Le vicende greche, la crisi che si estende alla Cina, gli imponenti flussi migratori e il rafforzamento della tendenza alla guerra caratterizzano il quadro generale degli ultimi mesi. In Italia e in Europa siamo davanti ad uno stravolgimento del piano economico, sociale, istituzionale e politico. Di fronte alla complessità degli eventi appare utile assumere un posizionamento chiaro per aggregare forze e consensi. Per farlo occorre provare a comprendere fino in fondo la realtà, capire le nuove dinamiche sociali e economiche, proporre una prospettiva a medio termine e un modello di società alternativa a lungo termine
A monte dello stravolgimento della realtà, c’è la crisi di lunga durata del capitalismo. Alcuni economisti, tra cui l’ex Segretario al Tesoro statunitense Larry Summers, parlano di “crisi secolare”. Altri economisti paragonano la crisi attuale alla grande crisi ventennale che si sviluppò tra 1873 e 1895, dando luogo alla fase imperialista del capitalismo e alla competizione tra potenze che sfociò nella Prima guerra mondiale. La crisi attuale è iniziata con lo scoppio dei mutui subprime nel 2007 ed è proseguita come crisi del debito sovrano, ma non è specificatamente una crisi finanziaria. Quella finanziaria è solo la forma esteriore che assume. Il contenuto della crisi è la sovraccumulazione di capitale che ha raggiunto livelli assoluti e determina crescenti difficoltà nel mantenimento di adeguati saggi di profitto. Come in ogni grande crisi, anche in questa occasione il capitale sta generando una riorganizzazione profonda dei processi di produzione e di circolazione. Quelle che osserviamo ogni giorno ne sono le conseguenze più o meno dirette.
Le politiche di stampo neoliberista rappresentano un aspetto sicuramente cruciale della riorganizzazione generale del capitale, al quale, però, va aggiunta l’internazionalizzazione crescente dei processi produttivi, che segnano il passaggio dalla fase del capitalismo monopolistico di stato alla fase del capitalismo globalizzato. L’integrazione economica europea è stata lo strumento di implementazione delle politiche neoliberiste. Tuttavia, la semplice unione economica si è rivelata insufficiente all’affermazione delle politiche neoliberiste, almeno in rapporto alle necessità del capitale. Era necessario che l’Unione europea diventasse unione monetaria. Ora è l’euro la leva che permette al capitale di implementare la riorganizzazione di cui ha bisogno. L’autonomia della Bce, la sottrazione del controllo della valuta e del bilancio pubblico agli stati impongono ai singoli popoli politiche restrittive che altrimenti sarebbe stato impossibile attuare, bypassando i parlamenti nazionali. Il ricatto del debito è lo strumento per imporre le cosiddette riforme di struttura, mentre l’esistenza di una valuta unica impone la deflazione salariale al posto della svalutazione come leva competitiva. Il modello economico che si afferma è quello neomercantilista basato sulle esportazioni, foriero di ulteriori squilibri e tensioni internazionali. L’obiettivo non è la crescita economica, che infatti latita, ma il rialzo dei profitti. Ciò avviene soprattutto mediante l’attacco ai salariati ma anche attraverso un attacco ai settori intermedi della società, compresi i settori più deboli del capitale stesso, che alimentano le proteste della Lega e del Movimento Cinque Stelle. L’euro e le politiche di austerity non sono un errore, sono uno strumento specificatamente nato e progettato allo scopo di riorganizzare l’accumulazione capitalistica, rivoltando come un guanto la società europea.
