Che cosa è un’opera buffa? L’opera buffa è un
genere teatrale che si diffuse prima in Italia e poi nel resto d’Europa a
partire dal XVIII secolo, avendo come scopo principale quello di presentare
storie semplici, commedie, personaggi di estrazione popolare, problemi più
quotidiani e comuni in cui si poteva riconoscere la maggioranza del pubblico
pagante e non solo i nobili e i monarchi. Come ho già detto altre volte l’Unione Europea, e l’eurozona in particolare, è diventata
da tempo, da quando tutti i nodi sono venuti al pettine, un grande immenso palcoscenico a cielo aperto
in cui a cadenza pressoché giornaliera si recita a soggetto. Un circo itinerante che da Bruxelles,
Berlino, Francoforte, Parigi, Madrid, Roma, arriva fino ad Atene per poi
ricominciare il giro, con gli attori più
esilaranti e comici che impresario poteva mai sperare di ingaggiare: abbiamo
Merkel la cattivona, Hollande l’ipocrita, Monti il viscido, Rajoy il furbo, Samaras il
codardo, Draghi il subdolo. Se non
fosse per i risvolti drammatici di
tutta la faccenda, che coinvolge direttamente noi spettatori paganti sia in termini economici che umani, ci sarebbe
di che sbellicarsi dalle risate ad ogni ora, ad ogni dichiarazione dei buffoni all’opera. Anche la morte di un uomo greco di 66 anni,
deceduto durante le sommosse ad Atene e gli scontri con la polizia dei giorni
scorsi, diventa subito un fatto
grottesco ed inverosimile: le persone muoiono quasi sempre di infarto,
perché essendo anziane e cagionevoli vengono travolte e spaventate da una folla
di giovani inferociti e incappucciati. Mentre la circostanza che queste persone
possano essere state spintonate, percosse, manganellate dalla polizia prima di cadere esanimi sul campo, non
viene mai presa in considerazione. No, questo
non è previsto dal copione.
Nel primo atto dell’interminabile commedia europea avevamo descritto lo
scricchiolio del ramo sul quale è seduta la Germania, che i suoi governanti si stanno impegnando a segare con
una solerzia che ha dell’incredibile e del paradossale: ogni imposizione di austerità e rigore fiscale
in più nei paesi della periferia, significa una proporzionale quantità di merci
che la Germania non esporta più in quei paesi, affossando di fatto la sua
stessa economia. Tuttavia siccome i tedeschi non capiscono questa semplice relazione contabile e nella
prossima primavera ci saranno le elezioni,
la cancelliera Merkel per tenersi buono l’elettorato deve mostrare buon viso a cattivo gioco, facendo la voce grossa al Bundestag contro i paesi
spendaccioni e poi cercando accordi sottobanco con gli altri buffoni suoi pari per limitare i danni
e tenere in piedi baracca e burattini. Nel secondo atto invece avevamo assistito alla miserevole disfatta della Spagna, che dopo Irlanda, Portogallo, Grecia era puntualmente caduta come un
birillo, mostrando al mondo intero in tutta la sua grandezza il fallimento del suo sistema bancario e
l’insostenibile leggerezza dei conti
pubblici, che un tempo erano tra i più virtuosi della terra e oggi sono
stati sventrati appunto per fornire salvataggi
di emergenza alle banche. Nel terzo
atto che raccontiamo oggi la trama è molto più semplice e dozzinale, perché
si articola tutta intorno ad un motto di spirito abbastanza noto ai mercanti: “Prima vedere cammello, poi pagare moneta!”.
Con un colpo di scena finale ad effetto,
in cui si scoprirà chi e cosa è esattamente il “cammello” in questione.
Come tutte le commedie
dell’arte che si rispettano, anche il terzo atto della nostra opera buffa si
apre con un antefatto a sorpresa. Mercoledì
scorso, il giorno prima del vertice di
Bruxelles, il presidente francese Hollande,
l’ultimo buffone sceso nell’arena,
colui che doveva portare la crescita
in Europa (dei capelli forse, non certo dell’economia) e combattere aspramente
contro il Fiscal Compact (stiamo
ancora aspettando), rilascia un’intervista a giornali unificati a sei delle
maggiori testate europee, tra cui l’italiana La Stampa, in cui dichiara senza troppe reticenze ciò che vuole
ottenere l’indomani: l’unione bancaria
deve venire prima dell’unione fiscale. Ben detto, così si fa, ma cosa significa esattamente? Per capirlo
dobbiamo chiarirci subito sui termini: quando i buffoni parlano di “unione” non si riferiscono mai al
concetto di unità, solidarietà, sussidiarietà, assistenza reciproca che
potremmo intendere noi, qualcosa del tipo “l’unione
fa la forza” o “tutti per uno, uno
per tutti” dei Tre Moschettieri di Dumas. Per i buffoni la parola unione è
sinonimo di “accentramento unificato del sistema di vigilanza, controllo e
repressione”, e nello specifico l’unione
bancaria auspicata da Hollande doveva essere propedeutica ad un ben determinato
scopo: attivare il Meccanismo Europeo di Stabilità MES
per ricapitalizzare direttamente le banche più disastrate (spagnole in
particolare), senza passare per i bilanci dei vari stati, che già sono
belli
che cotti. In pratica, l’accordo di massima del MES prevede che prima di
ricorrere al fondo e per garantire una maggiore uniformità e regolarità
dei
salvataggi bancari, la BCE diventi
l’ente unico di vigilanza, spodestando da questo ruolo le banche centrali
nazionali (per l’Italia, Banca d’Italia). In effetti le norme di vigilanza
bancaria sono già uniche a livello mondiale (Accordi di Basilea) e in
Europa riadattate principalmente dall’EBA
(European Banking Authority), ma è
altrettanto vero che poi ogni banca centrale nazionale adotta metodi più o meno
stringenti di controllo secondo propri criteri
di affiliazione e contiguità con le maggiori banche private locali.
Ma perché Hollande ha tutta
questa fretta di attivare il MES per il
salvataggio diretto delle banche? Cosa c’entra questo con la ripresa economica in Europa? Niente.
