mercoledì 2 settembre 2015

Perché è necessario che vinca ancora Tsipras di Luigi Pandolfi

TSIPRAS

Con la scelta di Alexis Tsipras di tornare al giudizio del popolo, si chiude per la Grecia un primo ciclo, di lotta e di grandi aspettative, apertosi con la vittoria di Syriza lo scorso mese di gennaio. Cosa rimane di questi mesi? Quali sono gli insegnamenti da trarne? Prima di dare una risposta a questi interrogativi, bisogna innanzitutto inquadrare bene la realtà, semplicemente fotografarla. Syriza, dopo aver accumulato forza e credibilità nelle lotte contro i memorandum sottoscritti dai precedenti governi di larghe intese, vince le elezioni con un programma basato su due pilastri: stop alle politiche di austerità e un altro taglio del valore nominale del debito, dopo quello che nel 2012 riguardò l'intero settore privato (Private Sector Involvement). Con il nuovo pacchetto di "aiuti", invece, ciò che il governo guidato da Alexis Tsipras porta a casa è un nuovo prestito (Official loan) in cambio di altre misure di austerità (e non solo). Soldi, peraltro, che serviranno per la maggior parte a dare un po' d'ossigeno all'esangue sistema bancario ed a ripagare i debiti pregressi. Invero, nient'altro che una partita di giro per consentire alla Grecia di rimanere, artificialmente, in condizione di solvibilità. Per quanto si voglia arzigogolare sulla questione, la verità è questa. Anche perché l'ipotesi di una riduzione del debito, tra l'altro non più sostenuta con la stessa forza di qualche settimana fa dallo stesso FMI, per adesso rimane, appunto, solo una (difficile) ipotesi.
D'altra parte, in un contesto sociale ed economico come quello ellenico, l'ultima cosa che si può fare è discettare se esistono avanzi primari "di sinistra" e avanzi primari "di destra", ovvero se è più "di sinistra" privatizzare un aeroporto o una ferrovia. L'economia non è una scienza esatta, ma, nel caso specifico, chiunque può rendersi conto che ulteriori tagli alla spesa pubblica sono una follia di fronte ad una ricchezza nazionale crollata del 25% negli ultimi 7 anni e ad una disoccupazione vicina al 26%. "L'austerità va praticata nelle fasi di espansione, non in quelle di crisi", ammoniva Keynes qualche decennio fa. E la storia, finora, non ha mai smentito questa regola elementare. Fino al recentissimo caso statunitense. Perché, allora? È stato detto un milione di volte, ma è utile ribadirlo: il debito greco è insostenibile, impagabile, e trattare la crisi economica (che ormai è anche crisi umanitaria) di questo Paese con nuove misure di austerità è un atto di sadismo. Pardon, sadico perseguimento di interessi mercantili e finanziari, sublimazione del credo neoliberista,"politica di potenza" (machtpolitik) esercitata a detrimento del progetto di costruzione europea. Anche un avvertimento rivolto a paesi come l'Italia e la Francia, osservati speciali nell'ambito dell'Unione a guida tedesca, molto più di altri Paesi della periferia come la Spagna, l'Irlanda o il Portogallo.
Ci si è chiesto se ci fossero alternative alla sottoscrizione di questo terzo memorandum. Anche su questo punto bisogna essere chiari, onesti: l'alternativa si chiamava uscita dall'eurozona, ciò che Syriza ha sempre categoricamente escluso nei suoi programmi. In fondo, si sarebbe trattato di una scelta, dolorosa, ma pur sempre di una scelta. Le conseguenze? Tutto sarebbe dipeso dal "come". Una cosa sarebbe stata una fuoriuscita "assistita" del Paese dalla moneta unica, altra cosa una sua "fuga di notte". Alcuni contraccolpi, in ogni caso, sarebbero stati prevedibili, plausibili, tutto il resto avrebbe richiesto la palla di vetro. Certo, la storia del mondo, e del mondo contemporaneo in particolare, è piena di "nuovi inizi", a seguito di cambi di regime, di guerre, della dissoluzione di stati sovrani, di separazioni consensuali tra realtà geografico - politiche all'interno dello stesso stato. Realisticamente, cosa sarebbe stata una fuoriuscita "controllata" della Grecia dalla zona euro a confronto della dissoluzione dell'URSS o della Yugoslavia; della separazione della Cecoslovacchia o della riunificazione tedesca? Parlare di "catastrofe" a proposito di tale evenienza, bisogna ammetterlo, è un modo, un tantino capzioso, di dare a tutti costi una giustificazione apodittica a ciò che è assolutamente opinabile. Tanto più che oggi, dopo anni di austerità, la Grecia è riuscita - a che prezzo, però! - a portare in territorio positivo il saldo del conto corrente e il suo debito "pubblico", per la gran parte, altro non è che un insieme di prestiti istituzionali a tasso fisso e basso. Nessun problema, allora? Nient'affatto. È solo che tra "problemi" e "catastrofe" ce ne corre, molto.
Rovesciando la domanda, peraltro, sarebbe opportuno interrogarsi anche sulle conseguenze che una fuoriuscita della Grecia dall'euro avrebbe potuto avere sulla tenuta della stessa eurozona, per quanto "piccolo" sia il tassello ellenico nel mosaico europeo. Ciò, a maggior ragione di fronte alle nuove turbolenze che attraversano i mercati finanziari ed alle guerre valutarie che minacciano la stabilità economica su scala globale. Hanno riflettuto su questo Wolfgang Schauble e Angela Merkel? Se dovessimo basarci sulle loro dichiarazioni, ancorché successive all'accordo, a proposito della bolla cinese, la risposta non potrebbe che essere no. Ma questa è un'altra storia. Torniamo ad Atene. Perché non è stata presa in considerazione una fuoriuscita del Paese dall'euro, perfino quando le condizioni (im)poste dai "creditori" per un "accordo" si facevano vieppiù umilianti? Evidentemente, il problema è di ordine politico, ed anche di natura simbolica e culturale. Syriza ha interpretato il sentimento prevalente tra i greci: cambiare l'Europa dal di dentro, scongiurare l'onta dell'esclusione del Paese dal club dell'euro. Nonostante il fallimento e l'aggressività delle politiche di austerità di questi anni, ancora oggi circa il 70% dei greci si dice favorevole alla moneta unica. In Italia, per fare un raffronto, lo è "solo" il 56%. Paura di un salto nel buio? Anche. È stato lo stesso Yanis Varoufakis, in un'intervista rilasciata all'indomani del referendum del 5 luglio, a riconoscere che il Paese non aveva un "adeguato know-how" per sostenere un repentino ritorno alla dracma. Di sicuro, c'è il rifiuto di accettare per la Grecia un futuro disgiunto dai destini dell'Europa, la pena che il Paese sarebbe costretto a scontare per una "colpa" (schuld) che non avrebbe: l'aver vissuto al di sopra delle sue possibilità e il non aver, infine, onorato i suoi debiti. Giudicata come una sorta di punizione, insomma, la fuoriuscita dall'euro non è stata mai valutata, dal governo e dalla stragrande maggioranza dei cittadini, come un'opportunità, ammesso che lo fosse.
Ma c'è qualcosa di ancora più profondo che caratterizza il rapporto tra la Grecia e l'Europa, ciò che non vale - o vale solo in parte - per gli altri paesi dell'Unione: il peso della classicità nella formazione della civiltà europea. Quel rapporto che faceva dire ad Hegel "Al nome Grecia l'uomo colto d'Europa, e specialmente il Tedesco, si sente a casa propria". Ciò di cui i greci sono perfettamente consapevoli, molto più di quanto non lo siano oggi alcuni connazionali del grande filosofo tedesco. Non dimentichiamo, infine, che anche la Grecia ha avuto il suo Risorgimento, legato alla guerra di indipendenza dall'Impero Ottomano negli anni venti del secolo XIX. A differenza del Risorgimento italiano, nondimeno, quello greco non ha avuto al centro semplicemente il recupero della sovranità perduta, dopo più di quattro secoli di dominazione ottomana, ma soprattutto la rivendicazione, anche sul fronte letterario, culturale, dell'identità occidentale, europea, della nazione ellenica.