Una parte della crisi della sinistra deriva dalla non sufficiente comprensione prima del processo di unificazione europea e successivamente della natura dell’euro e della sua centralità nell’attacco neoliberista. Si è concentrata la critica solo sul neoliberismo, cioè in definitiva sul piano ideologico-programmatico, mentre non si è affrontata con la dovuta chiarezza la critica allo strumento politico-economico, l’integrazione valutaria. Si è continuato a vedere i processi di integrazione europea in atto come un fatto in sé progressivo, limitandosi a criticare il modo, giudicato errato, in cui venivano condotti. Anche oggi, il timore di essere confusi con la destra nazionalista e con i partiti populisti inibisce molti dall’evidenziare il nesso tra “sovrannazionalismo”, riorganizzazione del capitale e smantellamento della posizioni della classe lavoratrice. In questa luce riteniamo vada data una lettura articolata della vicenda greca senza anatemi o tifoserie fuori luogo e soprattutto con spirito di umiltà di fronte a chi comunque ci ha provato e ci sta provando sul serio nel suo Paese. Syriza e lo stesso Tsipras hanno pensato, infatti, per mesi che fosse sufficiente trattare da governo a governo con la Germania per risolvere la questione dell’austerità, senza porsi la questione del contesto economico-valutario. Ma si è visto che il problema principale non era tanto ripagare il debito, bensì il rispetto delle regole europee e soprattutto l’attuazione di quelle “riforme di struttura”, in cui consiste la riorganizzazione europea dell’accumulazione di capitale. Senza riforme nessun accordo sarebbe stato possibile. Di fatto, Tsipras è stato costretto ad accettare, dopo lunghe trattative, condizioni persino peggiorative rispetto a quelle che gli erano state proposte inizialmente, che contrastano con il programma con cui era stato eletto a gennaio e soprattutto dopo che erano tali condizioni erano state rifiutate con il referendum dalla maggioranza dei greci. Una questione, quella del referendum, che rimanda forse all’aspetto più problematico dal punto di vista politico. Aldilà del ragionamento sui motivi che abbiano indotto Syriza ad indire il referendum, è chiaro che, se si porta il livello dello scontro cosi in alto, poi o si arriva fino in fondo o l’effetto boomerang rischia di essere pesantissimo. Forse una gestione più oculata della prima parte della trattativa avrebbe probabilmente suscitato meno aspettative ma avrebbe avuto almeno il merito di conservare le forze e guadagnare il tempo necessario per attrezzarsi in vista di uno scontro più a lungo termine.
Ad ogni modo, dopo le elezioni del 20 settembre Tsipras dispone di un “secondo tempo”, sebbene la vittoria elettorale più recente sia diversa da quella di gennaio. Non vanno oscurati a noi stessi i dati dell’astensionismo probabilmente figlio in gran parte della grave battuta d’arresto subita dal governo greco con l’accordo europeo che sembra avere il senso di aver solo procrastinato la resa dei conti. Ma il secondo tempo ci sarà e si vedrà. In questo quadro pare utile ribadire che le vicende greche sono importanti ma non vanno assolutizzate.
La Grecia è un paese particolarmente ricattabile non solo perché è molto piccolo ma anche perché ha una struttura industriale e manifatturiera debolissima con una bilancia commerciale perennemente in forte deficit e questo sicuramente ha condizionato in qualche misura le scelte del governo greco. Ma anche se la Grecia fosse un paese economicamente e politicamente più importante avrebbe poco senso prenderlo come esempio positivo o negativo per quello che oggi dobbiamo fare in Italia. Ogni paese ha una sua specificità e cioè vale anche per l’Italia e la Grecia, che sono paesi, per tanti aspetti, molto diversi. Possiamo continuare a spendere litri di inchiostro sulla Grecia, ma quello che risulta più importante ora è cosa si ricava dall’esperienza greca per l’azione in Italia e nel resto dell’Europa. Ancor meno senso ha dividerci su Tsipras e sulla Grecia: ciò su cui dobbiamo discutere sono i contenuti attorno a cui definire una posizionamento politico generale. Per cominciare, non possiamo eludere la questione principale: dobbiamo definire una linea condivisa tra i comunisti e all’interno della sinistra sull’euro. Noi riteniamo che i punti su cui ci sia bisogno di trovare un accordo siano tre:
a) La funzionalità dell’integrazione valutaria europea agli scopi di riorganizzazione complessiva della società da parte del capitale;
b) L’irriformabilità dell’euro proprio a causa della sua architettura che costituisce una gabbia ferrea per i lavoratori europei;
c) La necessità, quindi, di superare l’euro.
