venerdì 11 settembre 2015

L'illusione del padronato italiano

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di Pasquale Cicalese per Marx21.it

E’ una storia che va avanti dal 1992, caratterizza la Seconda Repubblica, è la vera e propria costituzione materiale: la svalorizzazione della forza lavoro. E’ l’unica controtendenza alla caduta del saggio di profitto che il padronato italiano applica per sfuggire alla crisi da sovrapproduzione, applicando il modello tedesco dell’export led.

Il rallentamento del tasso di crescita dell’economia mondiale, da una media di 5,8% pre crisi, all’attuale 3,2% amplifica lo scontro per accaparrarsi mercati avendo come unica arma la flessibilizzazione completa  e la liquidità della forza lavoro. Potrebbe andar bene, per i padroni, nel contesto tedesco, non certo in Italia.

Il motivo lo spiega in un’intervista a La Stampa del 5 settembre scorso Andrea Guerra, ex Ad di Luxottica, oggi principale consigliere di Renzi: le aziende medie sono troppo piccole rispetto ai loro concorrenti esteri e le aziende piccole in realtà sono microcosmi, inutili nella competizione globale. Per Guerra per decenni ci si è adattati incolpando la politica ma la realtà è che con l’evasione fiscale c’è stata la selezione del peggiore.

La domanda mondiale langue e dove c’è è troppo distante per il 98% delle aziende italiane. Solo 13 mila sono stabili esportatori, mentre circa 50 mila piccole imprese fanno un tocca e fuggi nel mercato mondiale. Il 4 settembre il centro studi Confindustria pubblicava uno studio sulla stagnazione secolare che colpisce l’economia mondiale, data dal crollo del tasso di natalità, dal crollo della produttività e degli investimenti e da scarse innovazioni tecnologiche, oltre che dalle disuguaglianze. Un solo dato: il tasso di investimento in Europa è passato dal misero 23% al 20,2%, in Italia dal 21,3% del livello medio pre-crisi all’orrendo 16,8.  Per intenderci, in Cina raggiunge il 40% e anzi è accusata di questo..

Nessuno in Italia investe e da che mondo è mondo la produttività è data dal rapporto capitale lavoro. Gli impianti sono vecchi, c’è scarsa innovazione di prodotto e di processo e ciò incide notevolmente sul prodotto potenziale, abbassatosi a livelli infimi (1%, quando va bene).

Con il Jobs Act si completa il quadro: il Governo, ancora una volta, come negli ultimi 23 anni, dà l’alibi al padronato a non investire, tanto ha una forza lavoro talmente liquida che gli assicura profitti in breve. Applica in tal modo il modello delle microimprese alle realtà medio grandi: il sanfedismo, in luogo di essere combattuto, dilaga nel mondo produttivo italiano.

Ma siamo sicuri che è una via di successo? Guardiamo i dati del pil del primo semestre 2015: su di un dato acquisito dello 0,6%, la gran parte è costituita da scorte, si sono riempiti i magazzini e se nei prossimi mesi non si vendono questi prodotti, la stagnazione è dietro l’angolo. Il quadro internazionale certo non aiuta. Sono tutti lì a trovare un capro espiatorio, la Cina. La realtà è che il padronato europeo, che ha distrutto la domanda interna, cercava in quel paese e nei paesi emergenti sbocchi per la loro merce, senza capire che nel frattempo tali paesi si erano industrializzati e che, spostando l’accento sulla domanda interna, il loro fabbisogno può essere benissimo soddisfatto dalle loro aziende. Se c’è una cosa che è successa nell’ultimo decennio è che la divisione del lavoro, per lo meno in Asia si è appiattita, anche loro ormai producono beni di media se non alta tecnologia (vedi smartphone e aggeggi elettronici). Quanto poi alla produzione industriale, l’unico settore che tira è l’automotive per coprire il mercato nordamericano, il resto è stagnante se non in arretramento.

Nonostante la svalutazione di circa il 20% dell’euro l’export italiano nei primi 6 mesi dell’anno è cresciuto di appena l’1% a livello congiunturale, dunque un’altra controtendenza alla caduta del saggio di  profitto, vale a dire la conquista del mercato mondiale, viene meno. C’è poi la quotazione azionaria, ma qui si assiste più che altro a delisting di aziende che vengono comprati da operatori esteri. 
Dunque, svalorizzazione della forza lavoro, crollo del tasso di investimento, caduta del prodotto potenziale, svalorizzazione del capitale umano con la Buona Scuola, libertà di licenziamento a man bassa adottando il modello sanfedista anche alle realtà medio-grandi. E nonostante ciò, la disoccupazione non accenna a diminuire: hanno usato toni trionfalistici dell’ultimo dato, sceso da 12,5 al 12%. A leggere bene però il comunicato Istat di fine agosto si scopre che nel giro di un mese ben 100 mila persone, soprattutto donne, sono state classificate nella casella degli inattivi, cioè dei scoraggiati, gente che non ha più fiducia di trovare un lavoro, ben lo 0,7% in più mese su mese. Da qui l’arcano della diminuzione del tasso di occupazione.

Solo Fubini del Corriere ha parlato di questo dato, tutti gli altri mass media erano in lode a Padoan e Renzi. L’Italia si presenta nel XXI° secolo appiattita verso un’inclinazione sanfedista, a parte poche eccezioni. Per decenni questo blocco ha vissuto di subfornitura con la Germania, ma dopo la riunificazione e l’allargamento all’est questo paese ha creato una propria subfornitura con costi ancora più bassi nell’est, spiazzando quella italiana, che non è riuscita a riorganizzarsi e a trovare nuovi sbocchi di mercato, date le dimensioni lillipuziane delle aziende.

L’unico sbocco, se non l’unica soluzione, è che migliaia di aziende vengano comprate e valorizzate da operatori esteri, possibilmente cinesi, come già sta accadendo,  per servire i mercati europei, russi, dell’Asia centrale e dell’Africa, aggregandoli tra loro e promuovendo le reti ferroviarie e portuali italiane, stante la posizione strategica del Paese. Il padronato non ha questa visione, ossessionato dal costo del lavoro e dai controlli a distanza.  E’ vecchio, stantio, non vuole rischiare più perché da decenni non è abituato. La grandi famiglie imprenditoriali hanno migliaia di miliardi di euro in cassa e il solo risparmio gestito, frutto di profitti industriali non reinvestii ad agosto ha superato la quota di 1700 miliardi di euro.

Questo governo, a differenza di quello di Berlusconi, si caratterizza per il forte sostegno, tramite il protezionismo fiscale e la svalorizzazione della forza lavoro, al profitto industriale contro il capitale commerciale, secondo la regola di Henrik Grossmann e di Marx. Ma a ciò non fa seguito affatto una politica di investimenti industriali tale per cui non fa altro che aumentare la rendita finanziaria, che blocca il prodotto potenziale e depotenzia l’apparato industriale. Oltretutto, nella guerra tra capitali con il capitalismo tedesco esce tramortito perché non ha la stazza e la proiezione internazionale di questo. Che vengano operatori esteri affiancati da un’azione di politica industriale pubblica che assecondi la rivoluzione tecnologica di Industry 4.0. Gli altri paesi lo fanno, qui si discute dei sindacalisti poco avvezzi ad accettare lo stato delle cose presenti, di cui loro, tra l’altro, per decenni hanno contribuito

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