C'è vita a sinistra. Per
il 5 o anche il 10% forse c’è vita. Per una svolta sociale e politica
del mondo non c’è e non ci sarà nel tempo prevedibile. Per uscire
dall’inferno dobbiamo abbandonare la superstizione che si chiama
crescita e quella del lavoro salariato.
L’organismo della sinistra è assai poco vitale, ma
comprensibilmente non vuole dirselo e nemmeno sentirselo dire.
E se provassimo ad affrontare la questione da un punto di vista un
po’ meno prevedibile? Se cominciassimo a dirci che no, ragazzi, non c’è vita a sinistra.
Perché questa è la verità: non c’è vita, se mai c’è sopravvivenza
eroica ma stentata di un vasto numero di associazioni e organismi
di base che cercano di garantire la tenuta di alcuni livelli
minimi(ssimi) di solidarietà.
Se cominciassimo col dirci la verità che dal tronco della sinistra
del Novecento non sboccerà più alcun fiore, forse allora
riusciremmo a vedere la realtà presente in maniera più realistica
e forse anche a immaginare una via d’uscita per il prossimo futuro.
Se sinistra vuol dire una formazione capace di raggiungere il 5%
o forse anche il 10% allora sì, forse può esserci vita a sufficienza.
Grazie alla demografia, grazie all’ampiezza dei ranghi degli
ultra-sessantenni possiamo ancora sperare di costituire una
formazione che mandi in parlamento qualche deputato prima di
esaurirsi per estinzione prossima della generazione che si formò
negli anni della democrazia.
Ma se sinistra vuol dire una forza capace di immaginare una svolta
nella storia sociale economica e politica del mondo, una forza
capace di attrarre le energie della generazione precaria
e connettiva, se sinistra vuol dire una forza capace di rovesciare
il rapporto di forze che il capitalismo globalizzato ha imposto
all’umanità — allora è meglio non raccontarci bugie pietose. Non c’è
e non ci sarà nel tempo prevedibile.
I contributi che ho letto sul manifesto sono più o meno
apprezzabili, alcuni mi sono piaciuti molto. Ma non ne ho tratto la
percezione che qualcuno voglia vedere quel che sta accadendo e che
accadrà, e soprattutto quel che noi dovremmo e potremmo fare.
La prima lezione che mi pare occorre trarre dall’esperienza degli
ultimi anni è che alla parola democrazia non corrisponde nulla.
Perché dovrei ancora prendere sul serio la democrazia dopo
l’esperienza di Syriza? Ma non occorreva l’esperienza greca, per sapere
che la democrazia non è più una strada percorribile. Basta
ricordarsi del referendum italico contro la privatizzazione
dell’acqua, i suoi risultati trionfali, e i suoi effetti
praticamente nulli sulla realtà economica e politica.
E allora, se la democrazia non è una strada percorribile, ce ne
viene in mente un’altra? A me no. A me viene in mente che talvolta
nella vita (e nella storia) è opportuno partire da un’ammissione di
impotenza. Non posso, non possiamo farci niente.
Cioè, fermi un attimo. Due cose dobbiamo farle, e se volete chiamarle sinistra allora sì, ci vuole la sinistra.
La prima cosa da fare è capire, e quindi prevedere.
Possiamo prevedere che nei prossimi anni l’Unione europea, ormai
entrata in una situazione di scollamento politico, di odii
incrociati, di predazione coloniale, finirà nel peggiore dei modi:
a destra. Possiamo dirlo una buona volta che la sola forza capace di
abbattere la dittatura finanziaria europea è la destra?
Dovremmo dirlo, perché questo è quello che sta già accadendo, e le
conseguenze saranno violente, sanguinose, catastrofiche dal
punto di vista sociale e dal punto di vista umano. Dobbiamo allora
smettere i giochi già giocati cento volte per metterci in ascolto
dell’onda che arriva.