Che vuol dire superare l’euro? Vuol dire che il primo elemento da cui partire per definire un orientamento politico che sia veramente attuale è mettere in discussione l’architettura che lo sorregge e riconoscere nella moneta unica uno dei vettori principali dell’attacco alla classe salariata europea sul piano economico e politico. Se non c’è chiarezza su questo aspetto risulta poco realistico articolare una politica antiausterity, dato il legame tra euro e austerity. Il tema di oggi non è disquisire tecnicamente se il superamento avvenga in un modo o in un altro, attraverso una uscita unilaterale o concordata di un singolo paese o di più paesi o attraverso uno scioglimento consensuale dell’intera area. Sicuramente, però, se il superamento dell’euro è una condizione necessaria alla definizione di una strategia ciò non vuol dire che sia una condizione sufficiente. Se l’euro è lo strumento principe, chi lo usa come un grimaldello è il capitale. Quindi, il superamento dell’euro va collegato ad una critica generale al capitale e alla ridefinizione di un concetto di ripresa dell’intervento pubblico diretto nell’economia, che, a sua volta implica una rinnovata riflessione sulle forme dello stato, sul rapporto tra masse e potere ed in definitiva una critica di classe sulla questione dello Stato. Del resto, ancora la Grecia di Tsipras ci dimostra che vincere le elezioni e conquistare il governo non equivale a conquistare il potere effettivo.
Il potere effettivo riguarda, infatti, il comando diretto sui gangli vitali della società. Dalla burocrazia all’esercito, dalla banca centrale ai settori principali dell’economia se restano in mano alle classi dominanti difficile è incidere strategicamente. Senza rompere almeno parte della macchina statale precedente e far crescere anche in nuce una nuova entità statale difficilmente si può reggere un qualsiasi livello di scontro in grado di portare ad una vittoria duratura. Questo è l’unico sbocco che i dominati hanno per vincere.
È proprio partendo da questo assunto che abbiamo bisogno di fare un ulteriore passo avanti nella nostra riflessione per definire un orientamento e un posizionamento attuali. I processi di ristrutturazione della società europea, che determinano l’impoverimento di massa e l’emarginazione politica di milioni di lavoratori, stanno producendo profonde trasformazioni anche nelle forme della rappresentanza politica e partitica. Purtroppo, ciò sta avvenendo non nel senso che molti avevano sperato. Anche se la situazione varia molto da paese a paese e in Italia appare particolarmente negativa, la polarizzazione sociale non sta favorendo in misura significativa i partiti comunisti in nessun paese. A beneficiare della crisi della socialdemocrazia europea e del partito popolare europeo sono soprattutto i partiti populisti e, fatto recente da osservare con attenzione, la rinascita di una socialdemocrazia che ritorna a una dimensione classica, come nel caso inaspettato della vittoria di Jeremy Corbyn alle primarie del Labour britannico. Bisognerebbe chiedersi perché questo accada. È vero che, almeno in Italia, nell’emarginazione dei comunisti ha giocato un certo ruolo la questione della casta e un ruolo ancora più importante il governismo, segnatamente la partecipazione disastrosa ai governi Prodi. C’è, però, un’altra questione ancora più importante. Si tratta del discredito del comunismo come alternativa allo stato di cose presenti, che è ormai diventato senso comune. I comunisti non sono stati capaci di reagire in modo creativo a questa aggressione, cioè attraverso la definizione di un nuovo proprio paradigma che contenga gli elementi del socialismo adeguato all’oggi. Ci si è limitati a ripetere sempre più stancamente il vecchio paradigma, anche se declinato in maniere a volte anche molto diverse tra di loro. Non porsi il problema della definizione di un nuovo paradigma, a fronte di una realtà che si è modificata profondamente, vuol dire scomparire definitivamente e non c’è tatticismo o politicismo che tenga per evitarlo.
Tale debolezza strategica dei comunisti non può essere sottaciuta. Ed il percorso di ridefinizione di tale paradigma non potrà essere lineare, a meno che non si pensi che per farlo i comunisti debbano rinchiudersi in una setta. Per questa ragione, non possono essere sottovalutati i segnali di ritorno di una parte della socialdemocrazia ad una dimensione “classica”. Da questo punto di vista il documento firmato da Varoufakis, Lafontaine, Fassina, Melanchon va valutato con molta attenzione. In quel documento possiamo riscontrare una riflessione che affronta alcuni nodi in maniera, almeno in parte, condivisibile. Si tratta di nodi cruciali, visto che riguardano l’euro, la sua funzione strategica e l’atteggiamento da tenere nei suoi confronti. Su questi temi da parte dei firmatari del documento ci sono passi in avanti importanti. Noi non pensiamo che sia necessario condividere l’intera impostazione teorica di coloro che hanno promosso quel documento, bensì riteniamo che sia possibile condividerne alcuni obiettivi politici su alcune questioni importanti. Di fronte alla possibile apertura di importanti spazi politici, sarebbe miope rinchiudersi in sé stessi rifiutando qualunque relazione, così come sarebbe altrettanto errato rinunciare ad avere una definita e autonoma fisionomia programmatica in nome dell’unità.
Del resto, in Italia possiamo fare a meno di aprire una relazione con quanto si muove a sinistra, in particolare con la sinistra che oggi ha deciso di rompere con il PD? Pensiamo davvero che, nelle difficili condizioni soggettive ed oggettive in cui ci troviamo, sia possibile ai comunisti portare avanti un progetto completamente autonomo che sia credibile?
La questione in discussione, per quanto ci riguarda, non è quella di costruire un’aggregazione partitica unitaria a sinistra, bensì quella di definire un nuovo campo di azione, anche sul terreno della rappresentanza, in modo da ricostruire un riferimento credibile nel nostro Paese per le classi subalterne. Caratterizzare la nostra presenza in tale percorso ed in generale nella battaglia politica dei prossimi anni è dunque decisivo. La definizione di un nostro profilo politico, il profilo di Rifondazione Comunista, è fondamentale se intendiamo influenzare il resto della sinistra evitare ogni possibile subalternità. A questo proposito bisogna essere consapevoli che i passaggi tattici non possono e non devono ipotecare in una direzione o in un’altra il futuro e che invece ad essere decisiva sarà la capacità di svolgere un lavoro lungo e paziente di reinsediamento nel tessuto di classe.
A questo proposito, è necessario far avanzare la battaglia in Italia e in Europa sia sul terreno tattico che strategico. La rottura di ogni collaborazione con i partiti di centro-sinistra che sono l’asse portante della UE, come il Pd, il Psf e la Spd, è imprescindibile se si vuole riacquisire credibilità, così come lo è la capacità di dire parole finalmente chiare sulla funzione dell’euro e della UE. Su questi due aspetti, che hanno un profondo nesso tra loro, si può provare a ripartire, articolando un programma in grado di aggredire le fondamentali questioni materiali che colpiscono la maggioranza dei lavoratori e dei settori popolari. Tenendo fermi questi due punti è possibile cercare di stabilire un rapporto di collaborazione con i settori fuoriusciti dall’alveo neoliberista della socialdemocrazia europea.
È su questi temi che va portata la discussione a sinistra, senza settarismi e senza subalternità nei confronti di nessuno. Ovviamente tutto ciò ha poco senso se, come abbiamo già accennato, i comunisti non si misurano di nuovo con la comprensione di una realtà profondamente cambiata e non si impegnano a ricostruire, a livello di massa, una prospettiva di trasformazione rivoluzionaria della società.
A monte dello stravolgimento della realtà, c’è la crisi di lunga durata del capitalismo. Alcuni economisti, tra cui l’ex Segretario al Tesoro statunitense Larry Summers, parlano di “crisi secolare”. Altri economisti paragonano la crisi attuale alla grande crisi ventennale che si sviluppò tra 1873 e 1895, dando luogo alla fase imperialista del capitalismo e alla competizione tra potenze che sfociò nella Prima guerra mondiale. La crisi attuale è iniziata con lo scoppio dei mutui subprime nel 2007 ed è proseguita come crisi del debito sovrano, ma non è specificatamente una crisi finanziaria. Quella finanziaria è solo la forma esteriore che assume. Il contenuto della crisi è la sovraccumulazione di capitale che ha raggiunto livelli assoluti e determina crescenti difficoltà nel mantenimento di adeguati saggi di profitto. Come in ogni grande crisi, anche in questa occasione il capitale sta generando una riorganizzazione profonda dei processi di produzione e di circolazione. Quelle che osserviamo ogni giorno ne sono le conseguenze più o meno dirette.
