Ieri un'amica economista, per divertirsi, ha calcolato che, per
guadagnare quello che Marchionne prende in un anno, un voucherista
italiano dovrebbe lavorare 2.500 anni tutti i 365 giorni dell'anno. Un
rapporto 1 a 2.500, pertanto, ipotizzando generosamente che anche
Marchionne non riposi nemmeno un giorno.
Diceva Adriano Olivetti che «nessun dirigente, neanche il più alto in
grado, deve guadagnare più di dieci volte l'ammontare del salario
minimo». Il capitalismo italiano è insomma passato in mezzo secolo dalla
teorizzazione di un rapporto 1 a 10 alla pratica di un rapporto 1 a
2.500.
Quella che vedete qui sopra è una delle tabelle più note del libro
con cui Thomas Piketty, nel 2013, ha preso d'assalto tre decenni di
egemonia culturale, politica e fattuale della destra economica. Mostra
la quota di reddito in percentuale del 10 per cento più ricco
nell'ultimo secolo e illustra in modo immediato quello che è successo in
Europa e negli Stati Uniti.
Ci sono diverse cose, in questo grafico.
Ad esempio c'è la rappresentazione plastica della parola
"neoliberismo", su cui alcuni ironizzano come se fosse un'invenzione
dietrologica, una proiezione da complottisti, invece qui si palesa in
tutta la sua chiarezza: è, semplicemente, quella cosa che ha iniziato a
far schizzare in su le due linee, dopo che i vari new deal, patti
sociali, socialdemocrazie o altre forme di mediazione tra alto e basso
le avevano fatte gradualmente scendere, per mezzo secolo abbondante. Ad
esempio a quelli del Foglio, che si baloccano con la rubrichetta "Tutta
colpa del neoliberismo", bisognerebbe ogni volta sbattergli in faccia
questa tabella: magari, con un disegnino, capiscono.
Curiosamente - e questa è un'altra cosa che emerge dal grafico qui
sopra - il mezzo secolo in cui diminuiva il distacco tra più ricchi e
più poveri ha coinciso con il periodo di maggior avanzamento complessivo
delle società.
Forse non è un caso: una buona parte della letteratura economica,
negli ultimi tempi, sta avanzando seriamente l'ipotesi che oltre un
certo livello le disuguaglianze producano danni per tutti. Lo ha fatto
Robert Reich, in un libro già citato in questo blog. Lo fanno ora anche Maurizio Franzini e Mario Pianta nel loro ultimo saggio, "Diseguaglianze", da poco uscito per Laterza.
La loro analisi su questo punto - basata soprattutto su dati Fmi e
Ocse (quindi non proprio fonti di estrema sinistra) - è prettamente di
carattere economico, cioè relativa agli effetti sulla crescita di un Paese. Qualche anno fa, Richard Wilkinson e Kate Pickett - in un libro
che andrebbe fatto studiare in tutte le scuole - mostrarono dati alla
mano come una forbice sociale eccessiva genera anche più violenza, più
ignoranza e maggiore disagio psichico. È di questi ultimi mesi invece
l'evidenza che, oltre a tutto questo, l'eccesso di disparità sociali si ripercuote in crescenti espressioni politiche di tipo nazionalista e neofascista, dagli Stati Uniti all'Europa.
A proposito di Europa: oggi nel Vecchio continente, scrivono Franzini
e Pianta, «il 20 per cento delle persone ha un patrimonio pari a zero
(o debiti che superano i risparmi), mentre il secondo quintile possiede
una ricchezza media di 29.400 euro, il terzo di 111.900 euro, il quarto
di 235 mila euro: fino al quinto degli europei, che ha ricchezze per
780.700 euro, possedendo così il 68 per cento della ricchezza totale.
Il tutto in un quadro di capitalismo sempre più oligarchico, cioè riservato a pochi, e sempre più dinastico, cioè con un ascensore sociale quasi fermo.
Quest'ultimo è un problema di cui in Italia si parla poco. Anche a
sinistra, devo dire. Ed è un po' uno scandalo: tra l'altro, dopo la
riforma Berlusconi appena ritoccata da Monti, siamo e restiamo uno dei
paesi al mondo con le tasse di successione più basse. E, come si vede
dalla tabella sotto, siamo secondi tra i Paesi sviluppati nella pessima
classifica di trasmissione generazionale delle disuguaglianze (grafico
tratto dal libro di Franzini e Pianta).
Insomma "la famiglia conta", come nel titolo di uno dei capitoli del
saggio in questione. Conta per eredità, ma anche per istruzione (tasse
universitarie comprese) e rete di relazioni. E questa realtà, oltre a
essere un fattore chiave del capitalismo oligarchico, fa un po' di
chiarezza sulle tante balle che si sentono in giro relative alle "uguali
opportunità" come forma che rende accettabili, se non giuste, le
disuguaglianze.
Le posizioni di rendita invece sono il primo tratto caratterizzante dell'economia contemporanea e del capitalismo oligarchico.
Accanto al quale, s'intende, ci sono anche altri motori di
diseguaglianza, spiegano Franzini e Pianta: ad esempio, la maggiore
rilevanza nella produzione di redditi assunta dal capitale rispetto al
lavoro, soprattutto per via finanziaria e per trasformazioni
tecnologiche (tema su cui in questo blog ho rotto le scatole spesso); ma
anche, terzo punto, l'individualizzazione delle condizioni economiche,
cioè la fine delle classi organizzate, delle loro categorie, dei loro
sindacati: con la riduzione del lavoratore a monade solitaria e disperata che ogni giorno mette insieme pezzettini di reddito molecolare.
Il quarto motore delle troppe disuguaglianze contemporanee
individuato da Franzini e Pianta è l'arretramento della politica: che
interviene sempre meno con politiche redistributive (e quanto ha
contato, in questo, la sbornia trentennale contro i "lacci e laccioli"!)
e taglia sempre di più i servizi universali o destinati ai ceti più
poveri (salute, istruzione, etc), sempre con l'altro mantra liberista
del "bisogna ridurre la spesa pubblica".
Naturalmente poi, come sempre, anche quella della disuguaglianza e
dell'uguaglianza è questione di misura, di punto in cui fissa
l'asticella.
In genere, chi parla di diseguaglianze viene accusato di essere
utopista, perché nessuna società realizza mai un'uguaglianza assoluta:
il che è evidente, ma diventa quasi sempre un alibi per non fare alcun
passo verso una riduzione della forbice sociale, anzi per andare nella
direzione opposta.
Che è quella delle diseguaglianze crescenti. Delle società più
arrabbiate, infelici, conflittuali, atomizzate, instabili. Dei Paesi in
cui per rabbia confusa dilagano quindi i neofascismi, i nazionalismi, i
razzismi, i Trump e Le Pen.
Del neoliberismo, insomma.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua