Il modello tedesco
Nel paese dalla più sviluppata sensibilità ecologica e dalle più severe norme ambientali, il primo gruppo industriale, il fiore all’occhiello del successo nazionale si ingegna nell’eludere l’una e le altre
Alla borsa dell’immagine, in questo travagliato 2015, la Germania balla senza sosta. Prima esibisce il volto spietato del rigore contabile e dell’austerità, poi quello umanitario dell’accoglienza e della solidarietà, infine quello truffaldino della spregiudicatezza commerciale.
Proporsi all’Europa come modello ed esempio è una pretesa che comporta qualche inconveniente. Cosicché lo scandalo delle emissioni truccate nelle auto smerciate dalla Volkswagen sul mercato americano, e chissà su quanti altri, assume un significato e una dimensione ben più vasta di una frode commerciale, sia pure commessa ed ammessa da uno “specchiato” gigante dell’industria mondiale. È l’intera strategia di marketing economico e politico perseguita da Berlino a rischiare di disfarsi. Nel paese dalla più sviluppata sensibilità ecologica e dalle più severe norme ambientali, il primo gruppo industriale, il fiore all’occhiello del successo tedesco, si ingegna nell’eludere l’una e le altre.
A poco vale allora mettersi alla caccia di responsabilità individuali, sostenere che i test, quando non rappresentino una farsa, non sono certo un impeccabile esempio di “neutralità della scienza”, ricordare che gli Stati uniti d’America, nonostante le aspirazioni verdi di Obama, restano un formidabile inquinatore planetario.
Il danno è compiuto e non saranno le multe salatissime o le dimissioni dell’amministratore delegato della casa di Wolfsburg, Martin Winterkorn a poterlo riparare.
Il fatto è che i tre volti del Modell Deutschland, sono in realtà uno solo. La politica di austerità, i bassi salari e le restrizioni del Welfare, imposti all’interno così come agli altri paesi dell’Unione europea, il bisogno di mano d’opera straniera, sia pure forzato nei suoi tempi e nei suoi modi da una pressione migratoria senza precedenti (non dal buon cuore di Angela Merkel) e l’aggressiva politica di sostegno all’export, costituiscono un insieme piuttosto coerente anche se non proprio “esemplare”. E per nulla al riparo da catastrofici incidenti di percorso.
Solo pochi giorni fa la Cancelliera aveva invitato le industrie automobilistiche tedesche ad assumere un alto numero di rifugiati. C’è da scommettere che a Wolfsburg (dove sono stati accantonati 6,5 miliardi, più della cifra complessiva stanziata da Berlino per l’emergenza migranti, allo scopo di far fronte a una parte delle multe che pioveranno su Volkswagen) prevalgano tutt’altre preoccupazioni. Le “spalle larghe” della Germania, sbandierate quotidianamente da Berlino, non sono certo il risultato di una virtuosa etica protestante, ma di una politica di protezione a oltranza delle banche e delle rendite tedesche, nonché di un’accumulazione di surplus commerciale a spese degli altri membri dell’eurozona che, come abbiamo visto, non è quel frutto immacolato dell’eccellenza produttiva teutonica che volevano farci credere. A meno di voler riconoscere anche alla tecnologia della frode una sua qualità di eccellenza.
Beninteso, è assai improbabile che il grande gruppo tedesco, sia stato il solo ad aggirare in un modo o nell’altro gli standard ambientali stabiliti. Solo l’idea, alimentata dall’autocelebrazione del liberismo, che la competitività sia un meccanismo “pulito”, una questione di “merito” e di efficienza, di capacità e di rigore, può farci accogliere con sorpresa lo “scandalo” Volkswagen. Le centraline truccate sono un evidente strumento di competizione sul mercato. Le stesse regole, come talune normative comunitarie apparentemente generate dal delirio di qualche euroburocrate, nascondono in realtà piccole e grandi guerre commerciali. Altrettanti tentativi di spostare il terreno della concorrenza a favore di determinati produttori. In questo gioco di sponda tra standard normativi e competizione sul mercato possono crearsi cortocircuiti e “danni collaterali” come quelli in cui sono incappati gli strateghi di Wolfsburg, anche se, per il momento, solo oltre Atlantico.
Ma per la Germania il cui governo diffonde senza sosta una idea “morale” e virtuosa della competitività, rimproverando i partner europei di non dedicarvi sufficienti energie e “riforme”, il guasto è davvero spaventoso. Chi considera il mercato come lo spazio deregolamentato di una concorrenza senza esclusione di colpi (i Repubblicani Usa, per esempio) non troverà in questa vicenda particolare motivo di stupore, stigmatizzando, semmai, più la frode come turbativa degli scambi che l’inquinamento come danno per la società. Ma per chi sostiene che il mercato rappresenta un “ordine” razionale e la competitività una disciplina che si esercita al suo interno secondo regole certe non sarà facile superare il trauma provocato dalla truffa ad alta tecnologia escogitata dalla Volkswagen e le sue probabili conseguenze commerciali. Di tanto in tanto quell’“ordine” si rivela, infatti, per quello che è: un rapporto di forza.
Proporsi all’Europa come modello ed esempio è una pretesa che comporta qualche inconveniente. Cosicché lo scandalo delle emissioni truccate nelle auto smerciate dalla Volkswagen sul mercato americano, e chissà su quanti altri, assume un significato e una dimensione ben più vasta di una frode commerciale, sia pure commessa ed ammessa da uno “specchiato” gigante dell’industria mondiale. È l’intera strategia di marketing economico e politico perseguita da Berlino a rischiare di disfarsi. Nel paese dalla più sviluppata sensibilità ecologica e dalle più severe norme ambientali, il primo gruppo industriale, il fiore all’occhiello del successo tedesco, si ingegna nell’eludere l’una e le altre.
A poco vale allora mettersi alla caccia di responsabilità individuali, sostenere che i test, quando non rappresentino una farsa, non sono certo un impeccabile esempio di “neutralità della scienza”, ricordare che gli Stati uniti d’America, nonostante le aspirazioni verdi di Obama, restano un formidabile inquinatore planetario.
Il danno è compiuto e non saranno le multe salatissime o le dimissioni dell’amministratore delegato della casa di Wolfsburg, Martin Winterkorn a poterlo riparare.
Il fatto è che i tre volti del Modell Deutschland, sono in realtà uno solo. La politica di austerità, i bassi salari e le restrizioni del Welfare, imposti all’interno così come agli altri paesi dell’Unione europea, il bisogno di mano d’opera straniera, sia pure forzato nei suoi tempi e nei suoi modi da una pressione migratoria senza precedenti (non dal buon cuore di Angela Merkel) e l’aggressiva politica di sostegno all’export, costituiscono un insieme piuttosto coerente anche se non proprio “esemplare”. E per nulla al riparo da catastrofici incidenti di percorso.
Solo pochi giorni fa la Cancelliera aveva invitato le industrie automobilistiche tedesche ad assumere un alto numero di rifugiati. C’è da scommettere che a Wolfsburg (dove sono stati accantonati 6,5 miliardi, più della cifra complessiva stanziata da Berlino per l’emergenza migranti, allo scopo di far fronte a una parte delle multe che pioveranno su Volkswagen) prevalgano tutt’altre preoccupazioni. Le “spalle larghe” della Germania, sbandierate quotidianamente da Berlino, non sono certo il risultato di una virtuosa etica protestante, ma di una politica di protezione a oltranza delle banche e delle rendite tedesche, nonché di un’accumulazione di surplus commerciale a spese degli altri membri dell’eurozona che, come abbiamo visto, non è quel frutto immacolato dell’eccellenza produttiva teutonica che volevano farci credere. A meno di voler riconoscere anche alla tecnologia della frode una sua qualità di eccellenza.
Beninteso, è assai improbabile che il grande gruppo tedesco, sia stato il solo ad aggirare in un modo o nell’altro gli standard ambientali stabiliti. Solo l’idea, alimentata dall’autocelebrazione del liberismo, che la competitività sia un meccanismo “pulito”, una questione di “merito” e di efficienza, di capacità e di rigore, può farci accogliere con sorpresa lo “scandalo” Volkswagen. Le centraline truccate sono un evidente strumento di competizione sul mercato. Le stesse regole, come talune normative comunitarie apparentemente generate dal delirio di qualche euroburocrate, nascondono in realtà piccole e grandi guerre commerciali. Altrettanti tentativi di spostare il terreno della concorrenza a favore di determinati produttori. In questo gioco di sponda tra standard normativi e competizione sul mercato possono crearsi cortocircuiti e “danni collaterali” come quelli in cui sono incappati gli strateghi di Wolfsburg, anche se, per il momento, solo oltre Atlantico.
Ma per la Germania il cui governo diffonde senza sosta una idea “morale” e virtuosa della competitività, rimproverando i partner europei di non dedicarvi sufficienti energie e “riforme”, il guasto è davvero spaventoso. Chi considera il mercato come lo spazio deregolamentato di una concorrenza senza esclusione di colpi (i Repubblicani Usa, per esempio) non troverà in questa vicenda particolare motivo di stupore, stigmatizzando, semmai, più la frode come turbativa degli scambi che l’inquinamento come danno per la società. Ma per chi sostiene che il mercato rappresenta un “ordine” razionale e la competitività una disciplina che si esercita al suo interno secondo regole certe non sarà facile superare il trauma provocato dalla truffa ad alta tecnologia escogitata dalla Volkswagen e le sue probabili conseguenze commerciali. Di tanto in tanto quell’“ordine” si rivela, infatti, per quello che è: un rapporto di forza.
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