Le politiche di stampo neoliberista rappresentano un aspetto sicuramente cruciale della riorganizzazione generale del capitale, al quale, però, va aggiunta l’internazionalizzazione crescente dei processi produttivi, che segnano il passaggio dalla fase del capitalismo monopolistico di stato alla fase del capitalismo globalizzato. L’integrazione economica europea è stata lo strumento di implementazione delle politiche neoliberiste. Tuttavia, la semplice unione economica si è rivelata insufficiente all’affermazione delle politiche neoliberiste, almeno in rapporto alle necessità del capitale. Era necessario che l’Unione europea diventasse unione monetaria. Ora è l’euro la leva che permette al capitale di implementare la riorganizzazione di cui ha bisogno. L’autonomia della Bce, la sottrazione del controllo della valuta e del bilancio pubblico agli stati impongono ai singoli popoli politiche restrittive che altrimenti sarebbe stato impossibile attuare, bypassando i parlamenti nazionali. Il ricatto del debito è lo strumento per imporre le cosiddette riforme di struttura, mentre l’esistenza di una valuta unica impone la deflazione salariale al posto della svalutazione come leva competitiva. Il modello economico che si afferma è quello neomercantilista basato sulle esportazioni, foriero di ulteriori squilibri e tensioni internazionali. L’obiettivo non è la crescita economica, che infatti latita, ma il rialzo dei profitti. Ciò avviene soprattutto mediante l’attacco ai salariati ma anche attraverso un attacco ai settori intermedi della società, compresi i settori più deboli del capitale stesso, che alimentano le proteste della Lega e del Movimento Cinque Stelle. L’euro e le politiche di austerity non sono un errore, sono uno strumento specificatamente nato e progettato allo scopo di riorganizzare l’accumulazione capitalistica, rivoltando come un guanto la società europea.
Una parte della crisi della sinistra deriva dalla non sufficiente comprensione prima del processo di unificazione europea e successivamente della natura dell’euro e della sua centralità nell’attacco neoliberista. Si è concentrata la critica solo sul neoliberismo, cioè in definitiva sul piano ideologico-programmatico, mentre non si è affrontata con la dovuta chiarezza la critica allo strumento politico-economico, l’integrazione valutaria. Si è continuato a vedere i processi di integrazione europea in atto come un fatto in sé progressivo, limitandosi a criticare il modo, giudicato errato, in cui venivano condotti. Anche oggi, il timore di essere confusi con la destra nazionalista e con i partiti populisti inibisce molti dall’evidenziare il nesso tra “sovrannazionalismo”, riorganizzazione del capitale e smantellamento della posizioni della classe lavoratrice. In questa luce riteniamo vada data una lettura articolata della vicenda greca senza anatemi o tifoserie fuori luogo e soprattutto con spirito di umiltà di fronte a chi comunque ci ha provato e ci sta provando sul serio nel suo Paese. Syriza e lo stesso Tsipras hanno pensato, infatti, per mesi che fosse sufficiente trattare da governo a governo con la Germania per risolvere la questione dell’austerità, senza porsi la questione del contesto economico-valutario. Ma si è visto che il problema principale non era tanto ripagare il debito, bensì il rispetto delle regole europee e soprattutto l’attuazione di quelle “riforme di struttura”, in cui consiste la riorganizzazione europea dell’accumulazione di capitale. Senza riforme nessun accordo sarebbe stato possibile. Di fatto, Tsipras è stato costretto ad accettare, dopo lunghe trattative, condizioni persino peggiorative rispetto a quelle che gli erano state proposte inizialmente, che contrastano con il programma con cui era stato eletto a gennaio e soprattutto dopo che erano tali condizioni erano state rifiutate con il referendum dalla maggioranza dei greci. Una questione, quella del referendum, che rimanda forse all’aspetto più problematico dal punto di vista politico. Aldilà del ragionamento sui motivi che abbiano indotto Syriza ad indire il referendum, è chiaro che, se si porta il livello dello scontro cosi in alto, poi o si arriva fino in fondo o l’effetto boomerang rischia di essere pesantissimo. Forse una gestione più oculata della prima parte della trattativa avrebbe probabilmente suscitato meno aspettative ma avrebbe avuto almeno il merito di conservare le forze e guadagnare il tempo necessario per attrezzarsi in vista di uno scontro più a lungo termine.
Ad ogni modo, dopo le elezioni del 20 settembre Tsipras dispone di un “secondo tempo”, sebbene la vittoria elettorale più recente sia diversa da quella di gennaio. Non vanno oscurati a noi stessi i dati dell’astensionismo probabilmente figlio in gran parte della grave battuta d’arresto subita dal governo greco con l’accordo europeo che sembra avere il senso di aver solo procrastinato la resa dei conti. Ma il secondo tempo ci sarà e si vedrà. In questo quadro pare utile ribadire che le vicende greche sono importanti ma non vanno assolutizzate.
