore “modernità”, la modernità tecnologica di un sistema economico che al meglio gestirebbe condizioni di scarsità che si ritengono insuperabili. Più prosaicamente, è l’incapacità attuale del sistema economico capitalistico di venire incontro pure ai bisogni elementari di sopravvivenza a cui, in misura assai più razionale, riusciva a far fronte qualunque comunità primitiva.
Perché i lavoratori salariati, anzitutto quelli occupati nei settori industriale e dei servizi, dovrebbero preoccuparsi di dare una svolta a tutto ciò? Si deve supporre per almeno due ragioni:
La considerazione marxiana della forza-lavoro come di una merce speciale in una “immane raccolta di merci” va ricondotta alla sua genesi esposta da Marx in quella che egli ha chiamato “accumulazione originaria”. Attraverso l’espropriazione dei mezzi di produzione ai produttori diretti accadono due cose: a) la “forza-lavoro” si presenta come un insieme di capacità lavorative storicamente acquisite in forma di proprietà d’individui che si trovano costretti a venderle sul mercato in cambio di un equivalente; b) quell’espropriazione trasforma i mezzi di produzione in “capitale”. E’ questo che fa d’individui, un tempo espressione d’altri rapporti sociali, lavoratori salariati. La forza-lavoro adesso non fa parte dei mezzi di produzione - come poteva essere, ma solo sul piano giuridico, per schiavi e certe figure di servitù -, così come ai salariati in quanto tali non appartengono più i mezzi di produzione - contrariamente ai fittavoli, artigiani etc. Il risultato è che l’appropriazione del prodotto sociale si presenta inevitabilmente come un processo estraneo ai lavoratori1. Come valore d’uso mercificato la forza-lavoro diviene la sola merce che crea valore, di una parte del quale, eccedente il corrispettivo salario, s’appropria il capitalista, ma in un sistema sociale che appare caratterizzato da un libero mercato dove libere persone scambiano valori equivalenti. Questa è l’essenza dell’accumulazione di capitale. Ora, il fatto che l’appropriazione sia un processo estraneo ai lavoratori, ciò in cui consiste lo sfruttamento capitalistico, non ha significato soltanto che una classe (i capitalisti) sia stata in “perenne lotta” con l’altra onde realizzarla2, ossia conservare un rapporto sociale, ma che nel contempo questo rapporto ha legato indissolubilmente la sorte d’entrambe le classi al “buon funzionamento” del capitalismo, fenomeno verificatosi soprattutto in alcune aree del pianeta nel corso del ‘900, dove sembra avere accontentato entrambe.
Il lavoratore salariato esiste dunque nella misura in cui può vendere la sua forza-lavoro, e per lui un’altra forma d’esistenza è stata finora pressoché inimmaginabile3. Questo vale tanto più per i lavoratori che nella teoria marxiana sono considerati improduttivi, il cui salario è pagato attraverso il plusvalore creato dalla sfera produttiva.
Diversamente da come immaginato, capitale e lavoro salariato non possono così essere considerate “grandezze estranee” l’un l’altra, base di rapporti sociali suscettibili di contrapporsi per loro natura e da sempre in via assoluta, bensì, per così dire, “omogenee” (lavoro salariato - e pluslavoro – sono l’altra faccia del capitale), ed in questo senso si può certamente affermare che nel capitalismo non convivono differenti modi di produzione, com’è accaduto in periodi storici precedenti, ma siamo di fronte ad un sistema unico, oltre il quale, come per il nostro universo, in un certo senso “non si può vedere”. Si può semmai constatare che sono esistite differenti forme di capitalismo, dove le altre, e ci riferiamo alle esperienze di capitalismo di stato4, non hanno potuto rappresentare com’è risultato evidente un’alternativa storica superiore, ci hanno fatto semmai “vedere indietro”, ad una sorta di ramo secco dello sviluppo capitalistico, essendosi infine trasformate, proprio in ragione della loro specifica natura, in semplice barbarie. Occorre precisare, circa il suddetto rapporto capitale-lavoro salariato, che esso va inteso nel senso che la forza-lavoro essendo capitale variabile, possedendo quindi un valore di scambio, è parte del capitale complessivo e dunque sottostà alle leggi che presiedono alla produzione di qualunque merce, ed essa, in quanto usata nel processo di produzione-distribuzione, in quanto possiede uno specifico valore d’uso, come fonte di valore, consente quella medesima produzione, nonché la riproduzione dell’intero capitale5.
