martedì 16 ottobre 2012

Bologna, la scuola pubblica, la suicidarietà della sinistra di Wu Ming

La scuola parificata

di Wu Ming 4 | Appunti intorno al referendum sul finanziamento delle scuole paritarie


1. PRENDERLA ALLA LARGA, OVVERO: PARADOSSI DI BASE
C’era una volta la Sinistra, che pensava cose di sinistra e che sulla propria carta d’identità avrebbe potuto scrivere all’incirca questo:
«In politica, “Sinistra”  descrive una prospettiva o posizione specifica che accetta o appoggia l’eguaglianza sociale. Solitamente, ciò comprende una preoccupazione per quanti, nella società, siano svantaggiati rispetto ad altri, e il presupposto che esistano disuguaglianze ingiustificate (che la destra invece ritiene naturali o giustificate dalle tradizioni) che andrebbero ridotte o abolite.» [dalla voce "Left-wing" di Wikipedia]
La Sinistra – in tutte le sue varie correnti e sfumature – ha l’idea d’eguaglianza tra i suoi pilastri filosofici e culturali. Per questo ha sempre ritenuto fondamentale conquistare e garantire l’istruzione pubblica universale. Perché tutti avessero a disposizione gli strumenti di conoscenza basilari, perché potessero ottenere le nozioni e le capacità per affrontare il mondo e guadagnare consapevolezza di sé.
Non solo. Nel corso della sua storia – dalla Rivoluzione Francese in avanti – la Sinistra è giunta a concepire una scuola pubblica, laica, inclusiva, che garantisse la convivenza tra individui differenti per attitudine, provenienza, religione, situazione economica – con eguali diritti e parità di trattamento. Insomma la scuola come palestra di convivenza civile tra diversi.
Questa idea è radicata nella visione del mondo di Sinistra, che qui potremmo molto genericamente definire “socialista”, e si distingue dall’idea dell’istruzione pubblica concepita invece dalla visione del mondo che definiremo altrettanto genericamente “liberale”. Quest’ultima prevede che lo Stato debba sì garantire l’istruzione pubblica a tutti, ma accettando a questo fine anche l’apporto dei privati cittadini, liberi di organizzare la propria scuola e di vederla inserita organicamente nel sistema scolastico nazionale, purché soddisfi gli standard educativi stabiliti dall’autorità pubblica. In altre parole: nel primo caso lo Stato si impegna a costruire un modello scolastico pubblico uguale per tutti e a esso riserva le risorse finanziarie, mentre lascia liberi i privati di costituire scuole con denaro privato; nel secondo caso lo Stato stabilisce dei parametri in base ai quali, oltre a finanziare la scuola pubblica, riconosce e finanzia anche le scuole private, cioè che corrispondono a orientamenti specifici (siano essi pedagogici o confessionali).
Storicamente parlando, il primo modello ha generalmente trovato maggiore corrispondenza nelle società europee continentali, mentre il secondo in quelle anglosassoni.
Capita però di trovarsi in presenza di sistemi ibridi, in cui i due modelli si intersecano. E’ il caso dell’Italia. L’ordinamento scolastico repubblicano è stato improntato al primo modello fino al 2000, anno in cui la Legge 62 ha riconosciuto le scuole paritarie private come parte del sistema scolastico nazionale.
Questa legge ha almeno due caratteristiche curiose. La prima è che è stata varata da un governo di centrosinistra, e in particolare da un ministro dell’istruzione esponente di un partito di sinistra. La seconda è il plateale paradosso contenuto al comma 3, nel quale si afferma che
«le scuole paritarie, svolgendo un servizio pubblico, accolgono chiunque, accettandone il progetto educativo, richieda di iscriversi, compresi gli alunni e gli studenti con handicap. Il progetto educativo indica l’eventuale ispirazione di carattere culturale e religioso. Non sono comunque obbligatorie per gli alunni le attività extra-curriculari che presuppongono o esigono l’adesione ad una determinata ideologia o confessione religiosa».
Il paradosso consiste nel fatto che se per chiedere l’accesso a una scuola paritaria bisogna accettarne “il progetto educativo”, cioè “l’eventuale ispirazione di carattere culturale e religioso”, non si capisce come sia possibile poi essere esonerati dalle “attività extra-curriculari” di tipo ideologico o confessionale. Come se un genitore iscrivesse i figli a una scuola di orientamento religioso per poi chiedere l’esonero dall’ora di religione.
Tale paradosso è il frutto dell’ibridazione, appunto, tra la concezione laica e pubblica dell’istruzione e la concezione “sussidiaria”, che in Italia fa riferimento alla dottrina sociale della Chiesa cattolica, piuttosto che al liberalismo anglosassone.
Ma occorre ampliare l’analisi del paradosso, perché la faccenda è più complessa di così. Il problema non riguarda solo la laicità o meno di una scuola che riceve fondi dallo Stato. Nella scuola pubblica infatti è già possibile avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica, a dimostrazione del fatto che lo Stato italiano, per motivi storici e culturali, considera importante, ancorché non imprescindibile, dare l’opportunità ad alunni e studenti di conoscere i fondamenti di quella particolare confessione religiosa.
E’ evidente quindi che chi sceglie una scuola paritaria di orientamento cattolico è invece interessato a una formazione più strettamente confessionale. Allo stesso modo qualcun altro potrebbe essere interessato a un altro tipo di formazione religiosa; o a un modello pedagogico diverso da quello offerto nella scuola pubblica, come ad esempio quello steineriano, o magari quello “personalizzato”, che prevede classi divise per genere: maschi con maschi, femmine con femmine. O ancora, un genitore potrebbe volere che i figli vengano cresciuti in base a determinate idee, valori etico-culturali che non vede rispecchiati nella scuola pubblica.
Da un lato dunque si lavora all’edificazione di una scuola pubblica pluralista, aperta a tutti, e si continua ad affermare come valore positivo la capacità di condividere spazi e momenti di vita, di apprendimento e confronto, tra individui diversi per formazione e provenienza sociale, senza che debbano necessariamente condividere la stessa “ispirazione di carattere culturale o religioso”; dall’altro lato si includono nel sistema pubblico istituti che non applicano il medesimo principio. Si potrebbe dire che mentre la scuola pubblica va nella direzione dell’interculturalismo, le scuole private paritarie realizzano il multiculturalismo. Il condizionale però è d’obbligo, perché in realtà, considerando che la stragrande maggioranza delle scuole paritarie in Italia è d’ispirazione cattolica, ciò che si realizza è l’assegnamento di una fetta sempre più grossa dell’istruzione pubblica (attualmente il 26%) alla scuola monoconfessionale.
Va detto che l’opzione privata paritaria si basa su un’idea molto accattivante: quella che ogni famiglia possa avere un servizio scolastico pubblico tarato sulle proprie esigenze. Ciò che si vorrebbe avere a disposizione è una scuola che alla differenza prediliga l’identità (etica, culturale, religiosa, di censo). E questa garanzia dovrebbe fornirla lo Stato attraverso i finanziamenti e l’integrazione di tali scuole nel sistema d’istruzione pubblica. L’intenzione è quella di mettere i figli a contatto non già con l’alterità e la molteplicità, ma con un contesto che confermi e rafforzi senza dubbio il bagaglio culturale della famiglia. Invece di uno spazio aperto, laico, diversificato, si vuole uno spazio delimitato e sicuro. Uno spazio privato non già accanto, bensì all’interno del sistema pubblico.
Integrando questa pretesa nel sistema scolastico pubblico, attraverso la sussidiarietà, lo Stato italiano disfa con una mano quello che costruisce con l’altra.
Ecco il paradosso vero – ed enorme – dell’attuale sistema ibrido.
Il paradosso esplode quando, complici i tagli statali alla spesa per l’istruzione pubblica e il “patto di stabilità”, capita ad esempio che la scuola dell’infanzia non sia più garantita a tutti. In quel caso, quando i bambini e le bambine che avrebbero il diritto di frequentare la scuola pubblica restano fuori, qualcuno inizia a chiedersi perché in un frangente del genere si debba continuare a finanziare allo stesso modo la scuola privata paritaria, mentre si riducono i fondi a quella pubblica, e non si debba invece fare esattamente il contrario.
Si pone, com’è evidente, un problema di scelte politiche, che a loro volta chiamano in causa visioni diverse della scuola, della formazione, e forse anche del vivere associato.
E’ quello che sta succedendo a Bologna, la città in cui viviamo. L’episodio è tanto più interessante perché accade qui, in un luogo dove l’istruzione pubblica ha una fortissima tradizione.

2. BONONIA FELIX
«Cominciò dunque una battaglia che nessuno si aspettava; venne chiamata Battaglia dei Cinque Eserciti, e fu tremenda. Da un lato, Orchi e Lupi Selvaggi; dall’altro, Elfi, Uomini e Nani.»
Lo Hobbit
, 1937
Dopo la mannaia dei tagli alla scuola pubblica calata dagli ultimi governi, il sistema delle scuole comunali e statali in città inizia a scricchiolare forte. Molti plessi scolastici sono costretti ormai a richiedere in maniera organica un obolo volontario alle famiglie per coprire alcune spese basilari; il personale scolastico scarseggia; gli incastri e le turnazioni tra i docenti per garantire la copertura dell’orario sono sempre più acrobatici; le rette di nidi e materne aumentano.
Si può dire che in una città abituata a uno standard alto nei servizi e nell’istruzione per l’infanzia, il vaso è traboccato quando, un mese fa, alla ripresa dell’anno scolastico, quattrocento bambini sono rimasti senza posto alla scuola materna. Taglia e taglia, finisce che qualcuno resta fuori, e la libertà di scelta di un genitore si riduce a tenere i figli a casa oppure iscriverli a una scuola privata paritaria aderendo al “progetto educativo” che passa il convento (è il caso di dirlo), pagando pure di più.
Non ci voleva un genio per capire che si sarebbe arrivati a questo. Bastava leggere le tendenze demografiche, migratorie, economiche in atto da anni.
Non c’è da meravigliarsi dunque se a fronte di tutto questo, nel 2011 è nato un comitato di cittadini che chiede di potersi pronunciare su un particolare aspetto delle politiche dell’amministrazione: i finanziamenti alle scuole private paritarie.
Ai tagli alla scuola pubblica calati direttamente o indirettamente dall’alto non è corrisposta una diminuzione della quota di finanziamento comunale alle scuole private, che anzi nel corso degli anni è aumentata. Attualmente ammonta a poco più di un milione di euro annui.
Il comitato di cittadini in questione, che si chiama Comitato Articolo 33, ritiene che i bolognesi dovrebbero esprimersi su questo con un referendum consultivo.
In particolare, i promotori del referendum credono che se i soldi scarseggiano, sia più utile – oltre che più conforme all’articolo 33 della Costituzione, appunto -  investirli tutti nella salvaguardia degli standard della scuola pubblica, piuttosto che in quella privata paritaria.
Quando c’era ancora la Sinistra, un’argomentazione del genere non avrebbe destato alcuna sensazione, anzi, sarebbe stata considerata l’ABC della grammatica politica.
Oggi non è così. Cosa resti di quella visione di sinistra, al di fuori dei libri di storia e delle memorie di chi l’ha conosciuta, è difficile dirlo se ci si guarda intorno. Un trentennio di offensiva liberista e neoconservatrice ha scavato solchi profondi nella psiche collettiva, ha plasmato menti, atrofizzato cervelli, accomodato coscienze, saldato interessi. Al punto che forse proprio la battaglia in difesa dell’istruzione pubblica potrebbe diventare la cartina al tornasole per capire chi ancora riesce a fare riferimento a una cultura e a una visione del mondo di sinistra e chi invece si è perso nei meandri del disastro che abbiamo alle spalle e che ha prodotto il baratro su cui ci troviamo.
E’ interessante notare quale confine la campagna referendaria abbia tracciato tra (e dentro) le forze politiche cittadine.
Tra coloro che si dichiarano fermamente contrari al referendum si contano:
 
- l’amministrazione comunale e in primis il Sindaco (il quale l’anno scorso, al presidio contro i tagli alla scuola pubblica, affermava che prima di ogni decisione in merito di finanziamenti ci sarebbero state “modalità di partecipazione” e oggi attacca i referendari accusandoli di essere demagogici);
- il principale partito di maggioranza (PD);
- i partiti di centrodestra (che hanno promosso un comitato anti-referendum);
- la Curia e le associazioni cattoliche;
- la FISM (Federazione Italiana Scuole Materne… Cattoliche);
- i vertici della CGIL, la CISL, la UIL;
- entrambi gli assessori di SEL (una dei quali, ex-candidata di SEL alle primarie del centrosinistra cittadino, attivista cattolica, l’anno scorso appoggiò il referendum, per poi fare dietrofront giusto l’estate scorsa)

Tra i sostenitori del referendum troviamo invece:
- i partiti minori della maggioranza (i consiglieri di SEL, IdV);
- la Federazione della Sinistra;
- il Movimento 5 Stelle;
- il PCdL;
- la FLC-CGIL (che è tra i promotori);
- la FIOM-CGIL (idem);
- l’USB;
- i Cobas;
- i CUB;
- la Chiesa Metodista;
- l’UAAR (Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti);
- svariate associazioni politiche o legate al mondo scolastico (genitori, insegnanti, lavoratori precari del settore).

Da una parte troviamo istituzioni, Chiesa, parrocchie, forze politiche di centrodestra, apparati di partito e sindacali; dall’altra cittadini autorganizzati (di varia provenienza, tra cui anche esponenti del PD), lavoratori, partiti e sindacati minori, o singole categorie sindacali.
Cartina al tornasole, dicevamo.
E aggiungiamo che la cittadinanza bolognese sta rispondendo positivamente alla chiamata: in poche settimane è già stata raccolta più della metà delle firme necessarie per indire il referendum.
E’ chiaro che per qualcuno il referendum è come fumo negli occhi, almeno quanto è chiaro che questa vertenza si combatterà a sinistra. Ovvero tra le macerie psichiche e politiche della Sinistra che fu.

Che ci sia o meno sproporzione di forze
3. FUOCO DI FILA
«Ma Osgiliath si trovava fra di loro, e fu abbandonata, mentre le ombre ne occupavano le rovine.»
Il Signore degli Anelli
, 1954
A conti fatti è interessante passare in rassegna le argomentazioni con le quali i detrattori “di sinistra” del referendum attaccano i suoi promotori.
La prima accusa al referendum è che sarebbe “ideologico” e il quesito “fuorviante”; di conseguenza non promuoverebbe una “vera democrazia”, bensì “ginnastica ideologica” [Assessore alla Scuola del Comune di Bologna].
La sintassi del quesito in effetti non brilla per chiarezza (come del resto in quasi tutti i quesiti referendari):
«Quale fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali, che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con la scuola d’infanzia paritaria a gestione privata, ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia?
a) utilizzarle per le scuole comunali e statali
b) utilizzarle per le scuole paritarie private.»
La formula è involuta, ma in definitiva ci viene chiesto di esprimerci su quale sia la “più idonea” tra due opzioni rispetto al diritto all’istruzione dei bambini: finanziare la scuola pubblica o quella privata paritaria.
E’ chiaro che se per qualcuno credere nel primato della scuola pubblica è una posizione ideologica allora sì, il referendum e il quesito lo sono, almeno quanto lo è la Costituzione della Repubblica Italiana, che all’articolo 33 recita:
«…Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato.»
Se per certi amministratori ispirarsi ai principi costituzionali è essere “ideologici”, e chiamare in causa la cittadinanza per dare un parere d’indirizzo sulle scelte dell’amministrazione non è vera democrazia, questo la dice lunga su quale idea di politica e di democrazia costoro condividano.
La seconda accusa mossa ai promotori è che il referendum costerà cinquecentomila euro all’erario comunale. Come a dire che con i tempi che corrono questo sì sarebbe un vero spreco di risorse. Da che se ne deduce che per qualcuno è meglio dare ogni anno due volte quella cifra agli istituti privati piuttosto che investirla per fare esprimere la cittadinanza su un tema di interesse generale. Forse è questo che si intende per “vera democrazia”.
Ad ogni modo il Comitato Articolo 33 ha suggerito di accorpare il referendum alle prossime elezioni politiche per abbattere i costi (cosa che si potrebbe fare con una piccola modifica al regolamento comunale). Non resta che auspicarsi che i “veri democratici” abbiano il coraggio delle proprie idee davanti agli elettori.
Tra i detrattori del referendum c’è poi chi (il segretario del PD bolognese) ricorda che il milione di euro dato alle scuole convenzionate private equivale soltanto al 3% del bilancio che il Comune spende per la scuola e che quella cifra consente a 1.736 bambini di avere un posto in una scuola privata convenzionata, alleviando i costi all’erario pubblico, che altrimenti dovrebbe spendere molti più soldi. Il discorso è chiaro: le scuole paritarie – per lo più confessionali – vanno benissimo perché ci tolgono i bambini dalle spese. Questo è l’unico argomento che conta. L’idea di garantire a tutti la scuola materna pubblica non è nemmeno più una priorità politica. Dopodiché è interessante la metafora utilizzata: chiedere ai bolognesi se preferiscono le scuole materne pubbliche o quelle private paritarie sarebbe «come chiedere a un bambino se vuole più bene alla mamma o a uno zio lontano».
Indicativo il paragone tra la cittadinanza e un infante, incapace di riflessione e intenzione politica. Chi discute invece nel merito delle cose ha ben presente che il vero nodo non è economico (va detto che non sarebbe certo il taglio dei finanziamenti comunali a mandare in rovina le scuole paritarie, le quali appunto hanno altre fonti di finanziamento: private, regionali e statali). Questo è emerso chiaramente durante il dibattito pubblico svoltosi il 12 ottobre scorso all’Hotel Europa tra promotori e contrari al referendum. Una cosa su cui entrambe le parti si sono trovate subito d’accordo è che in questa faccenda i soldi non sono la questione più importante e che il nodo vero è la scelta per il modello di scuola, che sta a monte dei finanziamenti.
Detto questo bisognerebbe anche chiedersi chi sia lo “zio lontano”.
Ecco qua un ritratto con un po’ di biografia:
Ci si potrebbe chiedere ad esempio:
quanti di quei 1.736 bambini sono stranieri?
L’1,8%, contro il 17,3% nella scuola pubblica. E’ evidente che moltissimi stranieri emigrati a Bologna non possono permettersi le rette della scuola privata paritaria, oltre probabilmente a non condividerne l’impostazione confessionale.
Quanti di quei bambini sono diversamente abili?
Lo 0,7%, contro il 2,1% nella scuola pubblica. E’ chiaro che una scuola paritaria deve accogliere i bambini “certificati”, come stabilisce la legge del 2000, ma se non ha le strutture adeguate o le risorse sufficienti, non ne potrà accogliere che una percentuale minima né si potrà obbligarla ad accoglierne di più.
Quanti tra quei bambini non sono cattolici?
Manca il dato, ma il presentimento è che sia una percentuale possibilmente ancora più bassa delle altre due.
Insomma non è poi così difficile capire a chi volere più bene in un’ottica di salvaguardia del pluralismo e del diritto, anche senza bisogno dei rimbrotti degli zii vicini un po’ suonati…
… e anche delle zie. Secondo una consigliera regionale dello stesso partito di maggioranza il referendum sbaglia bersaglio: non bisognerebbe chiedere al virtuosissimo Comune di Bologna di cambiare indirizzo rispetto al sistema scolastico integrato pubblico-privato, bensì domandare allo Stato centrale di farsi carico dell’aumento delle sezioni scolastiche.
Risulta difficile capire in base a quale principio di schizofrenia politica chiedere una certa linea di condotta allo Stato sarebbe cosa buona e giusta, mentre chiederla al Comune no. Dovremmo cioè protestare contro il governo centrale perché taglia i fondi alle scuole pubbliche e agevola le convenzioni con quelle private, mentre lodiamo il Comune che dà vita a «un virtuoso esempio di sussidiarietà”, applicando alacremente la legge stessa. Si chiede un maggiore intervento statale mentre si porta a modello la sussidiarietà realizzata dal Comune! Siamo al trionfo del biconcettualismo.
Ma ai referendari viene imputato addirittura di aggravare la situazione della scuola. L’ultima accusa – lanciata dal Segretario della Camera del Lavoro – è che il referendum non risolve il problema dei quattrocento bambini rimasti fuori dalle liste scolastiche, «perché se avrà effetti saranno su tempi medio-lunghi, mentre l’emergenza è ora». Per cui «l’attenzione va concentrata su questo problema e non su polemiche per un appuntamento ordinario».
Siamo all’assurdo. Accusare un referendum consultivo su un aspetto della politica amministrativa di non risolvere l’emergenza del momento è un nonsenso logico. Mentre è vero che volere affrontare seriamente l’emergenza potrebbe essere lo stimolo per iniziare a porsi il problema in una nuova prospettiva politica, strutturalmente diversa. Del resto, garantire a quei quattrocento bambini l’accesso alla scuola pubblica e laica è comunque compito dell’amministrazione e dello Stato. Tant’è che il Comune sta cercando di arrabattare una soluzione parziale per gli esclusi, aprendo sezioni supplementari a mezza giornata. Dovrebbe essere proprio un frangente come questo a far riflettere sull’opportunità, in prospettiva, di tenersi il milione di euro annuo stanziato per le scuole convenzionate, lasciando che queste reperiscano i fondi altrove, visto che ne hanno la possibilità.