La Grecia è un paese particolarmente ricattabile non solo perché è molto piccolo ma anche perché ha una struttura industriale e manifatturiera debolissima con una bilancia commerciale perennemente in forte deficit e questo sicuramente ha condizionato in qualche misura le scelte del governo greco. Ma anche se la Grecia fosse un paese economicamente e politicamente più importante avrebbe poco senso prenderlo come esempio positivo o negativo per quello che oggi dobbiamo fare in Italia. Ogni paese ha una sua specificità e cioè vale anche per l’Italia e la Grecia, che sono paesi, per tanti aspetti, molto diversi. Possiamo continuare a spendere litri di inchiostro sulla Grecia, ma quello che risulta più importante ora è cosa si ricava dall’esperienza greca per l’azione in Italia e nel resto dell’Europa. Ancor meno senso ha dividerci su Tsipras e sulla Grecia: ciò su cui dobbiamo discutere sono i contenuti attorno a cui definire una posizionamento politico generale. Per cominciare, non possiamo eludere la questione principale: dobbiamo definire una linea condivisa tra i comunisti e all’interno della sinistra sull’euro. Noi riteniamo che i punti su cui ci sia bisogno di trovare un accordo siano tre:
a) La funzionalità dell’integrazione valutaria europea agli scopi di riorganizzazione complessiva della società da parte del capitale;
b) L’irriformabilità dell’euro proprio a causa della sua architettura che costituisce una gabbia ferrea per i lavoratori europei;
c) La necessità, quindi, di superare l’euro.
Che vuol dire superare l’euro? Vuol dire che il primo elemento da cui partire per definire un orientamento politico che sia veramente attuale è mettere in discussione l’architettura che lo sorregge e riconoscere nella moneta unica uno dei vettori principali dell’attacco alla classe salariata europea sul piano economico e politico. Se non c’è chiarezza su questo aspetto risulta poco realistico articolare una politica antiausterity, dato il legame tra euro e austerity. Il tema di oggi non è disquisire tecnicamente se il superamento avvenga in un modo o in un altro, attraverso una uscita unilaterale o concordata di un singolo paese o di più paesi o attraverso uno scioglimento consensuale dell’intera area. Sicuramente, però, se il superamento dell’euro è una condizione necessaria alla definizione di una strategia ciò non vuol dire che sia una condizione sufficiente. Se l’euro è lo strumento principe, chi lo usa come un grimaldello è il capitale. Quindi, il superamento dell’euro va collegato ad una critica generale al capitale e alla ridefinizione di un concetto di ripresa dell’intervento pubblico diretto nell’economia, che, a sua volta implica una rinnovata riflessione sulle forme dello stato, sul rapporto tra masse e potere ed in definitiva una critica di classe sulla questione dello Stato. Del resto, ancora la Grecia di Tsipras ci dimostra che vincere le elezioni e conquistare il governo non equivale a conquistare il potere effettivo.
Il potere effettivo riguarda, infatti, il comando diretto sui gangli vitali della società. Dalla burocrazia all’esercito, dalla banca centrale ai settori principali dell’economia se restano in mano alle classi dominanti difficile è incidere strategicamente. Senza rompere almeno parte della macchina statale precedente e far crescere anche in nuce una nuova entità statale difficilmente si può reggere un qualsiasi livello di scontro in grado di portare ad una vittoria duratura. Questo è l’unico sbocco che i dominati hanno per vincere.
È proprio partendo da questo assunto che abbiamo bisogno di fare un ulteriore passo avanti nella nostra riflessione per definire un orientamento e un posizionamento attuali. I processi di ristrutturazione della società europea, che determinano l’impoverimento di massa e l’emarginazione politica di milioni di lavoratori, stanno producendo profonde trasformazioni anche nelle forme della rappresentanza politica e partitica. Purtroppo, ciò sta avvenendo non nel senso che molti avevano sperato. Anche se la situazione varia molto da paese a paese e in Italia appare particolarmente negativa, la polarizzazione sociale non sta favorendo in misura significativa i partiti comunisti in nessun paese. A beneficiare della crisi della socialdemocrazia europea e del partito popolare europeo sono soprattutto i partiti populisti e, fatto recente da osservare con attenzione, la rinascita di una socialdemocrazia che ritorna a una dimensione classica, come nel caso inaspettato della vittoria di Jeremy Corbyn alle primarie del Labour britannico. Bisognerebbe chiedersi perché questo accada. È vero che, almeno in Italia, nell’emarginazione dei comunisti ha giocato un certo ruolo la questione della casta e un ruolo ancora più importante il governismo, segnatamente la partecipazione disastrosa ai governi Prodi. C’è, però, un’altra questione ancora più importante. Si tratta del discredito del comunismo come alternativa allo stato di cose presenti, che è ormai diventato senso comune. I comunisti non sono stati capaci di reagire in modo creativo a questa aggressione, cioè attraverso la definizione di un nuovo proprio paradigma che contenga gli elementi del socialismo adeguato all’oggi. Ci si è limitati a ripetere sempre più stancamente il vecchio paradigma, anche se declinato in maniere a volte anche molto diverse tra di loro. Non porsi il problema della definizione di un nuovo paradigma, a fronte di una realtà che si è modificata profondamente, vuol dire scomparire definitivamente e non c’è tatticismo o politicismo che tenga per evitarlo.