D’altronde, il secolo appena trascorso ci pare abbia fornito ampia prova di come i comportamenti collettivi dei lavoratori salariati, quelli reali e non immaginati, abbiano nella pratica rappresentato e rappresentino nella sostanza tuttora l’unico, continuo e sistematico sostegno al sistema sociale nel quale viviamo, finanche nei momenti storici di crisi acuta delle dinamiche di riproduzione del capitale. Ciò ha prodotto, sino a qualche tempo fa, diversi livelli d’integrazione socio-economica e politica dei lavoratori salariati, in misura ampia nell’Occidente europeo, particolarmente nei cosiddetti stati “corporatisti”. La storia dell’espansione del capitalismo sembra così essere stata anzitutto la storia dell’espansione del lavoro salariato e dell’estensione, a partire da una certa fase, delle strutture socio-politiche da esso espresse (sindacati, partiti – d’ogni colore – e strutture di welfare)6. Sembra conseguirne che l’attuale dis-integrazione delle classiche forme d’organizzazione dei lavoratori e delle strutture di welfare (o de-integrazione socio-economica dei salariati)7 in aree economicamente avanzate (strutture quasi del tutto assenti, per esempio, durante la nota acuta crisi economica del 1929) è del tutto parallela alla dis-integrazione delle dinamiche della riproduzione capitalistica, perché, appunto, sono in gran parte la stessa cosa8. E’ chiaro, ci sembra, che la natura delle “lotte di classe” vada storicamente riconsiderata, così come la storia dell’intero movimento dei lavoratori, così come sembra chiaro, d’altro lato, che l’attuale fase qui definita di de-integrazione potrà consegnare - dopo la perdita continua di quanto acquisito fin qui dai lavoratori - forme di reazione organizzata alle loro condizioni sociali del tutto dissimili da quelle espresse in una fase d’integrazione, ma proprie di una fase di possibile transizione ad un superiore modo di produzione.
Riguardo al welfare state occorre rilevare che numerosi studi hanno dimostrato che la consueta lettura keynesiana e “marxista” secondo la quale esso sarebbe il risultato delle politiche redistributive (dal capitale al lavoro) dello stato e/o di politiche in deficit, magari come conseguenza dell’esistenza dei regimi dell’est o della depressione economica degli anni ’30 o ancora delle lotte prodottesi a cavallo delle crisi incorse negli anni ’70, non trova riscontro sul piano delle contabilità nazionali per quanto riguarda i paesi occidentali e comunque industrializzati, soprattutto per il periodo del cosiddetto golden age in cui vi fu la crescita più sostenuta del welfare, in assenza praticamente di politiche del tipo indicato. L’elaborazione e l’uso della categoria di “salario sociale netto” in ambito marxiano hanno consentito di comprendere come il welfare state sia stato in verità reso possibile dalla crescita dei salari lordi dei lavoratori produttivi, che ha accresciuto notevolmente le entrate dello stato sotto forma d’imposte e contributi ed ha consentito il finanziamento delle strutture di welfare, certo anche grazie al contributo del lavoratori sotto forma di spinte da loro provenienti per ottenere sussidi, pensioni, sanità, sistemi d’istruzione di massa attraverso l’apparato statale9. Queste indagini dimostrano, soprattutto, che i lavoratori salariati hanno ottenuto sotto forma di servizi grosso modo quanto elargito sotto forma di tasse e contributi10. Tant’è che l’ormai cronica e crescente crisi del welfare, a cui va da tempo sostituendosi la privatizzazione di quelli che erano servizi pubblici o s’assiste alla crescente onerosità di questi, è conseguenza di una crisi fiscale dello stato dovuta ad una riduzione complessiva delle entrate e non ad un eccesso di spese (rispetto a che?), espressione puramente ideologica tesa a nascondere il declino economico in corso che vede ridurre le entrate da lavoro dipendente per l’aumento della disoccupazione e di forme d’occupazione precarie (con relativi contratti atipici e differenziazioni contrattuali tra vecchi e nuovi assunti), nonché quelle provenienti da redditi da capitale, vuoi per le politiche di agevolazione fiscale alle imprese, vuoi, dal lato delle spese, per numerose forme di sostegno statale alle stesse.
Il capitale come profitto
Il fatto che i capitalisti s'approprino di plusvalore, o più correttamente che il capitalismo s'espanda (o s'autodistrugga come oggidì) in questo modo, che la sua caratteristica peculiare d'esistenza sia il sistema del lavoro salariato, rende il ruolo sociale dei lavoratori in parte analogo a quello dei capitalisti. La loro esistenza lavorativa - il loro stesso modus vivendi -, in qualunque ciclo o fase economica, esprime il loro essere parte del sistema. La lotta per aumenti salariali, quando possibile e anche quando questi hanno eguagliato o superato l'aumento della produttività, con una conseguente diminuzione effettiva dei profitti, non ha mai indicato un'oggettiva tendenza al superamento dei rapporti di produzione capitalistici per effetto delle lotte. Il “buon funzionamento” del capitalismo per gli uni ha significato e significa un’alta redditività del capitale investito11, per gli altri anzitutto crescita dei salari reali (comprensivo di crescenti benefici di welfare) e riduzione dell’orario e dell’intensità del lavoro.