4. ODONTOIATRIA
«You one ugly motherfucker!»
Predator
, 1987
Eppure, a forza di battere là dove il dente duole, la lingua finisce per dire la verità. Il coordinatore di giunta (PD) afferma con chiarezza in Consiglio Comunale che «le scuole paritarie sono una realtà del nostro sistema dal 1995». Ribadisce l’intenzione della Giunta di proseguire il percorso intrapreso, nella convinzione che sia «il modo migliore per potere affrontare le problematiche che riguardano le famiglie bolognesi».
Eccoci al nocciolo della questione. Si parla di “sistema”. Dunque la sussidiarietà è ormai accettata come sistemica, perché è considerata la soluzione “migliore”. E non da ieri. Se la legge dello Stato che parifica le scuole private è del 2000, ciò significa che l’amministrazione comunale bolognese ha agito con almeno cinque anni d’anticipo rispetto alla legge nazionale, quindi sulla base di un indirizzo politico-economico autonomo e condiviso. En passant ricorderemo che, in quei ruggenti anni Novanta, a Bologna la stessa amministrazione privatizzò le farmacie comunali, rinunciando a un incasso di due miliardi di lire all’anno. Era ben prima che finissero i soldi, prima della crisi e dei tagli. Alla fine, gira e rigira, è sempre alla politica che si torna. E alle scelte d’indirizzo.
Dice bene una fuoriuscita dalla compagine del primo partito di maggioranza:
«dietro l’affermazione che “non ci sono i soldi e bisogna far quadrare i conti” appare in controluce, ma chiarissima, una vera e propria visione strategica di questa Amministrazione, per la quale pubblico e privato appaiono come identici, dotati di medesima natura e principi fondanti. Usando la pesantezza della situazione economica, il Comune sta accelerando sulle scelte di privatizzazione e quindi sulle prospettive che riguardano il futuro del sistema di welfare cittadino.»
Ecco perché i piccoli timonieri bolognesi sono così scocciati e rabbiosi contro questo referendum. Mica perché pensano che dovranno prenderne sul serio i risultati – hanno già detto che per loro non è “vera democrazia” -, ma perché se passasse aprirebbe contraddizioni, farebbe cadere in contraddizione, farebbe cadere certi paraventi lessicali e retorici. Già adesso ci fa capire che i trent’anni che abbiamo alle spalle non sono trascorsi invano. Chi si è rassegnato è diventato organico a un certo stato delle cose, a una certa tendenza, e messo alle strette lo rivendica. Qualcuno si azzarda ancora a chiamarlo “riformismo”, ma è soltanto un modo ipocrita di mascherare la resa psichica e politica all’avversario.
Troppo tardi per cambiare rotta
«Troppo tardi per cambiare rotta.»

Così torniamo all’affermazione iniziale: il caso bolognese diventa una cartina al tornasole, e scoperchia la realtà che sta sotto le belle frasi. La realtà è che la tendenza all’equiparazione di pubblico e privato, in atto a Bologna da metà anni Novanta, è in buona sostanza condivisa, al di là della mera contingenza economica. Ma se la tendenza è inarrestabile, allora quel milione di euro è destinato ad aumentare. La sussidiarietà, vale a dire la penetrazione del privato nel pubblico, avanzerà lentamente e inesorabilmente. E se la risposta a chi dice: «Fermiamoci, cambiamo rotta» è «Non si può», allora significa che la politica è già morta, che la quota d’interesse privato nella mentalità di chi guida la nave è già oltre il 50% – con buona pace del segretario del PD. Ma soprattutto viene da chiedersi: se la rotta è una sola, e dunque il pilota è automatico, cosa ci stanno a fare in plancia i timonieri? A farci firmare una delega in bianco per cinque anni e a darci degli “ideologici” se chiediamo di pronunciarci su come andrebbero spesi i soldi delle nostre tasse?
Questo ceto politico dovrebbe iniziare a rendersi conto che tra la sussidiarietà e la suicidarietà il passo è più breve di quello che può sembrare.
C’era una volta la Sinistra, dicevamo…

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