Tale debolezza strategica dei comunisti non può essere sottaciuta. Ed il percorso di ridefinizione di tale paradigma non potrà essere lineare, a meno che non si pensi che per farlo i comunisti debbano rinchiudersi in una setta. Per questa ragione, non possono essere sottovalutati i segnali di ritorno di una parte della socialdemocrazia ad una dimensione “classica”. Da questo punto di vista il documento firmato da Varoufakis, Lafontaine, Fassina, Melanchon va valutato con molta attenzione. In quel documento possiamo riscontrare una riflessione che affronta alcuni nodi in maniera, almeno in parte, condivisibile. Si tratta di nodi cruciali, visto che riguardano l’euro, la sua funzione strategica e l’atteggiamento da tenere nei suoi confronti. Su questi temi da parte dei firmatari del documento ci sono passi in avanti importanti. Noi non pensiamo che sia necessario condividere l’intera impostazione teorica di coloro che hanno promosso quel documento, bensì riteniamo che sia possibile condividerne alcuni obiettivi politici su alcune questioni importanti. Di fronte alla possibile apertura di importanti spazi politici, sarebbe miope rinchiudersi in sé stessi rifiutando qualunque relazione, così come sarebbe altrettanto errato rinunciare ad avere una definita e autonoma fisionomia programmatica in nome dell’unità.
Del resto, in Italia possiamo fare a meno di aprire una relazione con quanto si muove a sinistra, in particolare con la sinistra che oggi ha deciso di rompere con il PD? Pensiamo davvero che, nelle difficili condizioni soggettive ed oggettive in cui ci troviamo, sia possibile ai comunisti portare avanti un progetto completamente autonomo che sia credibile?
La questione in discussione, per quanto ci riguarda, non è quella di costruire un’aggregazione partitica unitaria a sinistra, bensì quella di definire un nuovo campo di azione, anche sul terreno della rappresentanza, in modo da ricostruire un riferimento credibile nel nostro Paese per le classi subalterne. Caratterizzare la nostra presenza in tale percorso ed in generale nella battaglia politica dei prossimi anni è dunque decisivo. La definizione di un nostro profilo politico, il profilo di Rifondazione Comunista, è fondamentale se intendiamo influenzare il resto della sinistra evitare ogni possibile subalternità. A questo proposito bisogna essere consapevoli che i passaggi tattici non possono e non devono ipotecare in una direzione o in un’altra il futuro e che invece ad essere decisiva sarà la capacità di svolgere un lavoro lungo e paziente di reinsediamento nel tessuto di classe.
A questo proposito, è necessario far avanzare la battaglia in Italia e in Europa sia sul terreno tattico che strategico. La rottura di ogni collaborazione con i partiti di centro-sinistra che sono l’asse portante della UE, come il Pd, il Psf e la Spd, è imprescindibile se si vuole riacquisire credibilità, così come lo è la capacità di dire parole finalmente chiare sulla funzione dell’euro e della UE. Su questi due aspetti, che hanno un profondo nesso tra loro, si può provare a ripartire, articolando un programma in grado di aggredire le fondamentali questioni materiali che colpiscono la maggioranza dei lavoratori e dei settori popolari. Tenendo fermi questi due punti è possibile cercare di stabilire un rapporto di collaborazione con i settori fuoriusciti dall’alveo neoliberista della socialdemocrazia europea.
È su questi temi che va portata la discussione a sinistra, senza settarismi e senza subalternità nei confronti di nessuno. Ovviamente tutto ciò ha poco senso se, come abbiamo già accennato, i comunisti non si misurano di nuovo con la comprensione di una realtà profondamente cambiata e non si impegnano a ricostruire, a livello di massa, una prospettiva di trasformazione rivoluzionaria della società.
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