giovedì 3 settembre 2015

Il marchio di fabbrica. Sul braccio di Francesco Piccioni


Il marchio di fabbrica. Sul braccio
L'orrore della ripetizione ha scosso la comunicazione “europeista”, quando qualche deficiente burocrate senza memoria ha ordinato di scrivere un numero sulle braccia di bambini e adulti, profughi senza documenti, alle porte di Praga. Identico orrore per le foto del bambino siriano affogato nel mare molto turistico di Bodrum. O per le docce rimesse in fuzione ad Auschwitz, seppure in linea con la loro funzione “normale”.
Il passato non è passato. I focolai di infezione sono stati conservati e dunque si sono riprodotti. Non per forza ideologica, ma come normalità amministrativa, modo di fare e gestire “tecnicamente” i problemi. Perché quel mostro non veniva da un insondabile altrove, ma da dentro un certo modo di funzionare della normalità occidentale.
Il fantasma del nazismo si è riaffacciato e tutti a gridare “per favore, questo no!”. No alla scritta sul braccio, o alle foto che ne danno testimonianza. Non certo alla logica sottostante, ovvero al rifiuto di considerare quelle braccia come appartenenti a persone dotate di nome, cognome, identità, lingua, cultura, competenze. Dignità.
Non siamo rimasti sorpresi, dobbiamo onestamente dire. Trattare amministrativamente i problemi comporta necessariamente considerare come “oggetti” tutto ciò che viene gestito: delibere, ordini di servizio, disposizioni, materiale logistico. Tutto protocollato, dotato di un numero di serie. E anche le persone, infine. Grandi numeri, con uno spostamento progressivo dalla natura reale della “cosa” che si sta trattando al puro dato numerico, ossia alla sua riduzione a “cosa” indifferente.
Negli scioperi della logistica, qui in Italia, abbiamo assistito alla stessa riduzione, con i facchini sottopagati messi a confronto – sulla stessa bilancia valoriale - con il danno economico derivante dal rallentamento della circolazione delle merci. È avvenuto sugli stessi media perbenisti che ora si scandalizzano perché non è stato trovato un modo diverso di “marchiare” i profughi di passaggio. Un modo meno già visto, insomma. O meglio ancora invisibile. Un chip sottocutaneo, per dire, li avrebbe scandalizzati meno. Moderno e hi tech, uguale accettabile.
Un po' – molto – come per le “riforme” imposte ai Piigs, sperimentate nel laboratorio greco. Decise dai creditori, dalle teste finanziarie della Troika, e assolutamenteindifferenti alla volontà popolare che aveva espresso un nuovo governo. L'economia capitalistica, è il concetto esplicito, funziona se si applicano certe regole di gestione amministrativa, certe logiche di bilancio, senza tener troppo conto dei bisogni e delle vite delle persone. Salmerie, seguiranno...
Ma la sostanza autentica del nazifascismo è esattamente in questa riduzione delle persone a quantità astratte, in questo affermarsi “naturale” della logica della logistica. Si possono immagazzinare e spedire merci, perché non si può fare altrettanto con le persone? È la logica del capitalismo ordinario, il sottostante non detto dello stesso turismo di massa (Ryanair voleva far viaggiare una parte dei passeggeri in piedi, per stiparne di più su ogni volo), la normalità di transazioni incentrate sul “venduto” e indifferenti alle necessità del “cliente” (anche e soprattutto quando si fa ricorso agli arichivi di “profili” che massificano le preferenze individuali).
Non si tratta di far risalire “ideologicamente” il nazifascismo al capitalismo. Si tratta invece di vedere come materialmente alcuni processi tipici, serializzati e serializzanti, della produzione di massa implichino una svalutazione dell'umanità (del “capitale variabile”) quando si applicano agli esseri umani.
La “tracciabilità del prodotto-individuo”, nella produzione in grandi numeri, si esprime più semplicemente con un numero, anziché con un nome che implica una storia. È in questa logica che il numero di serie diventa l'unica identità possibile nella circolazione mercantile. È un marchio di fabbrica. Che cala su un braccio, “per comodità” o abitudine. Banalmente, cioè senza pensiero

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