Assolutamente niente. Essendo un semplice menestrello
di corte, portato di peso all’Eliseo per difendere interessi distanti anni
luce da quelli dei cittadini, Hollande sta solamente suonando il suo mandolino:
le banche francesi sono impazienti di
riscuotere i crediti sospesi concessi a suo tempo alle banche spagnole,
chiudendo le posizioni ancora aperte con i soldi del MES e rientrando
dall’esposizione prima che sia troppo tardi. Non è una novità insomma, perché
fin dall’inizio della crisi finanziaria
dell’eurozona, l’unico vero obiettivo dei politicanti e dei tecnocrati di
turno è stato sempre e solo quello di assicurare un celere e puntuale rimborso dei crediti pubblici o privati erogati dai
grandi gruppi bancari coinvolti, di qualunque nazionalità o provenienza
essi fossero. E Hollande, così come gli altri buffoni di corte, non fa certo
eccezione a questa trama generale, che con diversi gradi di sfacciataggine e
platealità si ripete ormai ininterrottamente da quattro anni. Ma da dove vengono i soldi del MES? Non
certo dal cielo, ma dalle tasche dei
cittadini europei, e la quota parte a carico dei cittadini francesi ammonta a ben €142 miliardi complessivi. Tenete bene a mente questa cifra, che ci
servirà per fare un confronto con la ridicola
proposta per la crescita economica fatta dall’ipocrita Hollande.
Ricapitolando: l’intenzione di Hollande è quella di utilizzare i soldi dei cittadini
francesi ed europei per salvare le banche spagnole, in modo che queste ultime
possano rimborsare le banche francesi, che sono gli unici veri referenti a
cui deve dar conto e ragione il buffone dell’Eliseo. Indirettamente si tratta
quindi di un salvataggio pubblico delle
banche francesi, che passa attraverso le banche spagnole.
Per dirla in altre parole, la
parte interpretata da Hollande nella scenetta
dei mercanti, perché sempre di questo stiamo parlando, è quella di colui
che chiede di “pagare moneta”, subito, ora, cash, mentre dall’altra parte, la sua presunta rivale, la cattiva
Merkel, si ostina a ripetere che prima di pagare moneta, attraverso il MES,
bisogna “vedere cammello”. A quale “cammello”
si riferisce la cancelliera? All’unione
fiscale, che ripetiamo nel linguaggio degli eurocrati non significa un governo federale di trasferimento
democraticamente eletto dai cittadini, che si occupi di stabilire a livello
centrale le singole quote di spesa e tassazione per riallineare eventuali
squilibri fra i paesi della stessa unione, ma la possibilità di nominare un super-commissario
europeo che abbia il compito di
verificare, validare, modificare i bilanci pubblici dei vari stati. Un’idea
ovviamente in linea con la visione
rigorista e austera di repressione della Germania, che priverebbe i governi
della periferia delle residue sovranità
politiche ed economiche rimaste: in pratica, nessuna istituzione in Spagna
o in Italia, né il governo né il parlamento, potrebbe più decidere quante tasse
fare pagare ai cittadini e quanta spesa pubblica utilizzare per fini sociali e
assistenziali, senza l’approvazione del super-commissario, che lavorerebbe a stretto
contatto con i funzionari della trojka
UE, BCE, FMI. Una proposta bislacca,
fin troppo bislacca per non essere in realtà una semplice provocazione, che serve evidentemente ad alzare la posta per
riuscire ad ottenere altro. Ma cosa vuole in realtà la Merkel?
Allungare i tempi di introduzione dell’unione bancaria di sorveglianza, per
salvaguardare i soliti interessi delle banche tedesche, perché la Merkel non è meno mercatista e manovrata del
collega Hollande, anzi. Semplicemente la cancelliera ha altri interessi nazionali da difendere e
tutelare, prima delle prossime elezioni politiche di primavera, in cui sa
di rischiare molto perché incalzata dai socialdemocratici.
Le banche tedesche sistemiche di grandi dimensioni, per intenderci Deutsche
Bank, Commezbank, Allianz, hanno già ridotto la loro
esposizione con le banche spagnole e il credito nei confronti della Spagna è confinato
più che altro ai €177 miliardi di titoli
di stato ancora in portafoglio. Quindi più che l’attivazione del MES per la
ricapitalizzazione delle banche spagnole, per loro sarebbe interessante rendere
operativa l’altra arma del MES, che è l’acquisto
dei titoli di stato sul mercato secondario con il supporto tecnico della
BCE e del suo programma OMT (Outright Monetary Transactions). La
sorveglianza diretta e unificata della BCE è inoltre malvista da un’altra categoria molto potente in
Germania che è quella delle banche
regionali (Landesbanken) e delle casse di risparmio (Sparkasse), che intrattengono relazioni molto strette e opache con i
politici locali e nazionali riguardo soprattutto i progetti di
finanziamento delle opere pubbliche (e non solo visto che in Germania
gestiscono il 40% dei finanziamenti alle imprese e il 50% dei crediti privati),
sotto il complice e tacito assenso della banca centrale tedesca Bundesbank. Insomma i politici e i
piccoli banchieri tedeschi se ne fregano altamente delle norme di vigilanza
europee e fanno quello che vogliono con i loro istituti di credito, quindi non
gradirebbero affatto l’intromissione della BCE, che anche solo di facciata e
per evitare le accuse di disparità di trattamento dovrebbe essere più severa e
imparziale nei loro confronti.
Quale
compromesso è stato trovato fra i due contendenti Merkel e Hollande? Va
bene l’unione bancaria o sarebbe meglio chiamarla la vigilanza centralizzata
della BCE, ma con un programma di
inclusione graduale e progressivo: a partire dal gennaio 2013 si partirà con il raggruppamento delle banche
sistemiche più importanti, mentre da gennaio
2014 inizierà il lento adeguamento di tutte le rimanenti 6000 banche
europee coinvolte, tra cui le stesse piccole e medie banche tedesche. Dopo
questa finta schermaglia fra
Hollande e Merkel, che piace tanto al pubblico
pagante, il quale ha bisogno della sua buona
dose di pathos e adrenalina
giornaliera per essere anestetizzato a dovere e deve mantenere sempre
l’impressione che in Europa ci sia effettivamente un accesso dibattito democratico in realtà inesistente, entrambi hanno
ottenuto senza troppi sforzi i loro obiettivi iniziali: l’ipocrita francese
salverà le sue grandi sistemiche (Credit Agricole, BNP
Paribas, Société Générale), mentre la cattiva tedesca è riuscita a
tenere buoni i politici e i banchieri locali in vista delle prossime elezioni.
E fin qui abbiamo visto il grosso della
riunione di Bruxelles, il vero motivo per cui è stato indetto il vertice
ovvero gli interessi della grande finanza
tedesca e francese, ma andiamo adesso alle trovate propagandistiche che secondo le intenzioni di questi pseudo-politicanti da quattro soldi
dovrebbero servire a ridare slancio a tutta l’economia depressa dell’eurozona.
Partiamo dalla leggendaria Tobin
Tax, la tassa sulle transazioni
finanziarie, che dovrebbe essere introdotta a partire da gennaio prossimo
(il condizionale è d’obbligo visto che si parla invano di Tobin Tax dal 1972) e a cui hanno già aderito in prima battuta 11 paesi europei, tra cui la stessa Italia. A seconda della tipologia di
strumento finanziario più o meno speculativo a cui sarà applicata, l’imposta di
bollo potrà variare fra lo 0,05% e
lo 0,1% del valore della transazione
e i proventi saranno destinati ai progetti
di sviluppo delle aree più disagiate dell’eurozona. Per carità si tratta di
un primo passo ammirevole per mettere un freno alle compravendite speculative, ma pensare di regolamentare la finanza mettendo la Tobin Tax è come credere di combattere la mafia obbligando i clan a versare un obolo al giorno presso
l’offertorio di una chiesa: soprattutto per le grandi società finanziarie che
movimentano ingenti capitali l’effetto
di deterrenza complessivo sarà irrilevante e non si esclude che gli
intermediari mobiliari e i gestori di fondi possano poi recuperare gli esborsi
pagati ai governi rivalendosi sui clienti e aumentando il costo dei servizi. Particolare poi la circostanza che la tassa non
si applica sulle negoziazioni in titoli
di stato e in strumenti derivati
associati (vedi le obbligazioni strutturate o indicizzate o i CDS, Credit Default Swap), su cui si concentrano oggi i volumi maggiori e le conseguenze socialmente più dannose
dell’attività speculativa degli operatori finanziari. “Stranamente”, anche quando indovinano uno degli strumenti giusti da
utilizzare, i tecnocrati europei
finiscono poi quasi sempre per sbagliare il bersaglio.
Fra l’altro, se esaminiamo
il disegno di Legge di Stabilità
presentato dal governo Monti (articolo 12, “Disposizioni
in materia di entrate”, comma 20), ritroviamo quanto segue: “Sono esentate dall’imposta le operazioni che
hanno come controparte l’Unione Europea, la Banca centrale europea, le banche
centrali degli Stati membri della Unione Europea e le banche centrali e
organismi che gestiscono anche le riserve ufficiali di altri Stati, nonché gli
enti od organismi internazionali costituiti in base ad accordi internazionali
(per esempio il MES) resi esecutivi in
Italia”. Considerando che a causa dell’attuale congelamento degli scambi interbancari, il flusso più cospicuo di transazioni finanziarie a titolo definitivo
o parziale avviene fra le banche centrali e le banche private, questa
esenzione limita i possibili benefici dell’imposta, sempre nell’ottica di
sfavorire i piccoli investitori e i traders
indipendenti a vantaggio dei grandi gruppi che hanno accesso ai canali di rifinanziamento istituzionali.
Dalle stime calcolate dai funzionari del governo Monti, la Tobin Tax dovrebbe portare alle casse dello stato un gettito
annuale di €1 miliardo circa,
provocando l’abbattimento in volume del 30% degli scambi nel mercato azionario
e addirittura dell’80% nel comparto degli strumenti derivati. Ora, se con buona
approssimazione per eccesso,
immaginiamo di ricavare €1 miliardo di euro per ognuno degli 11 paesi membri
firmatari dell’iniziativa, l’importo complessivo da destinare al rilancio
dell’economia sarebbe di €11 miliardi:
uno stimolo fiscale da 0,8% del PIL
europeo, praticamente nulla, una goccia
in un oceano.
Sarà per questo che, prevedendo
già il buco nell’acqua provocato dalla Tobin
Tax, l’ipocrita Hollande insiste tanto sul Patto per la Crescita, che dovrebbe mobilitare €120 miliardi (10% del PIL europeo), ma evitando bene di spiegare
il meccanismo per mezzo del quale la BEI
(Banca Europea per gli Investimenti)
erogherà questi finanziamenti: ci sono sul piatto solo €10 miliardi di capitale iniziale, mentre tutto il resto sarà
raccolto a leva sul mercato finanziario emettendo dei project bonds,
obbligazioni finalizzate allo scopo, che alla fine non sono nient’altro che prestiti agevolati alle imprese. In
buona sostanza la proposta geniale
di Hollande si riduce alla creazione di altri
debiti, ovvero tutto ciò che le aziende non vogliono più contrarre in
questo periodo di incertezza e di
recessione. Molto più incisivo sarebbe stato invece un piano strutturale di detassazione straordinario per le aziende
produttive operanti in territorio europeo, ma sappiamo bene che di questo i
buffoni non parleranno mai, dato che le
tasse servono a rimborsare i crediti dei loro committenti e mecenati della
finanza. Se ricordiamo che solo con il MES
verranno sottratti complessivamente a
famiglie e aziende europee ben €700
miliardi, di cui appunto €142 miliardi solo in Francia, possiamo capire
bene per quale motivo questi €120 miliardi di prestiti agevolati sono un
contentino per le disperate pecore da
tosare: uno schiaffo in faccia
all’intelligenza di chi ancora pensava che l’arrivo di Hollande avrebbe
smosso qualcosa in Europa, in termini di una stretta della linea del rigore e di un cambio di strategia in senso espansivo. Niente di tutto questo: il
buffone francese di “sinistra” (viene
da ridere solo a pensare che costui abbia una vaga vicinanza con la
tradizionale idea storica di “sinistra”)
è perfettamente allineato con i colleghi. Banche,
finanza, grandi interessi, protezione dei privilegi delle oligarchie,
massacro sociale del popolo, dei lavoratori, delle piccole e medie aziende, dei diritti
democratici.
E arriviamo adesso alla Spagna, la malata terminale sotto osservazione. Il furbo Rajoy è stato piuttosto in disparte durante il vertice di
Bruxelles, perché ormai ciò che doveva essere fatto per il suo paese è stato
già deciso e decretato da un pezzo.
La Spagna chiederà nelle prossime settimane un pacchetto di aiuti al MES per ricapitalizzare le banche fallite,
per una somma complessiva che andrà dai €40
miliardi ai €100 miliardi e graverà tutta sui bilanci pubblici dello stato. Il tentativo di aggirare l’ostacolo
per attivare direttamente il MES con l’introduzione anticipata dell’unione
bancaria è andato a vuoto, ma a differenza degli altri salvataggi effettuati in
Irlanda, Portogallo, Grecia, la Spagna ha goduto di un trattamento speciale e ha strappato la concessione di non dovere
inasprire ulteriormente la pressione fiscale e i tagli alla spesa pubblica,
mantenendo un vincolo molto alto di
deficit di bilancio, intorno al 6%-7%,
ben lontano dal pareggio di bilancio
a cui si sono legati mani e piedi altri paesi, Italia in testa. I tassi di interesse sui titoli di stato
si sono molto abbassati rispetto alle punte del 7% della scorsa estate, con uno
spread di 377 punti base e un
rendimento del 5,37%, ma l’effetto è
solo momentaneo e l’agenzia di rating
Moody’s ha tenuto a precisare nel suo ultimo comunicato che la decisione di
non declassare ulteriormente il debito pubblico spagnolo è subordinata alla prossima
richiesta di aiuti. Qualora la Spagna dovesse ritardare ancora la firma del memorandum
d’intesa per accedere al programma di salvataggio, il nervosismo sui
mercati finanziari potrebbe riprendere a crescere con una violenta
accelerazione dello spread, perché è
chiaro che se da un lato gli speculatori sono in attesa di potere vendere in
massa i titoli artificialmente apprezzati alla BCE, sul versante strutturale, economico e sociale la situazione della
Spagna non solo non migliora ma precipita a vista d’occhio.
Madrid
è sotto assedio permanente, le proteste dilagano in tutte le regioni, la gente è esasperata, la disoccupazione aumenta in modo
galoppante con punte ormai di ben oltre il 50% di giovani disoccupati, i soldi
nelle casse degli enti locali sono praticamente finiti. Ieri, domenica 21 ottobre, si sono tenute le
elezioni regionali in Galizia e nei Paesi Baschi, territori poveri e a
rischio fallimento che sono già in rivolta da tempo, ma il test più importante la Spagna lo dovrà affrontare il prossimo 25 novembre con le votazioni regionali
in Catalogna, dove già infervorano
le mai sopite spinte indipendentiste.
Un’eventuale vittoria dei partiti di
opposizione che soffiano sul fuoco della protesta antieuropeista o peggio ancora dei movimenti locali per l’autonomia, potrebbe mutare non poco gli
equilibri di forze e lo scenario politico spagnolo, con effetti dirompenti e imprevedibili per il futuro. Questo è il
classico intoppo che potrebbe scompaginare di colpo i piani dei tecnocrati e
dei banchieri europei, che malgrado i loro continui
tentativi di indirizzare e imbavagliare la protesta verso l’astensionismo,
dovranno prima o dopo fare i conti con il voto popolare: “Questa è la democrazia, bellezza!”. La finanza potrà pure
manipolare le menti e gli organi di informazione, grazie al lavoro incessante e
pervicace dei suoi menestrelli, ma fino a quando non sarà in grado di eliminare
il diritto al suffragio universale,
facendolo passare magari per pratica
inutile, anacronistica, controproducente e dispendiosa, non potrà ancora
entrare all’interno delle cabine elettorali e dovrà accettare suo malgrado il
responso dei votanti. A poche ore dalla chiusura dei seggi i menestrelli e i
buffoni ricominceranno a tessere le loro trame di palazzo, ma il giorno delle
elezioni i tecnocrati europeisti potranno solo incrociare le dita e attendere in religioso
silenzio.
Sulle condizioni pessime in
cui è stata ridotta la Spagna, dopo anni di investimenti selvaggi e indiscriminati nel settore immobiliare e accumulo di debito estero, abbiamo già
detto ampiamente in altri articoli, ma
qui mi preme invece sottolineare solo alcuni dati. Innanzitutto non è vero che
le banche europee, incluse quelle spagnole, hanno iniziato un virtuoso cammino di abbattimento delle
attività (assets) e del debito necessario a finanziarle (deleveraging), come suggerito insistentemente dallo stesso Fondo Monetario Internazionale che ha stimato per il 2013 una massiccia vendita di assets per 58 importanti gruppi bancari europei da €3,5 trilioni. Come si può vedere bene
dal grafico riportato sotto, a parte la momentanea flessione nel 2011, le banche hanno
approfittato dei vantaggiosi
rifinanziamenti della BCE (SMP, LTRO)
per riprendere la loro marcia trionfale
di investimenti finanziari fuori controllo, che ormai superano
abbondantemente di 3 volte l’intero PIL europeo. Se ai cittadini è richiesto di
stringere la cinghia, per motivi che sicuramente non dipendono da loro e dal
loro presunto stile di vita
insostenibile (i salari reali
sono fermi o decrescenti in Europa da almeno 30 anni), i managers delle banche continuano invece ad inseguire i loro
ambitissimi bonus milionari e ad
utilizzare i fiumi di liquidità a buon
mercato concessi dalla BCE non per chiudere le precedenti posizioni
debitorie e consolidare i bilanci, ma per aprirne di nuove e sempre più
rischiose (moral hazard).
L’unica evidente differenza
con il passato è che le banche hanno stretto il rubinetto dei finanziamenti alle famiglie e alle imprese,
dedicandosi con maggiore profitto alla solite attività finanziarie speculative o ancora meglio al carry
trade sui titoli di stato,
che essendo molto volatili e parzialmente sicuri assicurano elevati rendimenti certi in breve tempo.
Unendo a questa insopprimibile tentazione di scommettere al casinò
della finanza, la scarsa capacità di valutazione del rischio degli investimenti arriviamo alla
condizione disastrosa in cui ci troviamo oggi, con l’economia reale sempre più
a corto di liquidità e lo stato a mettere continuamente toppe ai fallimenti a catena delle banche, a danno dei contribuenti. Proprio in Spagna il valore dei bad loan (prestiti sorvegliati, incagliati, in sofferenza, ai limiti
dell’insolvenza) rappresentano ormai il 10,5%
del totale e hanno raggiunto la clamorosa cifra di €178,6 miliardi: ecco per quale motivo possiamo dire con assoluta
certezza che il primo salvataggio richiesto dalle banche spagnole non sarà di
certo sufficiente e ne serviranno altri nel giro di qualche mese.
L’ultimo stress test condotto sulle banche spagnole risale ad agosto scorso e aveva
stabilito un fabbisogno finanziario per
il triennio 2012-2014 pari a €59,3
miliardi, tuttavia dettaglio non trascurabile il calcolo è stato fatto
sottostimando le prospettive di recessione per il periodo, con una caduta
complessiva del PIL di solo -1%. In uno scenario più realistico, la previsione più attendibile di flessione
cumulata del PIL ci fornisce una cifra pari al -6,5%, e considerando (vedi grafico sotto) che esiste una forte correlazione fra riduzione del PIL,
aumento della disoccupazione e incremento delle sofferenze bancarie, ecco
che la necessità di copertura finanziaria
per gli istituti creditizi potrebbe lievitare più del doppio rispetto alla
cifra precedentemente calcolata. Il discorso è abbastanza semplice da capire,
perché il minore reddito nazionale e il numero crescente di persone che non
hanno più un reddito (a parte i sussidi minimi di disoccupazione) produce per
le stesse persone una maggiore
difficoltà a rimborsare regolarmente i debiti contratti in passato. Senza
contare poi il fenomeno inarrestabile di
riduzione dei depositi presso le banche spagnole e fuga dei capitali all’estero,
che in un contesto già così drammatico e turbolento potrebbe rappresentare
l’ultima goccia capace di far traboccare il vaso del fragile sistema bancario spagnolo.
Questo discorso ci porta
dritti in Italia, uno dei luoghi centrali e cruciali dove è
ambientata l’opera buffa. Malgrado si continui a ripetere da ogni parte che
il sistema bancario italiano è più
solido di quello spagnolo, le condizioni al contorno non sono molto
differenti: fuga dei capitali, riduzione dei depositi, aumento dei bad
loan che hanno raggiunto a settembre la quota di €116 miliardi, il 15,6% in
più rispetto allo scorso anno. Dato che tutti gli indici economici in Italia continuano a peggiorare, grazie anche alle
manovre recessive del governo Monti
che hanno amplificato gli effetti del ciclo economico in corso, esistono alte
probabilità che buona parte di questi bad loan si trasformino presto in
crediti inesigibili, con relativa necessità
di ricapitalizzare le banche della stessa cifra. Fra l’altro, gli istituti più
in difficoltà non sono soltanto quelli a carattere locale, regionale o
nazionale, ma c’è addirittura una grande
banca sistemica, d’importanza strategica internazionale, come Monte Paschi di Siena che ormai
barcolla vistosamente verso la bancarotta.
Abbiamo già detto più volte dello scellerato programma di salvataggio pubblico da €3,9 miliardi, ma adesso quello che
più preoccupa gli addetti ai lavori sono le conseguenze dell’ultimo declassamento di Moody,s, che ha
degradato i titoli di debito dell’istituto senese a livello spazzatura (junk
bonds), portandolo a livello Ba2, sotto la soglia del grado di
investimento: ciò significa che i grandi operatori internazionali, fondi
pensione, fondi comuni, fondi sovrani, per tutelare i loro clienti dovranno
disfarsi automaticamente dei titoli di MPS, facendo crollare ulteriormente il
loro valore.
Dopo il
comunicato di Moody’s, il crollo di giovedì scorso in borsa delle azioni MPS è
stato preoccupante (-6,36% e 0,23 euro per azione), riducendo il valore patrimoniale di mercato del gruppo
a meno di €2,6 miliardi. Già oggi il 17%
dei crediti della banca sono problematici e dato che l’emersione di nuovi
incagli e sofferenze segue l’andamento delle crisi economiche con un ritardo di
12-18 mesi, secondo Moody’s la qualità
del credito di MPS "è probabile che
continui a deteriorarsi nel 2013 e nel 2014". Ma se i nuovi depositi
scarseggiano e la fragilità creditizia renderà sempre più difficile l’accesso
al mercato, l’unica fonte di sostegno per MPS rimane ad oggi la liquidità fornita dalla BCE, che già a
fine giugno ammontava a ben €31,5
miliardi. Oltre ovviamente ai salvataggi
pubblici di emergenza garantiti senza limiti di quantità e di tempo dallo
stato italiano. E tuttavia l’ingarbugliata faccenda MPS deve farci sorgere subito un
sospetto: forse l’unico vero “cammello” che
è stato trattato al vertice di Bruxelles come bene pregiato di scambio dai mercanti europei, tedeschi e francesi
soprattutto, non è stata l'unione bancaria o fiscale, ma proprio noi. l’Italia.
Archiviato il
caso Spagna, ormai tutti i faccendieri, i banchieri, i tecnocrati che ruotano
intorno ai tavoli delle trattative europee hanno decisamente cambiato
bersaglio, con la compiacenza e il
supporto tecnico dei maggiori organismi internazionali pubblici e privati della
finanza. Il tempismo con cui Moody’s ha sferrato l’attacco a MPS è sintomo
inequivocabile di questo cambio di obiettivo: bisogna mettere il governo
italiano spalle al muro, in modo che come la Spagna chieda un piano di aiuti e firmi l’accordo capestro
d’intesa con la trojka UE, BCE, FMI prima delle prossime elezioni di aprile.
In questo modo, qualunque nuovo governo verrà eletto dal popolo avrà già le
mani legate ancora prima di cominciare e sarà obbligato a rispettare le condizionalità repressive di cessione di
sovranità politica, economica, fiscale, previste dal memorandum. Bisogna tosare le grasse
pecore italiane prima che queste possano uscire dall’ovile e il governo
Monti è l’unico pastore affidabile e
credibile dai “mercati” che possa
svolgere diligentemente l’ingrato e indigesto compito (ingrato e indigesto per
noi, non certo per Monti e la sua cricca, che più di una volta hanno mostrato
parecchia soddisfazione e godimento a sforbiciare i risparmi e i patrimoni del
popolo italiano).
La quiete apparente che regna sui “mercati” nei confronti dell’Italia, con
la spread che è sceso fino a sfiorare
addirittura quota 300, dimostra che alcuni operatori finanziari, il cosiddetto “parco di buoi”, si sono piazzati in
massa sui nostri titoli e danno già per certo un prossimo intervento della BCE.
Altri invece, coloro che le mandrie riescono ad indirizzarle con brevi
comunicati e dispacci ad orologeria, stanno soltanto caricando il fucile per iniziare a sparare nel momento opportuno,
quando si dovrà scatenare la Tempesta Perfetta sull’Italia. Le condizioni strutturali dell’economia
italiana non sembrano infatti giustificare tutto questo ottimismo dei “mercati” e l’opera del governo di Mario
Monti, che nel giro di poco meno di un anno è riuscito nella memorabile impresa di peggiorare tutti i
principali indicatori economici del paese (PIL, inflazione, disoccupazione,
consumi, produzione industriale, pressione fiscale, debito pubblico) è
evidentemente funzionale al
raggiungimento di questo momento della resa italiana. Una disfatta che con
ogni probabilità avverrà quando saremo prossimi alle elezioni (gennaio, febbraio),
in modo di consentire ai tecnici di
defilarsi nell’ombra e di lasciare
la patata bollente ai nuovi arrivati. Si tratta ovviamente di opinioni e
valutazioni personali, ma dopo avere intuito bene o male cosa accade dietro le quinte dell’opera buffa, capire
quale sarà lo svolgimento del canovaccio già scritto da tempo è diventato un
gioco da ragazzi. Un passatempo, purtroppo o per fortuna, accessibile a tutti.
Alcune strane e curiose operazioni, come il passaggio per €10 miliardi dal Ministero
dell’Economia alla Cassa Depositi e Prestiti (CdP), che già controlla quote di
Eni, Terna e Snam Rete gas, delle partecipazioni in Fintecna (che a sua volta controlla Fincantieri), Sace e Simest, confermano che il governo Monti ha già iniziato in sordina
il piano di smantellamento e svendita
dello stato italiano. La CdP, banca per il 30% privata che
gestisce i risparmi dei correntisti postali e si occupa principalmente di
finanziamenti agli enti locali e alla pubblica amministrazione, non avrà
difficoltà a rivendere agli investitori
stranieri le sue partecipazioni quando i tempi saranno e l’emergenza
causata dal deprezzamento dei titoli di stato (uno dei maggiori investimenti
della CdP, con i suoi €11 miliardi di
titoli in portafoglio) renderà indispensabile questa rinuncia. Ricordiamo che
ci sono grandi gruppi stranieri,
come il colosso francese dell’energia EDF, che a causa del referendum di giugno 2011, sono rimasti
a bocca asciutta sia per quanto riguarda la costruzione delle 7 nuove centrali nucleari che per
l’eventuale partecipazione nell’affare della privatizzazione dell’acqua pubblica, e adesso esigono che vengano
pagato il conto. In un altro articolo
avevamo già rimarcato che una delle maggiori cause degli attacchi speculativi ai titoli di stato italiani, iniziati guarda
caso a giugno 2011, e indirettamente della caduta del governo Berlusconi, era
stata l’incapacità del cavaliere di Arcore di manipolare e distrarre l’opinione pubblica, come accadeva ai bei
tempi andati del bunga bunga, e di
fare passare sotto traccia queste indegne operazioni di colonizzazione straniera, evitando l’intoppo del referendum. Mario Monti invece, grazie ai suoi legami con gli ambienti che contano della
finanza e degli affari, era l’uomo giusto per ridare credibilità all’Italia
agli occhi dell’opinione pubblica nazionale ed internazionale e per condurre in
porto quelle stesse manovre, sulla spinta del panico da spread che il
professore ha abilmente contribuito ad ingenerare nelle masse.
Un’altra manovra a dir poco sciagurata e infame
è quella delle dismissioni forzate di
immobili del patrimonio pubblico, partecipazioni
statali in società strategiche di interesse nazionale (Eni, Enel,
Finmeccanica, Anas), municipalizzate,
concessioni, soprattutto in un
periodo come questo in cui il valore di mercato è ampiamente sottostimato. Una svendita che secondo le previsioni del ministro Grilli dovrebbe fruttare alle
casse dello stato solo nel 2013 €50
miliardi (mentre a regime le entrate stimate sono nell’ordine dei €15-20
miliardi all’anno), da destinare unicamente all’acquisto e al rimborso dei
titoli di stato, dando ovviamente priorità
ai creditori stranieri, francesi e tedeschi in particolare. Considerando
che l’intero patrimonio pubblico da piazzare è di circa €571 miliardi, le intenzioni del ministro Grilli, in chiaro accordo
con i suoi mandanti e manovratori esteri,
è quello di garantire ai tecnocrati dell’Unione Europea il pagamento delle
prime 12 rate annuali da €45 miliardi
ciascuna, previsto dal piano
ventennale di rientro entro la soglia del 60% del rapporto debito
pubblico/PIL sottoscritto e controfirmato nel Fiscal Compact. Le modalità con cui si vuole procedere a questa
ennesima spoliazione criminale e occulta
del patrimonio pubblico dei cittadini italiani è abbastanza singolare: una Società privata di Gestione del Risparmio
(SGR)
si occuperà di acquistare questi beni direttamente dallo stato, grazie al
collocamento di titoli presso i privati, assicurando il pagamento del flusso di cassa degli interessi tramite
principalmente gli affitti che riceverà
dallo stato per utilizzare quei palazzi e quegli edifici che un tempo erano
suoi. Praticamente lo stato si priverà di un asset, di un’attività, che se sfruttata bene può
generare profitti, per avere poi certamente delle uscite, dei costi ripetuti
che prima non aveva. Ovviamente di questa truffa non beneficeranno solo gli investitori della SGR, ma gli stessi acquirenti privati (soprattutto stranieri, data la carenza di
capitali interni) a cui il fondo venderà progressivamente i beni strappati allo
stato per rimborsare i titoli in scadenza.
Questi contorti meccanismi finanziari servono
solamente a mascherare l'inganno e ad indorare la pillola, ma alla fine si tratta di un furto bello e buono compiuto ai danni
dei cittadini che sono i legittimi
proprietari di quei beni. Un crimine che si può commettere impunemente
davanti agli occhi di tutti grazie all’opera
martellante della stampa e della propaganda di regime, la quale ripete fino
allo sfinimento che la vendita del patrimonio pubblico consentirà di abbattere
il debito pubblico e di liberarci da quest’incubo. Ne siamo veramente sicuri? E’ davvero il debito pubblico il nostro
problema? E’ stato l’acquisto di quei beni a causare l’aumento del debito
pubblico? No, assolutamente no. Quei palazzi
e quegli edifici storici appartengono allo stato italiano nella maggior
parte dei casi fin dai tempi dell’Unità dell’Italia, quindi i cittadini non
hanno mai speso una lira (o un euro) per comprarli, ma ne sono per costituzione
i proprietari di diritto. La panzana del debito pubblico è solo un vile
pretesto per frodarli, perché ormai anche i muri sanno che il debito
pubblico italiano è cresciuto a partire dal 1981 (quando era solamente al 55% del PIL) a causa del divorzio fra Banca d’Italia e Ministero del Tesoro, che impedendo alla banca centrale di intervenire nelle aste di
collocamento dei titoli pubblici per calmierare i rendimenti, ha favorito un’inarrestabile crescita degli interessi da
corrispondere ai titolari. Una maggiore
spesa per lo stato, che gravava anno dopo anno sui bilanci pubblici, di cui
inizialmente hanno beneficiato soprattutto privati
cittadini, aziende e banche italiane, ma poi con la disinvolta
apertura ai capitali internazionali avvenuta con l’adesione all’euro, la
deregolamentazione, la globalizzazione, ha avvantaggiato principalmente gli investitori stranieri.
Se osserviamo
l’andamento degli avanzi primari al
netto degli interessi cumulati dallo stato italiano dal 1992 ad oggi (vedi
grafico sotto), ci accorgiamo che i nostri governi applicano il rigore e l’austerità da almeno vent’anni,
senza che questo abbia apportato mai un reale beneficio all’economia nazionale
o alla solidità del nostro paese. Il continuo drenaggio di liquidità dal basso verso l’alto, ha prodotto soltanto
l’impoverimento generale della
maggioranza dei cittadini e l’arricchimento
di coloro che vivono di rendita speculando sull’acquisto dei nostri titoli
di stato. I €600 miliardi complessivi di
maggiori entrate rispetto alle uscite che lo stato ha raccolto in questi
ultimi venti anni, prosciugando i risparmi dei cittadini e inaridendo il
tessuto produttivo, sono serviti esclusivamente a pagare gli interessi sul debito pubblico alle banche
italiane e straniere, ai grandi investitori, ai singoli operatori finanziari. Non un centesimo in più di ciò che
pagavamo con le tasse è stato speso nel miglioramento dei servizi pubblici, nel
rafforzamento dello stato sociale, nei programmi di assistenza e sussidi all’economia,
per farci vivere, come dicono molti menestrelli della propaganda, “al di
sopra delle nostre possibilità”.
A parte la
leggera flessione del montante complessivo del debito pubblico avvenuta poco prima
della crisi del 2007, grazie alla favorevole
congiuntura dei bassi tassi di interesse creata dall’illusoria ed effimera
introduzione dell’euro, i governi che via via si sono succeduti negli ultimi
trenta anni sono stati quasi sempre costretti ad emettere nuovi titoli per
riuscire ad andare dietro al meccanismo fuori
controllo di incremento degli interessi (Schema Ponzi). Alcuni
recenti studi rivelano che la quantità totale di interessi pagati dal 1981 ad oggi ammonta alla
stratosferica cifra di €2.141 miliardi,
a fronte di una maggiore spesa pubblica rispetto alle entrate di soli €140 miliardi nell’arco dello stesso
trentennio. Quindi in verità il nostro debito pubblico da €2000 miliardi noi
italiani ce lo saremmo già belli che ripagati, se non fosse stato appunto per
la truffaldina e famelica amputazione
della nostra sovranità monetaria, avvenuta nel 1981 ed effettuata ad hoc per fregare i cittadini a favore
dei soliti noti. Lo scandalo ormai è
sotto gli occhi di tutti, anche se molti, soprattutto quelli che si sono
arricchiti con il bottino del furto, cercano di deviare maldestramente l’attenzione
verso altri argomenti, come gli sprechi, la corruzione, i privilegi della casta (che per carità vanno eliminati, ma
non sono affatto la causa dei nostri problemi).
Fra
l’altro, questo continuo spostamento di
soldi dall’economia reale della produzione al mercato finanziario della rendita,
con conseguente necessità di applicare poi politiche economiche recessive per
risanare i bilanci, ha provocato ovviamente una caduta libera del reddito lordo nazionale lungo il trentennio
(vedi grafico sotto), passando dalle incoraggianti medie di crescita del primo
decennio degli anni ottanta (+3,8%) fino alla stagnazione completa o recessione
degli ultimi anni (0,3%). Con le cupe
previsioni di riduzione del PIL per i prossimi anni, sarà sempre più
difficile il raggiungimento dell’ecumenico
quanto mai inutile obiettivo del 60% del rapporto debito pubblico/PIL,
perché ogni anno che passa dovremo abbattere il debito di una quota sempre
superiore rispetto all’anno precedente solamente per recuperare i punti di PIL
persi per strada. Cosa ben diversa accadrebbe invece se riuscissimo a far
crescere il PIL con una politica economica espansiva di aumento della spesa pubblica, dei consumi e degli investimenti, perché in quel caso il debito non solo si ripagherebbe più
agevolmente con le maggiori entrate fiscali calcolate su un reddito più elevato,
ma avrebbe un peso specifico marginale sempre minore rispetto al PIL. La politica restrittiva serve soltanto ad esaltare il peso del debito pubblico, a renderlo ingombrante e dannoso, quando invece per un "paese democratico normale", non ingabbiato in vincoli esterni
come la moneta unica, il debito dello stato rappresenta un semplice
strumento di politica economica e fiscale, che ha davvero poche
controindicazioni. E l’ultima disgraziata protagonista
dell’opera buffa, la Grecia, è indubbiamente l’esempio più concreto e lampante dell’errore che si commette quando si cerca di costringere un paese debitore a
risarcire un debito togliendogli non solo la propria moneta di stato ma anche tutte le fonti esterne di reddito.
Dopo la
loro ultima ricognizione in suolo greco, i funzionari della trojka hanno
confermato quello che sapevamo già: il disavanzo primario di bilancio è stato quasi azzerato, le uscite superano le entrate
di soli €1,4 miliardi, ma i €12,5
miliardi di interessi sul debito che paga la Grecia ogni anno costringono il
paese a dipendere dagli aiuti dei fondi
di salvataggio europei, del FMI e della BCE. Siccome i creditori privati
sono praticamente usciti dall’affare greco con i primi pacchetti di aiuti,
questi nuovi finanziamenti dei creditori istituzionali della trojka servono
solamente a ripagare gli interessi alla stessa trojka, ma neppure un centesimo
va ad abbattere il debito pregresso o viene utilizzato per far ripartire
l’economia, i consumi, gli investimenti, la fiducia. La Grecia è già spacciata, il suo PIL è in picchiata, il debito
pubblico per quanto quasi costante in valore assoluto continua ad aumentare in
relazione al PIL, dal 130% del 2010 al
167% attuale. Le domande quindi da porsi sono: possibile che sia proprio questo lo scopo della trojka? Sapendo già
che la Grecia in queste condizioni non potrà mai consolidare i conti pubblici,
possibile che la presenza di questo debito sia solo un pretesto per ottenere
altro? Possibile che il debito serve solo a tenere in tensione l’intero paese e
mettere pressione alla gente, mentre i funzionari studiano i piani più
convenienti per frodare e depredare lo stato greco? Che senso ha e quanto potrà durare ancora la truffa della trojka?
Con questi ultimi
inquietanti interrogativi si cala il sipario
sul lungo terzo atto dell’opera buffa dell'eurozona. Certo si potrebbe parlare ancora
delle comparse Portogallo e Irlanda, paesi già distrutti e
annientati, che continuano mestamente il loro lento calvario verso il nulla, con i governanti servili che seguono
pedissequamente gli ordini e le ricette amare della trojka e il popolo già
rassegnato a soffrire ingiuste pene. Ma con tutto il rispetto, se portoghesi e
irlandesi non sapranno risvegliarsi dal torpore opponendo un’adeguata resistenza al massacro, rimarranno sempre e solo
comparse, inutili scenografie sullo sfondo che non aggiungono o tolgono nulla
al dibattito. Perché è chiaro che l’unica variabile che può fare saltare in
aria i piani dei vari buffoni che si alterneranno sulla scena è la reazione possente, competente, organizzata,
coordinata della gente e se questa non ci sarà loro non si fermeranno mai.
La fine di questa tragicomica farsa
dipende dalla scelta consapevole del pubblico pagante di alzarsi in piedi e
uscire dal teatro perché stanco del pietoso
spettacolo a cui sta assistendo da tanti, troppi anni. Rimanere impassibili
è comodo, ma il biglietto si paga lo
stesso, e non si paga una sola volta all’ingresso, ma tutti i santi giorni,
si consegna in eredità ai propri figli, ai propri nipoti, si tramanda di
generazione in generazione. I buffoni in
fondo si divertono a saltellare e strimpellare i mandolini sul palco,
mentre noi spettatori inermi e impotenti, consapevolmente o inconsapevolmente, siamo
gli unici a pagare per il loro divertimento. Loro si prendono gioco di noi con
sempre nuove ingegnose macchinazioni,
ma ripeto, per mettere fine a questa straziante agonia basterebbe soltanto
avere la forza di alzarsi e dire ad alta voce: “No grazie, abbiamo già dato. Abbiamo pagato abbastanza per il vostro
ludibrio e godimento. Conosciamo bene come funzionano le mille sfaccettature
del potere totalitario, oligarchico, monarchico, imperialista e preferiamo la
democrazia”.
La democrazia è l’unico personaggio ancora in cerca di autore
che può stravolgere il triste scenario che ci aspetta, ponendo fine alla
dittatura di mercenari e lacchè al governo e accelerando il processo di
collasso dall’area euro, prima di essere spogliati del tutto dei nostri risparmi,
del patrimonio pubblico e della nostra stessa capacità di resistenza. Ci vuole
più democrazia nell’informazione per
capire che l’euro è l’ultimo e più
raffinato strumento di dominio inventato dai soliti tiranni e la fonte
principale e originaria delle loro logiche
predatorie. Ci vuole un ritorno alla democrazia per ridare speranza, futuro, dignità ai popoli.
Ci vuole un recupero della sovranità monetaria, politica ed economica di ogni singolo paese, caposaldo
fondamentale sul quale si costruisce una vera democrazia, per capire che l’unione, l’unità, la compattezza granitica
che esclude le differenze, la molteplicità, non è quasi mai sinonimo di equilibrio, armonia, bellezza.
Ci vuole una reazione forte da parte
della società civile per cambiare rotta al cammino sbagliato di evoluzione
che ci stanno imponendo dall’alto. Ci vuole uno stato di mobilitazione permanente, come sta già avvenendo in Spagna
e in Grecia, per uscire dall’accerchiamento. Ci vuole una discesa in campo convinta e rumorosa che abbia come unico scopo
quello di cacciar via dal suolo nazionale tutti i tecnocrati, i vecchi partiti,
i politicanti, i funzionari che sono stati complici di questo sfacelo.
La manifestazione del 27 ottobre a Roma,
il No Monti Day, rappresenta quindi
un vero spartiacque politico per capire fino a che punto gli italiani sono
pronti per affrontare questa battaglia, con le dovute armi di conoscenza e
consapevolezza. In questa prima fase non
è tanto importante il numero dei partecipanti, ma la determinazione e costanza
che ognuno dei presenti avrà nel proseguimento della lotta, con i propri mezzi,
con le proprie competenze, con i propri limiti. Gli spagnoli, i greci, gli italiani che stanno già scendendo e
scenderanno in piazza a protestare nei prossimi giorni, nei prossimi mesi,
nei prossimi anni, sono in verità gli unici “europei” degni di questo
nome, che hanno rispetto per la storia, la cultura, le tradizioni del nostro
amato continente, mentre gli altri sono solo merce di scambio dei mercanti. Gli irriducibili sognatori degli Stati Uniti d’Europa non sono “europei”, non sono portatori sani di modernità, non sono gli abitanti di una terra promessa che non esiste e non esisterà mai.
Sono soltanto schiavi illusi e raggirati,
accattoni opportunisti e profittatori,
venditori di fumo agli stolti, persone prive di spina dorsale e
lungimiranza, vittime della loro stessa fragilità. Ma forse per capire
meglio il senso di queste ultime parole e rinvigorire l’orgoglio di sentirsi veramente “europei”, come suggerito da un lettore,
bisognerebbe rileggere con attenzione una frase del filosofo, politico e
storico francese Alexis de Tocqueville,
uno che di democrazia se ne intendeva eccome:
“Si può davvero credere che la democrazia, che rovesciò il sistema
feudale e liquidò i re, si ritiri davanti a mercanti e
capitalisti?”
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