martedì 3 gennaio 2017

Perché no al reddito di cittadinanza, di Aldo Giannuli

 
A quanto pare, dopo il M5s, Sel, il Pci (già Partito dei comunisti italiani) ora anche Berlusconi si pronuncia a favore del reddito di cittadinanza. Tanta convergenza appare un po’ sospetta, vi pare?  Magari varrebbe la pena di chiedersi se tutti intendano la stessa cosa. Tutti fanno riferimento “all’Europa” ma in Europa esistono sistemi abbastanza diversi e l’indicazione chiarisce poco. Qui non vogliamo passare in rassegna le diverse soluzioni adottate, ci limiteremo solo ad alcune osservazioni generali.
Partiamo da una premessa: se si sta pensando ad un modello una tantum per venire incontro alle situazioni di sofferenza sociale esistenti, ad esempio un assegno di 5-600 euro per 18 mesi, anche allo scopo di riattivare il mercato interno e permettere a molte aziende di ripartire ed assumere, non avremmo nulla da eccepire, salvo fare i conti per capire dove prendiamo i soldi (ovviamente distraendoli da altre destinazioni attuali). Sin qui tutto bene, ma questo non è il reddito di cittadinanza, reddito garantito o comunque lo si voglia chiamare. Con questa espressione si intende un sussidio stabilmente concesso a chi non raggiunga un certo livello ritenuto necessario alla sopravvivenza. In alcuni casi il contributo è concesso per un certo periodo di tempo (in genere uno o due anni), in altri non prevede particolari limiti di tempo, ma il beneficiario deve accettare le offerte di lavoro che gli vengono fatte (magari con la facoltà di rifiutare le prime due offerte). In alcune situazione il reddito non è compatibile con altre forme di reddito, lavoro incluso, in altre l’assegno statale è una integrazione del salario da un lavoro precario o comunque sottopagato. Come si vede le forme sono diverse, e quindi ma qui facciamo un discorso in generale su uno schema base che prevede un reddito costante per un tempo prolungato.
Il primo problema che si pone è se l’assegno sia compatibile o no con un altro reddito da lavoro ovviamente basso. Naturalmente l’assegno statale si immagina sia piuttosto contenuto, diciamo 5 o 600 euro al mese con i quali nessuno può vivere, per cui, proibire che contemporaneamente si possa svolgere altro lavoro significa solo incrementare il lavoro nero e spingere il lavoratore ad accettare lavori senza versamenti di sorta. Immaginiamo invece che si conceda di affiancare un lavoro all’assegno statale. Il risultato sarebbe solo quello di spingere i datori di lavoro a tenere bassi i salari e l’assegno avrebbe solo una funzione adattativa del lavoratore alle condizioni di sotto salario. Peggio ancora se il reddito statale fosse a tempo: nessun datore di lavoro accetterebbe di assumere il lavoratore integrandone  il salario essendo molto più facile licenziarlo e trovare un altro dipendente che goda di un periodo di reddito garantito.
In ogni caso, il risultato sarebbe una ulteriore spinta al sotto salario, magari attraverso i voucher, spostando parte dell’onere adattativo sulle casse pubbliche.
In secondo luogo, si pone il problema di chi avrebbe diritto al reddito statale; andando subito al sodo: solo cittadini italiani o anche immigrati regolari? Va da sé che se il contributo fosse dato agli immigrati, questo scatenerebbe da un lato un’ ulteriore spinta ad immigrare nel nostro paese, e dall’altro prevedibilmente rafforzerebbe le spinte xenofobe. Escludere gli immigrati significherebbe creare una stratificazione sociale per cui ad una massa di bianchi poveri ma assistiti, corrisponderebbe una sotto classe di immigrati  costretti a lavorare con un reddito ancora inferiore per reggere la concorrenza degli italiani.
C’è poi il problema della fascia di età alla quale corrispondere il reddito. In primo luogo dache età? Anche agli studenti? Mi farebbe piacere ma non facciamo prima a ripristinare il presalario abolito negli anni settanta su pressione del Pci? A tutti gli ultra diciottenni? Anche a un figlio di papà che però risulti vivere da solo?
E’ ovvio che oltre i sessanta si tratterebbe semmai di aumentare le pensioni sociali, ma che facciamo con il cinquantenne che ha perso il lavoro e stenta a trovarne un altro? Magari in questo caso di potrebbe procedere con una sorta di prepensionamento. Insomma, qui il problema è quello dei trenta-quarantenni che non lavorano ed è da capire se questa sia la strada giusta.
C’è poi un altro problema da risolvere: i contributi pensionistici  da chi sarebbero versati? Il datore di lavoro li verserebbe sulla base del salario che versa e che, abbiamo detto essere tendenzialmente basso, mentre  appare poco immaginabile che lo stato, paghi gli oneri sul reddito garantito perché si tratterebbe di una spesa aggiuntiva insostenibile e poco giustificabile: ti do un reddito in cambio di nessun lavoro, poi ti metto su anche i versamenti pensionistici, per cui, in teoria un cittadino che nascondesse altri redditi, passerebbe dalla condizione di assistito in servizio  a quella assistito in pensione.
Insomma stiamo ponendo le premesse della sostanziale abolizione del sistema pensionistico (salvo che per i pochi fortunati che riusciranno ad avere un lavoro più o meno regolare) e per una generazione per la quale si prepara una vecchiaia di stenti.
Ancora: gli assistiti che fossero richiesti di fare un lavoro pubblico dovrebbero farlo senza compenso? Infatti, alcuni propongono il reddito garantito in cambio di lavori di interesse sociale con questo pensano di aver avuto una pensata geniale. Mi spiace deluderli: esperienza fatta e fallita 40 anni fa con la legge 285/77 che fu un autentico disastro. Non è il caso di ripetere.
Non mi sembra che quella del reddito garantito sia la scelta migliore e tutto sommato, pare che si tratti di una misura antipopolare, utile solo a far digerire il sistema di diseguaglianze che si è formato. Ma questo fa parte delle considerazioni politiche che rinviamo ad un prossimo pezzo.
Questo mondo sta diventando decisamente strano: pretendiamo dai giovani lavoro senza retribuzione (fra stage, tempo di lavoro a scuola, volontariato ecc)  però pensa di dare un reddito in cambio di nessun lavoro che è comunque una forma di marginalizzazione delle nuove generazioni.
 
I giovani non devono chiedere reddito ma lavoro.

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