Rivendicazione che trovò un riscontro speculare nel movimento, non solo intellettuale, che in Europa si spese in quegli anni per il riscatto nazionale dell'Ellade (Filellenismo). Se per paesi come il Regno Unito o la Svezia, insomma, stare fuori dall'euro costituisce un motivo di orgoglio nazionale, per la Grecia si tratterebbe di una damnatio peccatoris. Differenze, specificità, che contano nelle scelte politiche, anche quando a compierle è una forza politica della "sinistra radicale", come nel caso di Syriza.
Tale considerazione, ovviamente, non può far passare in secondo piano l'atteggiamento ricattatorio assunto dai cosiddetti "creditori" nella vicenda. Ma, intanto, "creditori" chi? Eccetto il FMI, di fatto la stessa Unione europea, di cui la Grecia fa parte al pari degli stati che il governo guidato da Alexis Tsipras si è trovato di fronte nelle vesti di "controparte". Non banche private, investitori istituzionali, vulture funds (fondi avvoltoio), ma i suoi stessi partner nel consesso euro-monetario e la BCE, al cui capitale anche Atene partecipa con il suo 2,033%. In breve: le stesse istituzioni che negli anni scorsi hanno tirato fuori dal nulla circa 2 trilioni di euro per i salvataggi bancari, senza chiedere niente in cambio ai soggetti beneficiari, di fronte ad una crisi drammatica come quella greca, diventano particolarmente e ferocemente "esigenti". Partita politica? Non vi è alcun dubbio. Sulla pelle dei greci si sta giocando una grande partita politica, da cui dipenderà il futuro prossimo dell'Europa. Da un lato la Germania, intenzionata a consolidare il suo ruolo di potenza regionale, dall'altra i paesi della periferia, tentati dall'idea di mettere in discussione l'attuale governance comunitaria, ma troppo deboli per passare dalle parole ai fatti. La Grecia, in mezzo, come monito per tutti. Nondimeno, se da parte dei governi dei paesi Piigs - ad eccezione della Grecia - a prevalere è un mix di ignavia e di attendismo, sul piano politico, sia nel centro che nella periferia, non mancano segnali incoraggianti, fuori e dentro i partiti tradizionali. È il contrappasso di tutte le crisi, almeno di quelle contemporanee, che nascono dalle viscere del sistema economico e finanziario e poi estendono la loro forza "rinnovatrice" ad altri ambiti della società ed alla sfera della politica, liberando anche forze avverse al sistema che le ha generate.
Nonostante la battuta d'arresto in Grecia, si è chiuso un ciclo, quello iniziato nel clima di euforica convinzione sulla "fine della storia", all'indomani della caduta del Muro di Berlino. L'Europa di Maastricht, che di quel clima è figlia, ormai è giunta ad un bivio: o cambia radicalmente o muore. Peraltro, a difenderne pubblicamente le virtù sono rimasti davvero in pochi, mentre crescono, diventano sempre più forti, le spinte centrifughe al suo interno. Al tempo stesso, però, si affacciano sulla scena politica e sociale nuove forze politiche e forme inedite di mobilitazioni dal basso, che anelano ad un nuovo modello di costruzione europea, non più basato sul binomio debito/austerità. Le stesse forze della sinistra "tradizionale", di ispirazione socialista, stanno vivendo un forte momento di travaglio, rivelando un volto nient'affatto monolitico al proprio interno e differenze anche molto marcate tra di loro all'interno del Partito socialista europeo.