Tuttavia, da quando questo trend si è gradualmente invertito (da circa trent’anni) i lavoratori salariati, ovunque nel mondo, nel migliore dei casi attuano causa la crescente concorrenza tra loro stessi - unica ed efficiente, dunque continua e sistematica arma usata dai capitalisti contro di loro -una pura lotta difensiva, ossia di mantenimento di standard d’integrazione considerati da tempo “eccessivi”, ma per lo più diffusamente attuano una pura lotta per l’esistenza sociale, accontentandosi di ottenere sic et simpliciter una o più occupazioni qualunque, in pratica a qualunque condizione.
Ciò sembra dire molto a proposito della natura del processo d’accumulazione del capitale. Al momento, sembra in corso soltanto un lungo processo di vero e proprio adattamento socio-biologico dei lavoratori salariati a standard di vita decisamente peggiori ai precedenti (in termini di salari reali, orari e condizioni di lavoro). Questa è la caratteristica saliente degli ultimi decenni, una sorta di “gestione capitalistica della miseria crescente”, sempre che le condizioni di vendita della forza-lavoro non risultino vieppiù insostenibili, come pare stia accadendo in quelle aree di capitalismo avanzato e con tradizionali strutture di welfare più o meno consistenti - giacché nel resto del pianeta lo sono da tempo, senza che i lavoratori abbiano saputo mettere in campo alcuna reazione organizzata. Questa insostenibilità potrebbe esprimere adesso forme sociali e politiche del tutto imprevedibili, ma si può soltanto sperare caratterizzate dal tentativo di mettere in discussione in toto i rapporti economici esistenti.
“Il vero limite della produzione capitalistica è il capitale stesso”12
Marx osserva: "Il mezzo - lo sviluppo incondizionato delle forze produttive sociali - viene permanentemente in conflitto con il fine ristretto, la valorizzazione del capitale esistente"13. Questa incompatibilità tra forze produttive e rapporti di produzione desta un notevole interesse sotto due aspetti: primo, perché vorrebbe indicare che la formazione economica capitalistica dovrebbe tendere a terminare il suo corso del tutto oggettivamente, in virtù di un meccanismo che per la propria stessa dinamica evolutiva non gli consentirebbe più oltre di sopravvivere di là di un certo lasso di tempo, un po’ come una specie – nel presente caso unica - che abbia esaurito tutte le proprie risorse e possibilità all’interno della propria nicchia ecologica (nulla di più lontano da come i rivoluzionari del secolo appena trascorso hanno immaginato tutta la faccenda, una sorta d’antropomorfizzazione epica della lotta di classe); secondo, perché, proprio per quanto detto, la suddetta incompatibilità potrebbe e andrebbe misurata empiricamente, “con la precisione delle scienze naturali”. Tuttavia per poterlo fare dovremmo caratterizzarla per come si presenta oggi. Intanto - visto che non viviamo di solo pane ma di tutto ciò che lo sviluppo storico ci ha consegnato, compreso quello che dovremo toglierci di mezzo per sempre -, attraverso quello che per gli uomini più conta, ossia sul piano effettuale osservando da decenni il più o meno graduale peggioramento delle condizioni di vita nelle aree in cui il capitalismo si è pienamente realizzato, e quindi pure a livello globale, a partire dagli standard in precedenza raggiunti. Se, infatti, il boom del dopoguerra fosse proseguito indefinitamente non staremmo qui a preoccuparci. Salari reali che decrescono, smantellamento progressivo del welfare state, crescita della disoccupazione o della precarietà occupazionale, in altre parole miseria crescente invece che benessere (nelle forme di fatto conosciute in regime capitalistico). Poi, sul piano delle dinamiche di riproduzione del capitale, osservando un arresto degli investimenti lordi, un rallentamento della produttività (dovuta per altro all’aumento dell’intensità del lavoro), una stagnazione o decrescita dei profitti realizzati dal settore manifatturiero, insomma una riproduzione allargata del capitale che non è più tale ed una parallela metamorfosi del capitalismo in una direzione speculativa a cui si assiste dalla fine degli anni ‘7014-onde compensare appunto la bassa redditività del capitale investito negli altri settori -, il che renderebbe possibile un crollo manifesto dell’intero sistema a causa degli alti rapporti d’indebitamento che essa procura. Occorrerebbe poi, sul piano teorico, indagarne le cause15.
Risiede in questa incompatibilità tra quello che potremmo definire il processo d’evoluzione sociale della nostra specie ed il processo di valorizzazione del capitale descritto e spiegato da Marx nelle sue opere economiche il limite dell’attuale formazione sociale e dunque la possibilità del suo superamento verso un sistema sociale superiore, ossia nella distinzione che occorre fare tra la produzione di beni materiali e servizi di qualunque tipo atti a soddisfare e dunque riprodurre la nostra specie ai livelli che il progresso storico e tecnico consente e la forma storica capitalistica attualmente data per la gestione di questo processo16.
Dovremmo in sostanza interpretare l'attuale fase del capitalismo, iniziata grosso modo da trent'anni, come caratterizzata da un lento ed inevitabile declino di questo modo di produzione, che non si tratti cioè della fase di un ciclo destinato a ripetersi eternamente, come taluni argomentano, né si tratti di una fase qualitativamente nuova del capitalismo, come s'ama disquisire “a destra e a sinistra", onde augurarsi di salvaguardare le posizioni di privilegio proprie della sfera politica e intellettuale, in una sorta di sceneggiata tragicomica, dove i partecipanti fanno a gara tra chi meglio, nella maniera più giusta questa fase sarebbe in grado di rappresentare. Come le leggi biologiche pur essendo le stesse in un organismo non si ripetono allo stesso modo e durante la fase della vecchiaia conducono un organismo alla morte, così il capitalismo contemporaneo mostra dei chiarissimi segni del fatto che esso è incapace di riprodursi (accumulazione allargata) come in passato.
Attualmente, invece, il dibattito economico-sociale a sinistra, specie in Italia, pare essere ricolmo d’ideologismi dal chiaro significato apologetico di “quest’ultimo capitalismo” (globalizzazione, postfordismo o new economy, la solita accoppiata terzomondismo-imperialismo etc.), giacché, di pari passo alla propaganda delle solite “élite dominanti”, vengono forniti elementi descrittivi e/o esplicativi tanto falsi quanto comuni, dando forma alla percezione “umana troppo umana” che la precarietà, il disagio sociale e la miseria crescenti sul pianeta non siano dovuti ad una sistema economico che incontra mai come ora notevoli difficoltà a riprodursi, avviandosi in realtà solo verso uno stato segnatamente caotico (come la fenomenologia politica e militare internazionali di questi ultimi quindici anni – si vedano le recenti “guerre” con tanto di nuovi nemici fasulli - dovrebbe fare intendere17), ma ad un mutamento qualitativo in corso delle sue strutture, che si accompagnerebbe ad inevitabili perturbazioni rispetto agli equilibri socio-economici e politici tradizionali ma nella direzione di un nuovo regime economico (l’era della flessibilità!). Alcuni dei corollari alquanto idioti di questa prospettiva sono la “fine del lavoro”, “l’ozio creativo”, la rilevanza assunta dal cosiddetto “lavoro immateriale”, nell’insieme legati appunto all’idea dell’avvento di un nuovo paradigma tecnologico18; ma il corollario più rilevante, l’alfa e l’omega politico manifesto di questa prospettiva, è dato dalla pretesa che esso possa essere gestito in funzione “anticapitalistica” da una qualche solita nuova avanguardia rivoluzionaria, portatrice di un nuovo “progetto egemonico”, quello del “lavoro immateriale”. Tale weltanschauung ideologica deve tuttavia fare i conti col fatto che l’attuale fase del capitalismo è chiaramente caratterizzata da una performance negativa o decrescente di fondamentali indici economici (produttività, profitti industriali, investimenti, ossia da un declino dell’accumulazione), da eccessi finanziari e rapporti d’indebitamento senza precedenti (vieppiù per gli USA) - connessi certamente alla rilevanza assunta dal settore speculativo –, dal ritrarsi del capitalismo da aree consistenti del pianeta, di pari passo, come già osservato, all’inversione di trend che tradizionalmente hanno espresso un’evoluzione favorevole delle condizioni di vita dei lavoratori salariati dentro il sistema capitalistico ( peggiore composizione della distribuzione del reddito, crescita d’intensità e orario di lavoro, diminuzione dei salari reali, aumento della disoccupazione e della miseria, ossia della precarietà, ovunque) e, infine, dalla necessità da parte degli istituti d'analisi economica (specie in USA, Giappone e UK) di modificare i parametri di misurazione della performance economica onde farla risultare meno negativa di quanto sia.
Magari non nuoce citare il solito Marx, quando asseriva, in una lettera a Kugelmann, che "La stampa quotidiana e il telegrafo, che ne dissemina le invenzioni in un attimo attraverso tutto il globo terrestre, fabbricano più miti (e il bestione borghese ci crede e li diffonde) in un giorno, di quanto una volta se ne potevano costruire in un secolo”19.
Un’ideologia rivoluzionaria?
I “Vecchi” avevano osservato che “l’emancipazione della classe operaia dev’essere opera dei lavoratori stessi”20, che essa dovrebbe prendere la forma di una comunità dei “produttori associati” e che per giungere a ciò, qualunque cosa significhi, occorrono condizioni economiche particolari: ad esempio condizioni tecniche ed un sistema d’organizzazione produttiva talmente evoluti da rendere inutile un’organizzazione sociale che ha espresso sin’ora, con forme economiche e politiche date, la lotta per l’esistenza a cui gli uomini sono sottoposti come qualunque altra specie animale. Col senno di poi, potremmo aggiungere un’ulteriore condizione, quella di un sistema economico che seppur giunto probabilmente a tanto rende impossibile, data la performance di questi ultimi decenni, l’uso di queste potenzialità tecniche ed organizzative, ed anzi fa retrocedere la condizione della nostra specie, riproducendo artificialmente condizioni di lotta per l’esistenza in parte eliminate in un recente passato, ciò attraverso lo smantellamento delle strutture di welfare, dunque attraverso il peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori nei paesi capitalisticamente più progrediti, dal cui concorso pratico e teorico, secondo i “Vecchi”, doveva venire la soluzione a quell’emancipazione.
Contro quell’obiettivo si frapponevano alcune condizioni, una delle quali era da loro indicata nella “concorrenza inevitabile tra i lavoratori stessi”, che di fatto ne annulla il loro potere sociale, dato dal semplice crescere del loro numero. In tal senso i lavoratori salariati sono tutto, sia che compiano la loro emancipazione sia che ciò non avvenga, vieppiù quando si presume che le condizioni endogene siano date e sia che essi accentuino la concorrenza tra loro stessi, come oggidì, sia che ne riducano l’intensità, come quando, in presenza di bassi tassi di disoccupazione, attraverso l’unione sindacale, riuscirono ad imporre migliori condizioni di lavoro e di vita. Si può osservare en passant come in tutta questa faccenda non abbiano avuto parte alcuna le cosiddette rivoluzioni comuniste prodottesi nel corso del ‘900, così come le guerre di liberazione nazionali etichettate come antimperialiste, ossia tutto ciò che è accaduto nei paesi meno progrediti e rimasti tali dal punto di vista della crescita capitalistica. Osservava Marx che se il proletariato rovescia il solo dominio politico della borghesia, in condizioni in cui il modo di produzione capitalistico non può essere soppresso per ovvie ragioni, la sua vittoria sarà solo un momento al servizio della rivoluzione borghese stessa21, ossia consentirà e rifletterà uno sviluppo capitalistico o protocapitalistico in corso (ciò che sembra applicarsi a quanto accaduto in URSS, nei paesi dell’est o in Cina).
Non sarà un caso che proprio in queste aree si sia accentuata e abbia preso corpo un’ideologia politica che ha sottolineato all’inverosimile, ma conseguenzialmente, l’idea comune a tutte le sfere della divisione del lavoro intellettuale, quella cioè di avere una qualche direzione nello sviluppo dei processi storici, ossia, in questo caso, che il compiersi delle rivoluzioni proletarie sia tutt’uno col consegnare ai lavoratori una coscienza rivoluzionaria dall’esterno, un compito che verrebbe assunto dall’avanguardia comunista, il quale, a differenza di quelli propri di altre sezioni di quella divisione intellettuale del lavoro, consisterebbe nell’ “unificare … due mostri metafisici: ‘Un movimento operaio spontaneo, privo di ogni teoria’ e una coscienza socialista disincarnata”, sicché la crisi dell’umanità, come un corollario, sarebbe data da una “crisi della direzione” politica22. In questo senso, la teoria della coscienza portata dall’esterno ha avuto un valore del tutto autoreferenziale, non ha indicato l’esistenza di un processo effettivo, ha posseduto invece un valore consolatorio, di giustificazione storica delle cosiddette avanguardie, alla stessa stregua di come, ad esempio, l’incredibile teoria del big bang serve solo a giustificare il business di certa cosmologia. D’altronde se volessimo considerarla un’ipotesi comunque ragionevole, ossia trovare metodi e fatti per verificarla, tutta la storia trascorsa insegna piuttosto il contrario, dove pare essa abbia trovato una sua realizzazione. Se una teoria predice qualcosa e ciò che accade contraddice la predizione, la teoria è o falsa, anche se chiunque può imbastire ipotesi ad hoc in numero indefinito per salvarne la veridicità, o potrebbe possedere nel migliore dei casi una validità parziale.
Ora, se appare ragionevolmente corroborata l’ipotesi che con il capitalismo non si è data la fine della storia ( tutt’altro: esso si sta frantumando pezzo dopo pezzo a cominciare dalla sue aree più deboli - terzo mondo, paesi dell’est, America latina -, che si sono viste consegnare il nulla economico o un capitalismo di stampo gangsteristico), così la storia dei regimi cosiddetti comunisti ha semmai rappresentato un evidente freno al processo dell’emancipazione umana.
L’idea della coscienza portata dall’esterno non è altro che un aspetto specifico di un processo ideologico più generale a cui mette capo una società divisa in classi, soprattutto quella capitalistica, quello che meno impegnativamente ha espresso l’idea del “primato della politica”, delle politiche economiche sopra l’intero universo sociale, propagandata da tempo in ogni anfratto del party mass-mediologico sino alla nausea e proprio in quanto di continuo smentita dai fatti, e che non sembra essere null’altro che la veste ideologica di processi economico-sociali manifestamente ingovernabili. Il primato della politica (governi, funzionari statali, intellettuali, management, sistema dell’istruzione etc.) non è altro che un surrogato del “regno della necessità”, ciò che ne indica la valenza unicamente e puramente pratica. Esso non si riferisce a qualcosa di effettivo, semmai legittima gli apparati intellettuali tutti, giacché al governo sulle persone non s’è ancora per nulla sostituita l’amministrazione delle cose.
In tempi in cui occorre pure vergognarsi di continuare a protrarre un’esistenza calpestata di continuo da menzogne e fatti criminali spacciati come cose buone e giuste, se si sono finalmente da lungo tempo abbandonati i sogni di un’”emancipazione proveniente dall’alto”, occorre anche ricordare che dietro le contemporanee imposture politiche v’è solo la realtà di coloro che infine devono fare i conti con condizioni sociali insostenibili e all’apparenza inevitabili, di fronte alle quali vale la pena volgere il ricordo alla decenza di chi, abbandonata da tempo ogni speranza, almeno consigliava che "Il solo atteggiamento responsabile è quello di vietarsi l'abuso ideologico della propria esistenza, e - per il resto - condursi della vita privata, con la modestia e la mancanza di pretese a cui ci obbliga, da tempo, non più la buona educazione, ma la vergogna di possedere ancora, nell'inferno, l'aria per respirare23."
“La classe dei lavoratori e quella dei capitalisti non hanno nulla di comune ", si recita nel preambolo dell'I.W.W.
Una classe rivoluzionaria?
Nel primo libro del Capitale, l’unica opera economica di rilievo pubblicata da Marx ancora in vita, l’autore, lungi dal presentare il proletariato come una classe rivoluzionaria, espone la dinamica del processo d’accumulazione capitalistico, della quale il proletariato, la classe dei lavoratori produttori di plusvalore, è il cardine unico. Il suo punto di vista “concepisce lo sviluppo della formazione economica della società come processo di storia naturale”(p. 34)24, a tal punto che nei suoi scritti economici – a differenza di quelli politici – il termine “lotta di classe” compare assai raramente. Se si prende ad esempio il capitolo su “La legge generale dell’accumulazione capitalistica” si resta sorpresi dalla vulgata politica socialista e comunista prodottasi nel secolo appena trascorso, relativa al perenne dominio di classe della borghesia. Di là dal reale valore storico di questa “legge”, il termine usato da Marx serve proprio ad indicare una dinamica economica oggettiva, del tutto specifica al capitalismo, alla quale i lavoratori salariati in quanto tali sono soggetti, meglio ne sono l’espressione. Ricorrere alle citazioni procura generalmente quel piacevole torpore proprio di chi si vieta la fatica d’usare il cervello, tuttavia nel nostro caso è necessario farne alcune onde esporre quella che si ritiene essere la più profonda prospettiva marxiana intorno alla natura ed alla funzione dei lavoratori salariati. Nel capitolo citato, in cui Marx focalizza la sua attenzione su alcuni aspetti del rapporto capitale-lavoro, egli conclude alcune considerazioni intorno a ciò che determina il prezzo della forza-lavoro sostenendo che “Per usare un’espressione matematica: la grandezza dell’accumulazione è la variabile indipendente, la grandezza del salario quella dipendente, non viceversa”.*
Egli osserva ciò per sostenere che la determinazione del prezzo della forza-lavoro non è dovuta ad un fattore esterno (in questo caso demografico, da cui, al fine dell’analisi in corso, è necessario astrarre) all’andamento ciclico dell’accumulazione, come la diminuzione o l’aumento dell’incremento assoluto della forza-lavoro, ma al contrario è l’aumento o la diminuzione dell’accumulazione di capitale a rendere insufficiente od eccedente la forza-lavoro. Tuttavia, un movimento tipicamente ideologico rende quelli che sono “movimenti assoluti entro l’accumulazione del capitale … movimenti relativi entro la massa della forza-lavoro sfruttabile e quindi sembrano dovuti al movimento proprio di quest’ultima” (un eccellente esempio di “falsa coscienza”, tipica dei nostri tempi, col continuo ricorso, ad esempio, alla presunta eccessiva crescita demografica mondiale). “La legge della produzione capitalistica”, continua Marx, dice che “il rapporto fra capitale, accumulazione e saggio del salario” è “il rapporto tra il lavoro non retribuito trasformato in capitale e il lavoro addizionale richiesto” dal capitale addizionale. “Non si tratta dunque affatto di un rapporto fra due grandezze indipendenti fra di loro* … si tratta bensì in ultima istanza solo del rapporto fra il lavoro non retribuito e quello retribuito di una medesima popolazione operaia” (p. 679). Considerando la natura di questo rapporto, conclude in merito alla stessa legge “che la sua natura esclude ogni diminuzione del grado di sfruttamento del lavoro o ogni aumento” del suo prezzo “che siano tali da esporre ad un serio pericolo* la riproduzione del rapporto capitalistico” di produzione (p. 680). Il capitalismo, a differenza di modi di produzione precedenti, in questa descrizione appare omogeneo al suo interno e non sembra possa contemplare l’esistenza di una classe che abbia elementi o una dinamica strutturalmente estranei a questo modo di produzione, come fu, ad esempio, del rapporto tra signori, servi ed altre figure di contadini nel medioevo e prima ancora nel sistema schiavistico, dove si manifestavano autenticamente “interessi contrapposti”, che erano tali poiché una delle due classi sociali coinvolte non richiedeva affatto l’esistenza dell’altra. I ceti sociali coinvolti erano del tutto eterogenei tra loro. E’ come se il rapporto di produzione in questione operasse una semplice “sovrapposizione” d’elementi. In altre parole, le classi sociali implicate erano “tenute assieme” da una coercizione politica, non economica. Questa era la condizione che rendeva possibile rivolgimenti rivoluzionari (e di natura prevalentemente politica, ossia che accadevano quando le condizioni economiche delle classi e ceti sociali implicati erano già mutate).
Nella successiva trattazione della “sovrappopolazione relativa” risulta evidente come, invece, nella società capitalistica per Marx non operi alcun elemento estraneo al rapporto di produzione capitalistico, o meglio essa si caratterizzi per l’omogeneità degli elementi (classi sociali!) che la costituiscono. L’esercito industriale di riserva “appartiene al capitale in maniera … completa …indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione (p. 692)…I movimenti generali del salario sono regolati esclusivamente dall’espansione e dalla contrazione dell’esercito industriale di riserva, le quali corrispondono all’alternarsi dei periodi del ciclo industriale (p. 697) …La sovrappopolazione relativa è quindi lo sfondo sul quale si muove la legge della domanda e dell’offerta di lavoro”(p. 699), che è come dire che essa diviene la “legge della popolazione peculiare del modo di produzione capitalistico” (p. 691). Marx conclude significativamente: “La domanda di lavoro non è tutt’uno con l’aumento del capitale, l’offerta di lavoro non è tutt’uno con l’aumento della classe operaia, in modo che due potenze indipendenti fra loro* agiscano l’una sull’altra. Les dés sont pipés. Il capitale agisce contemporaneamente* da tutte e due le parti.” (p. 700). Questa è la “legge naturale della produzione capitalistica” (p. 701), che fa sì che la condizione d’esistenza della classe operaia, la sua propria natura, consista nella vendita della forza lavoro.
E ancora nel capitolo su “La cosiddetta accumulazione originaria” Marx assai lucidamente scrive: “Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L'organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato spezza ogni resistenza; la costante produzione di una sovrappopolazione relativa tiene la legge dell'offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull'operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l'operaio può rimanere affidato alle “leggi naturali della produzione”, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizione della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse. Altrimenti vanno le cose durante la genesi storica della produzione capitalistica. La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere dello Stato, e ne fa uso, per “regolare” il salario, cioè per costringerlo entro limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso a un grado normale di dipendenza. E’ questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria”25 (pp. 800-801).
In questi capitoli, come in tutto il primo libro del Capitale, l’autore, nel fornire un’esposizione considerata scientifica della formazione economico-sociale capitalistica, non individua né elementi endogeni (classi) che contrastano il processo d’accumulazione capitalistica26, né elementi esogeni (qui demografici). La presenza di forme di produzione non propriamente capitalistiche è poi del tutto irrilevante per questo modo di produzione, così come l’eventualità di catastrofi naturali impreviste non può evidentemente essere contemplata in una simile esposizione.
In virtù dunque delle su indicate “leggi naturali della produzione” e di ciò che Marx ha descritto come “feticismo delle merci” - in base a cui il valore di scambio, in una società dove la produzione di merci è completamente sviluppata, non si presenta come “una determinata maniera sociale di esprimere il lavoro applicato alle cose”, ma come la necessaria “parvenza che le determinazioni sociali del lavoro siano caratteri degli oggetti” (p. 114) -, un’ideologia ed una pratica rivoluzionarie sono pressoché impossibili, non invece una “cognizione scientifica” rivoluzionaria, rappresentata anzitutto dallo stesso Capitale di Marx. In questo senso nessuna “battaglia d’idee” sembra sia stata in grado di dissimulare la realtà del modo di produzione capitalistico come di un sistema sociale storicamente determinato, ciò che sembra dimostrato sia dai risultati delle cosiddette rivoluzioni comuniste del secolo scorso, dalle quali sono sorti sistemi economici nelle loro varianti di tipo capitalistico, sia dai risultati delle politiche socialdemocratiche che sono solo riuscite a mettere in campo, in realtà storiche favorevoli, un capitalismo dal “volto umano”. Le ideologie cosiddette rivoluzionarie non sono riuscite, da parte loro, ad andare di là di una propaganda antimperialista che ha dissimulato solo il nazionalismo del XX secolo.
Nessuna prassi rivoluzionaria è stata fino ad ora possibile nel capitalismo, sapremo che cosa essa potrà mai significare soltanto quando il corso storico del capitalismo verrà meno, ciò che evidentemente ancora non ha fatto capolino nella sua lunga storia.
