martedì 17 gennaio 2017

Seguendo la corrente

michea
 
Da più di vent'anni, Jean-Claude Michéa porta avanti una critica assai tagliente del liberalismo, sia economico che politico. La sua critica prende di mira soprattutto le connivenze che la sinistra ha da tempo, nel nome del «progresso», con questo liberalismo, nel mentre che disprezza e trascura allo stesso tempo gli strati popolari percepiti come «reazionari». Tuttavia, è nella «comune decenza» (George Orwell) della «gente comune» che risiede, secondo Michéa, la possibilità di una resistenza ad un mercato sfrenato che sta divorando tutto quello che dà un senso ed una stabilità alla vita, mentre invece la sinistra ha fatto pace col mercato.
Michéa, che non occupa alcuna posizione di potere nelle istituzioni accademiche o nei media, e che non si appoggia a nessuna organizzazione o movimento strutturato, proviene dai margini del campo del dibattito in Francia. Tuttavia è riuscito a suscitare delle discussioni spesso appassionate, e molto polarizzate, intorno alle sue idee. Un'eco dovuta solo alle qualità intrinseche delle sue tesi: proposte con una scrittura chiara e semplice, ma ricca di dettagli e di sviluppi spesso illuminanti, colgono degli aspetti del presente che sembrano essere sfuggiti a quasi tutti gli altri partecipanti al dibattito. Purtroppo, il suo crescente successo è anche dovuto al fatto di ritrovarsi fra i numi tutelari del nuovo «populismo trasversale», cosa cui si presta sempre più volentieri.
Michéa non fa a pezzi solo il liberalismo, ma anche il capitalismo tout court, e fa spesso riferimento a Karl Marx. Tuttavia, utilizza principalmente, e senza nemmeno accorgersene, la parte più desueta del marxismo tradizionale: quella che identifica il capitalismo con il dominio esercitato da un piccolo strato della popolazione - i proprietari dei mezzi di produzione - su una maggioranza di lavoratori che appartengono solo esteriormente, ed in quanto costretti, a questo sistema. Forse è stato così all'epoca del «socialismo originale» della prima metà del 19° secolo, cui volentieri Michéa si richiama. Oggi, però, «il capitalismo» non è più identico ai «capitalisti» o ai «dominanti» (ossia all'«1%»). È un rapporto sociale, come lo aveva previsto Marx. Un rapporto al quale partecipa tutto il mondo, anche se questo avviene con ruoli e retribuzioni differenti. Ognuno deve necessariamente condurre la sua vita nel quadro del denaro e del lavoro, della merce e del valore economico. Le differenze fra gli individui sono essenzialmente differenze quantitative. Non sorprende affatto allora che anche i loro concetti di felicità si rassomiglino e si confondano e che tutti si precipitino a comprare l'ultimo modello di smartphone.
«Quelli in basso» e «quelli in alto»Infatti, ci si chiede dov'è che Michéa vede ancora esistere questo «popolo», con i suoi propri valori morali. Lo sviluppo capitalista lo ha rimpiazzato con dei soggetti della merce che hanno redditi più bassi e meno potere di decisione sui dettagli della loro vita. Non sarà evocando l'immagine stereotipata del «popolo» che si uscirà dal capitalismo. Per venirne fuori, si dovrà mettere in discussione l'esistenza del denaro e del lavoro, della merce e dello Stato come hanno fatto Marx, Guy Debord, Jaime Semprun - autori che Michéa cita spesso, ma non sempre a proposito. Pure oggi, una tale critica radicale del capitalismo passa per essere «utopica» e «irrealistica», perfino per «totalitaria». Michéa non prende tale direzione che lo spingerebbe ai margini del dibattito politico. Preferisce evocare l'opposizione fra «quelli che stanno in basso» e «quelli che stanno in alto» ed avvicinarsi al populismo montante.
