Da
qualche tempo e più ancora dopo l’elezione di Trump si parla o per
meglio dire si favoleggia di un ritorno delle attività produttive via
via delocalizzate nei Paesi a basso costo del lavoro: dapprima si è
cominciato a dire che le nuove tecnologie robotiche permettono abbattere
in maniera sostanziale la quota lavoro rendendo superfluo il
trasferimento e poi persino tra gli ideologi di servizio delle elites
neoliberiste si è cominciato a mettere nel conto economico la pace
sociale e il livello di consumo messi in forse dalla preoccupante
crescita della disoccupazione. Qualcosa si è visto qui e la, soprattutto
nei settori più maturi, non ultima la rinuncia della Ford a impiantare
l’ennesima fabbrica in Messico dopo la vittoria elettorale del Tycoon
americano che basa buona parte della sua strategia e del suo appeal
proprio su un ritorno del lavoro in Usa, ma nel complesso è poca cosa e
per due motivi: innanzitutto produrre in aree a basso costo di lavoro
significa godere – al netto di sconti fiscali o finanziamenti in solido
quasi sempre presenti – anche di costi molto più bassi più bassi per
tutta la filiera che va dalla progettazione al trasporto, se non
paradossalmente alla produzione proprio della robotica avanzata che oggi
per il 60 per cento viene da Giappone e Cina.
Ma il motivo principale è stato illustrato da Jack Ma, l’uomo più
ricco della Cina e patron di Alibaba, il mercato on line dove è
possibile trovare alla metà, un terzo, talvolta un quinto del prezzo i
prodotti cinesi che sui circuiti normali vengono marchiati occidentale
e per questo si fregiano di cartellini molto più alti: il fatto è che la
globalizzazione ha portato i profitti a livelli tali non solo da dare
avvio alla mutazione finanziaria del capitalismo, ma da diventare una
droga della quale non si può più fare a meno. E francamente è un
contrappasso elegante il fatto che la Cina sia oggi l’oppio con cui le
elites occidentali cercarono di conquistarla meno di due secoli fa. Jack
Ma, alias di Ma Yún al Forum di Davos ha difeso la globalizzazione e
accusato le multinazionali americane di aver fatto per decenni utili
stratosferici, prima assolutamente inconcepibili, che poi sono finiti
nei paradisi discali, in patrimoni personali smisurati e soprattutto
nelle borse tenendo in piedi l’economia di carta. E ha portato
un esempio risalente agli anni 70 quando un cerca persone veniva
prodotto in Cina per 8 dollari e venduto a 250. L’uomo è furbo perché ha
evitato di irritare la platea paragoni più contemporaneo, quello dei
telefoni tanto per dirne una, che spesso hanno prezzi di vendita 20
volte superiori a quelli di produzione (comprendendo in essi anche
l’utile del fabbricante reale), per non parlare di televisori, computer e
praticamente tutta la panoplia dei prodotti tecnologici.
Anche riuscendo a contenere i costi nella logica di una
rilocalizzazione è del tutto evidente che non sarebbe possibile
mantenere gli stessi livelli di profitto e che questi dovrebbero quanto
meno ridursi della metà per tenere le vendite su un livello accettabile.
Il che non è ovviamente possibile in una logica economica che si è
plasmata attorno a numeri folli, a logiche in apparenza sofisticare, ma
in realtà piuttosto rozze come del resto sono le leve di gestione.
Certo, prima o poi il giochino di produrre a poco e vendere a molto si
esaurirà, ma nessuno vuole anticipare i tempi e recitare il de produndis
del neoliberismo che è l’ideologia di questo stato di cose: accadrà, ma
nel frattempo si spera che le oligarchie saranno in grado di gestire
qualsiasi disuguaglianza e il ritorno al lavoro servile, dentro un
cosmopolitismo schiavista. Ecco perché qualsiasi deviazione da questa
tabella di marcia, che rischia di desincronizzare i processi manda nei
matti l’elite di comando.
Serve la sfera di cristallo per preconizzare lo sviluppo delle cose,
ma intanto possiamo giudicare il passato e vedere come non sia stata la
globalizzazione a creare i presupposti per la messa in mora della
democrazia, del welfare, dei diritti e delle tutele, a portare al
successo l’ideologia del profitto infinito, poco tassato o del tutto
sfuggente, del privato contro uno stato demonizzato e ridotto a sbirro
dei ricchi, ma è stato proprio questo coacervo di pensiero disuguale a
suggerire la globalizzazione come strada maestra per dare la forza della
necessità e del fatto compiuto ai propri paradigmi. Con le regole
fiscali, bancarie e di scambio ancora in vigore nella prima parte degli
anni ’70, quelle che per inciso avevano dato avvio in tutto l’Occidente a
una crescita senza precedenti, il livello di profitto delle
delocalizzazioni non sarebbe valsa la candela anche a fronte delle
conseguenze politiche e di mercato che avrebbe provocato. Ma una volta
iniettato sotto pelle il pensiero unico e indebolito l’avversario
ideologico è stato possibile cambiare le regole del gioco regalando
all’offerta tutto il potere. E cominciando ad impoverire tutti per
arricchire pochi.
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