A mo’ di pia conclusione
La considerazione svolta da Marx circa il salario, il lavoratore salariato come di una variabile dipendente presenta immediatamente un’altra faccia, oltre a quella da noi evidenziata. Proprio quanto osservato rende altrettanto evidente come i lavoratori salariati, in tutti gli ambiti del rapporto sociale capitalistico, siano gli unici depositari della capacità di gestire il sistema economico-sociale in proprio, ossia al di fuori dei rapporti di produzione capitalistici dentro e tra le unità produttive. Proprio perché il processo di produzione capitalistico presuppone l’esistenza della merce forza-lavoro, che altrimenti non sarebbe mai esistito, i lavoratori salariati rappresentano l’unica forza produttiva che storicamente potrebbe essere in grado di sostituire allo spettacolo ridicolo e da tempo criminale delle politiche economiche dei governi - che ha fatto in specie degli economisti, delle varie istituzioni economiche tanto glorificate e della “scienza economica” i principali e più efficaci, sul piano pratico, apologeti del deterioramento delle condizioni di vita sul pianeta - una gestione delle risorse e dei sistemi di produzione tale da superare lo stato di lotta per l’esistenza artificialmente riprodotto dal capitalismo sull’intero pianeta.
Appare evidente infatti come lo stato del capitalismo mondiale riproduca artificialmente quella che il “Vecchio” aveva definito “preistoria dell’umanità”, intendendo una condizione “paradossale” nella quale gli uomini subiscono i risultati e le acquisizioni della civilizzazione nei termini di uno sfruttamento sistematico degli uni sugli altri ossia di una sorta di seconda diffusa lotta per l’esistenza - dopo quella propriamente preistorica -, che interessa anzitutto le loro reciproche relazioni sociali piuttosto che il loro rapporto con ciò che la natura offre e sulle cui ragioni e cause non ci si vuole qui soffermare. La pena infinita che essa procura oggi, data dalle rilevabili condizioni di precarietà sociale crescente, è dovuta al fatto che essa non ha alcun analogo nella storia umana trascorsa prima della rivoluzione capitalistica, a causa del consistente progresso tecnico da questa determinato. Invece d’osservare una ricaduta del potenziale tecnico acquisito e di quello possibile nei termini di un crescente miglioramento della qualità della vita e di un superamento definitivo delle condizioni di povertà e fame nel mondo, assistiamo invece ad un arretramento anche rispetto a ciò che si considerava acquisito nelle società altamente industrializzate, nonché alla conseguente propaganda ideologica che vuol fare apparire tutto ciò come il risultato di una superiore “modernità”, la modernità tecnologica di un sistema economico che al meglio gestirebbe condizioni di scarsità che si ritengono insuperabili. Più prosaicamente, è l’incapacità attuale del sistema economico capitalistico di venire incontro pure ai bisogni elementari di sopravvivenza a cui, in misura assai più razionale, riusciva a far fronte qualunque comunità primitiva.
Perché i lavoratori salariati, anzitutto quelli occupati nei settori industriale e dei servizi, dovrebbero preoccuparsi di dare una svolta a tutto ciò? Si deve supporre per almeno due ragioni:
a) come osservato, per cercare di rispondere in proprio appunto, a partire dai luoghi di lavoro, al problema di far fronte all’impossibilità di mantenere livelli di reddito sotto i quali si riterrebbe impossibile andare, dati gli incomparabili standard di vita storicamente acquisiti nei paesi considerati altamente industrializzati;
b) a causa di una sempre più manifesta incapacità dei governi di approntare una qualunque serie di effettivi rimedi alla degradazione delle condizioni sociali. Per i paesi altamente industrializzati, le forme organizzative e politiche che vi si accompagnerebbero dovranno essere del tutto nuove, tanto superiori democraticamente a quelle attuali quanto il tentativo che esse rispecchieranno.
Si potrebbe obiettare che in buona parte del pianeta - America latina, Africa, Medio Oriente, India, Cina, sud-est asiatico, parte dell'ex Europa dell'est ed ex-URSS - le condizioni di vita della gran parte delle persone - lavoratori, pensionati e disoccupati-sottoccupati - sono da tempo al limite estremo della precarietà, dagli anni '80 in poi e più di quanto lo fossero prima, senza che nessun rimedio del genere ipotizzato si sia osservato, alla qual cosa si può rispondere che è pur vero che in queste zone del pianeta non si è mai osservato uno sviluppo capitalistico lontanamente comparabile a quello europeo, nord-americano o giapponese, né se ne sono potuti osservare i benefici in generale ed in termini di welfare state che si vanno man mano perdendo, per cui si potrebbe ragionevolmente supporre che proprio in queste aree potremmo assistere ad un tentativo alquanto variegato di metter mano in forme nuove ad uno stato di cose che si potrebbe ritenere irrinunciabile.
** Tratto da AA.VV, Un omaggio a Paul Mattick, Connessioni edizioni, 2012
_______________________________________________
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua