venerdì 29 marzo 2013

VERSO IL GOVERNO DEL PRESIDENTE: FUORI DAL PARLAMENTO, CHE FARE? di Franco Astengo


Sono rimasti fuori dalla porta i disoccupati, i cassintegrati, gli esodati, l’intero mondo del lavoro; la parte di società maggiormente impoverita dalla gestione capitalistica
della crisi
 
L’illusione del “doppio registro” e della “convenzione per le riforme istituzionali” è caduta miseramente e il tentativo di Pierluigi Bersani si è arenato di fronte all’assenza di una possibilità di mettere assieme, anche nella maniera più raccogliticcia possibile una maggioranza nell’aula del senato: si era pensato, addirittura a un’uscita dall’aula della Lega Nord per far abbassare il “quorum”. Un bell’esempio di possibile governabilità!

Un disastro totale per il PD, partito lancia in resta con le primarie, rimasto al di sotto di tutte le aspettative nel risultato elettorale e rivelatosi incapace di aggregare una maggioranza: note non liete anche per le altre forze politiche, dimostratesi in grado di svolgere semplicemente un elevato grado di interdizione senza sviluppare un’adeguata capacità di proposta politica.

Assisteremo agli ulteriori sviluppi ma il dato più rilevante che emerge, comunque, da questa vicenda riguarda la prospettiva immediata: quella del formarsi di un “governo del Presidente”, ben diverso da quello che è stato il “governo tecnico” e da quello che potrebbe essere un “governo istituzionale”: un passaggio stretto e delicato, passato attraverso il rifiuto di concedere a Bersani l’onere della prova parlamentare, che porta direttamente a una forma, anche meno che surrettizia ma reale, di presidenzialismo (come si evince anche dalla lettura del comunicato del Quirinale).

Un passaggio, quindi, di ulteriore restringimento dei margini di agibilità democratica per il Parlamento: che non può essere che sottolineato da parte nostra con grande preoccupazione.

L’altro elemento da portare all’attenzione è quello dell’aver riscontrato, nel complesso del dibattito sviluppatosi tra le forze politiche nel quadro delle consultazioni, l’assoluta assenza dei temi sociali più urgenti, sviluppandosi tutta la trattativa attorno a nodi di carattere istituzionali concepiti anch’essi in maniera di ulteriore riduzione dei margini di rappresentatività politica, a partire dal dimezzamento del numero dei parlamentari o dell’abolizione delle province: temi sui quali sarebbe necessaria una riflessione ben più approfondita rispetto a quello che abbiamo visto esercitata in quest’occasione.

Sono rimasti fuori dalla porta i disoccupati, i cassintegrati, gli esodati, l’intero mondo del lavoro; la parte di società maggiormente impoverita dalla gestione capitalistica della crisi.

Per le forze della sinistra d’alternativa rimaste fuori dal Parlamento, in un frangente di questo genere, che fare?

Più volte abbiamo richiamato l’esigenza di costruzione di una nuova soggettività politica dei comunisti e della sinistra d’alternativa: questa fase ha dimostrato come questa esigenza appaia ineludibile e che lo spazio politico e sociale esista in una dimensione inequivocabile, proprio partendo dalla proposizione di un’azione politica fondata sul concetto di rappresentatività, di centralità del Parlamento, di allargamento dei margini di iniziativa politica e proseguendo nel riconoscere la nuova realtà della “dimensione di classe” che emerge dalla crisi e che deve rappresentare la base di riferimento perché la protesta che sale dal mondo del lavoro non venga raccolta in forma meramente corporativa (come indicano i “nuovisti” della democrazia diretta, posti al di fuori dal ruolo fondamentale dei corpi intermedi) ma sviluppata come proposta politica, rivolta ad affrontare l’immediato ma anche a proporre l’orizzonte di una trasformazione di sistema.

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