Il termine populismo è certamente vago. Tuttavia, corrisponde, proprio per il suo esser vago, ad un'importante realtà del nostro tempo - soprattutto nella sua nuova forma di «populismo trasversale». Talora, Michéa viene accusato di «destrizzare» il suo pensiero e di scrivere sugli organi della destra. Sarebbe tuttavia riduttivo vedere in lui uno di sinistra che sarebbe passato gradualmente alla destra. In primo luogo, perché non è affatto diventato, finora, apertamente «di destra», e poi perché una simile accusa presuppone ancora la rassicurante dicotomia sinistra/destra. Ora, questa dicotomia non domina più la scena politica - una mutazione che tuttavia non corrisponde al modo in cui ne parla Michéa (e tanti altri fautori del «superamento» di questa separazione, quasi sempre appartenenti tutti alla destra, fra i quali da tempo ritroviamo i Le Pen padre e figlia). Negli ultimi decenni, il capitalismo è andato a sbattere contro i suoi limiti, sia esterni (esaurimento delle risorse naturali) che interni (mancanza di lavoro a causa delle tecnologie, nel mentre che il lavoro rimane la base dell'organizzazione sociale). Questa crisi, che confonde anche le forme attuali di soggettività, ha suscitato due visioni della società, che in apparenza sono opposte ma che in realtà si nutrono l'una dell'altra e rimangono entrambe nel quadro della società capitalista: la gestione tecnocratica ed il populismo.
OPA nei confronti dei pensatori di «sinistra»Il populismo - che era già apparso nel periodo fra le due guerre mondiali - si è sviluppato soprattutto dopo il trionfo del neoliberismo. Da tempo ne esiste una versione di sinistra ed una versione di destra, la cui base comune è rimasta piuttosto nascosta. Da più dieci anni, queste due versioni hanno cominciato a fondersi. I loro bersagli sono gli stessi: la speculazione finanziaria e la corruzione dei politici, cui vengono attribuiti tutti i malfunzionamenti; la globalizzazione dell'economia e il peso dei burocrati di Bruxelles e delle istituzioni internazionali, contro cui si evoca il ritorno alle sovranità nazionali ed un ruolo forte dello Stato. Si punta il dito contro le «élite cosmopolite», una casta mondiale ossessionata dalle cifre della redditività ed insensibile ai disastri che essa stessa produce, mille miglia lontana dalle preoccupazioni quotidiane della grande maggioranza della popolazione.
In questo modo, il populismo può denunciare i mali del capitalismo senza mai dover produrre un'analisi delle loro cause strutturali, sostituendola con la denuncia di complotti organizzati da delle minoranze rapaci (denuncia che spesso recupera i vecchi cliché antisemiti). E se la maggior parte degli attuali populismi vengono ancora classifica sia come di «sinistra» (Podemos in Spagna), sia come di «destra» (il Front national in Francia,  Alternative für Deutschland in Germania, Donald Trump negli Stati Uniti), vi sono anche quelli che sono decisamente «trasversali» come il movimento 5 stelle in Italia. La gestione miope e gli accordi fra amici praticati da delle «élite» autistiche forniscono effettivamente ogni giorno dei nuovi argomenti ai populisti. Viceversa, queste «élite» - dai partiti europei tradizionali alle istituzioni internazionali, da Hilary Clinton ad Angela Merkel - possono facilmente presentarsi come il male minore, come la voce della ragione di fronte all'oscura minaccia di un populismo imprevedibile. È diventato quasi impossibile - ma purtroppo necessario - rifiutare entrambe le posizioni insieme, non accettarne nessuna delle due con il pretesto di «evitare il peggio» Perciò, se ha ancora un senso essere un intellettuale critico, ciò consiste nel rifiuto dei queste due false alternative.
La riflessione non è il forte dei populisti, in quanto fa troppo «intellettuale». Ragion per cui devono allora lanciare delle OPA nei confronti dei pensatori di «sinistra» al fine di rafforzare i loro discorsi. Alcuni di questi pensatori accettano nel nome di «né sinistra né destra» e in nome della «resistenza alle élite». Ciò non va a loro merito. Pretendono di stravolgere la routine; in realtà, nuotano seguendo la corrente.
 
- Anselm Jappe - Pubblicato su Le Monde dell'11 gennaio 2017 -
fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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