Non solo Syriza e Podemos, quindi. Dalla piccola Croazia, dove le lotte per la casa producono risultati "politici" sorprendenti, al Regno Unito, dove alle primarie per la leadership del Labour potrebbe spuntarla un esponente storico della sinistra interna, le spinte al cambiamento sono sempre più forti, evidenti, percepibili. E poi la crescita impetuosa dello Sinn Fein in Irlanda, la netta posizione anti-austerity dei socialisti portoghesi, i buoni risultati della Linke in Germania. Si tratta, ad ogni buon conto, di situazioni molto diverse tra di loro, anche di posizioni divergenti rispetto alla prospettiva europea. Tutte, però, sono accomunate da una visione critica, più o meno radicale, dell'impianto liberista ed antidemocratico di questa Europa. Insieme, potrebbero comporre un fronte di resistenza esteso, trasversale, all'attuale dominio finanziario ed agli assetti oligarchici del potere in ambito comunitario.
In questo contesto, assumono un grande valore le prossime elezioni greche. Syriza è una componente fondamentale del fronte anti-austerity europeo e una sua permanenza al governo è non solo auspicabile, ma necessaria. Si può discutere all'infinito su eventuali errori commessi da Alexis Tsipras e dal suo governo nel corso della trattativa, ma nessuno può negare che un ritorno al governo dei vecchi partiti farebbe venir meno la possibilità di "gestire" l'accordo appena siglato in modo da mitigarne, nell'immediato, i danni per i ceti più colpiti dalla crisi di questi anni, tenendo aperta la partita per una più rapida fuoriuscita del Paese dalla morsa del debito e del memorandum stesso. "Portiamo addosso le ferite inflitteci dai nostri avversari, ma siamo determinati a continuare la guerra. Con più esperienza rispetto a prima", ha dichiarato Tsipras all'ultima conferenza del partito. In queste parole c'è l'onestà intellettuale di chi riconosce di non essere riuscito a conseguire gli obiettivi del proprio programma elettorale, ma anche la consapevolezza che la storia della lotta all'austerità e ai dogmi del neoliberismo, per la Grecia e per l'Europa, non sia finita la notte del 12 luglio scorso. A maggior ragione per le sinergie che potrebbero realizzarsi da qui a qualche mese con altri governi della periferia.
Scriveva Vladimir Ilic Lenin in Un passo avanti e due indietro (1904): "Quando si combatte una lotta lunga, accanita, ardente, dopo un certo periodo cominciano di solito a delinearsi i punti controversi centrali, fondamentali, dalla cui soluzione dipende l'esito definitivo della campagna e in confronto ai quali vengono sempre più respinti in secondo piano tutti i possibili, piccoli e insignificanti episodi della lotta stessa". Nello specifico, quali sarebbero i punti controversi centrali? Qui torniamo alla domanda iniziale, a quale lezione trarre da questa vicenda. La prima, quella più importante, è che in questa Europa, dove gli stati hanno rinunciato alla propria sovranità monetaria in assenza di unità politica, il potere "indipendente" della BCE è di fatto un potere al servizio della struttura neo-mercantilista dell'Unione. La seconda è che nella cornice del Fiscal compact non c'è spazio per politiche espansive, anti-cicliche, e redistributive. La terza è che il debito - che in alcuni paesi del mondo svolge una funzione propulsiva per l'economia reale - in Europa, e segnatamente per i paesi della periferia, costituisce uno strumento di "controllo" politico dei governi e di assoggettamento degli stati ai diktat della grande finanza. Circostanze che spiegano, peraltro, come la "trattativa" tra Atene ed i suoi "creditori" fosse viziata ab origine, al netto della volontà di alcuni "partner" di utilizzarla per ottenere lo scalpo di Alexis Tsipras. La quarta, ed ultima, è che solo un vasto movimento europeo, attraverso la lotta dal basso e nelle istituzioni, ma anche e soprattutto con l'azione di governo, può rovesciare l'attuale paradigma comunitario, imperniato su rigore e politiche di stampo neoliberista. La Grecia, con Syriza, è solo una "parte" di questo movimento, nessuno può pensare che il successo o il fallimento dell'impresa passi esclusivamente per le scelte che si compiono al Megaro Maximou. Ma che al Megaro Maximou ci sia Alexis Tsipras non è certamente secondario.

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