Possiamo prevedere che nei prossimi anni gli effetti del
collasso finanziario del 2008 moltiplicati per gli effetti del
collasso cinese di questi mesi produrrà una recessione globale.
Possiamo prevedere che la crescita non tornerà perché non è più
possibile, non è più necessaria, non è più compatibile con la
sopravvivenza del pianeta, e ogni tentativo di rilanciare la
crescita coincide con devastazione ambientale e sociale.
La decrescita non è una strategia, un progetto: essa è ormai nei
fatti, nelle cifre e negli umori. E si traduce in un’aggressione
sistematica contro il salario, e contro le condizioni di vita
delle popolazioni. E si traduce in una guerra civile planetaria
che solo Francesco I ha avuto il coraggio di chiamare col suo nome:
guerra mondiale.
La seconda cosa da fare è: immaginare.
Immaginare una via d’uscita dall’inferno partendo dal punto
centrale su cui l’inferno poggia: la superstizione che si chiama
crescita, la superstizione che si chiama lavoro salariato. Le
politiche dei governi di tutta la terra convergono su un punto:
predicano la crescita in un momento storico in cui non è più né
auspicabile né possibile, e soprattutto è inesistente per la
semplice ragione che non abbiamo bisogno di produrre una massa più
vasta di merci, ma abbiamo bisogno di redistribuire la ricchezza
esistente.
Le politiche dei governi di tutta la terra convergono su un
secondo punto: lavorare di più, aumentare l’occupazione
e contemporaneamente aumentare la produttività. Non c’è
nessuna possibilità che queste politiche abbiano successo. Al
contrario la disoccupazione è destinata ad aumentare, poiché la
tecnologia sta producendo in maniera massiccia la prima
generazione di automi intelligenti. Da cinquant’anni la sinistra ha
scelto di difendere l’occupazione, il posto di lavoro e la
composizione esistente del lavoro. Era la strada sbagliata già
negli anni ’70, diventò una strada catastrofica negli anni ’80. Era
una strada che ha portato i lavoratori alla sconfitta, alla
solitudine, alla guerra di tutti contro tutti.
Perché dovremmo difendere la sinistra visto che è stata proprio
la sinistra a portare i lavoratori nel vicolo cieco in cui si
trovano oggi?
Di lavoro, semplicemente, ce n’è sempre meno bisogno,
e qualcuno deve cominciare a ragionare in termini di riduzione
drastica e generalizzata del tempo di lavoro. Qualcuno deve
rivendicare la possibilità di liberare una frazione sempre più
ampia del tempo sociale per destinarlo alla cura all’educazione e alla
gioia.
So bene che non si tratta di un progetto per domani o per
dopodomani. Negli ultimi quarant’anni la sinistra ha considerato
la tecnologia come un nemico da cui proteggersi, si tratta invece
di rivendicare la potenza della tecnologia come fattore di
liberazione, e si tratta di trasformare le aspettative sociali,
liberando la cultura sociale dalle superstizioni che la sinistra ha
contribuito a formare.
Quanto tempo ci occorre? Basteranno dieci anni? Forse. E intanto?
Intanto stiamo a guardare, visto che nulla possiamo fare. Guardare
cosa? La catastrofe che è ormai in corso e che nessuno può fermare.
Stiamo a guardare il processo di finale disgregazione dell’Unione
europea, la vittoria delle destre in molti paesi europei, il
peggioramento delle condizioni di vita della società. Sono
processi scritti nella materiale composizione del presente, e nel
rapporto di forza tra le classi.
Ma naturalmente non si può stare a guardare, perché si tratta anche di sopravvivere.
Ecco un progetto straordinariamente importante: sopravvivere
collettivamente, sobriamente, ai margini, in attesa. Riflettendo,
immaginando, e diffondendo la coscienza di una possibilità che
è iscritta nel sapere collettivo, e per il momento non si cancella:
la possibilità di fare del sapere la leva per liberarci dallo
sfruttamento.
Attendere il mattino come una talpa.
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