Anche
ad aver seguito gli avvenimenti solo da lontano, il 2015, nello spazio
pubblico borghese francofono e in una parte della Triade, risulta essere
stato l'anno di una grande offensiva della tesi della "stagnazione
secolare" . Col passare degli anni, tutte le teorie della crisi ciclica e
tutte le diverse sette economiche che per due secoli hanno predetto
l'eterno ritorno del capitalismo hanno reso l'anima, lasciando il posto
alla tesi della "stagnazione secolare" come nuova ristrutturazione e
attuazione del pensiero borghese sempre prigioniero dei suoi stessi
presupposti. Se quindi adesso la "stagnazione secolare" ha il vento in
poppa, ciò avviene perché spiega quel che rimane inspiegabile per un
economista. Alcuni segmenti del pensiero economico borghese cercano
adesso di spiegare, sempre a partire dalle loro forme di coscienza
feticizzata, ciò che rimane come l'impensato di tutto il pensiero
economico: la nuova qualità di una crisi della valorizzazione che sembra
loro non assomigliare a nessun'altra crisi.
Quasi
dieci anni dopo l'inizio di un nuovo crollo di un'economia mondiale che
ha visto il collasso della dinamica della produzione di capitale
fittizio quanto meno nel settore privato, niente di quello che era stato
"previsto" si è verificato: la ripresa a "V" e a "W", poi a "WW",
"l'inversione della curva" oppure la "purga" di una crisi ciclica ed il
ritorno al "business as usual", tutto questo non si è ancora visto. Non
si intravvede nessuna macchia di cielo più blu per un nuovo boom di
accumulazione di capitale nei centri capitalistici (neppure negli Stati
Uniti); non più emergenti, le grandi economie "emergenti" non sono
affatto diventati i nuovi motori della crescita mondiale, come credevano
ancora gli ingenui ed i filosofi "di poco cervello" che nel 2008
profetizzavano che la crisi non era altro che un semplice cambiamento
della polarizzazione dell'economia mondiale, dagli Stati Uniti verso la
Cina e gli altri BRICS.
Sebbene questo tipo di
superamento borghese delle teorie cicliche abbia già conosciuto un picco
durante la crisi degli anni 1930, dietro il dibattito sulla
"stagnazione secolare" ci sono oggi dei macro-economisti come Larry
Summers, James Galbraith o Barry Eichengreen, e questo dibattito è
diventato recentemente l'ultima paccottiglia d'importazione che viene
venduta in Francia dai Daniel Cohen, Patrick Artus (co-autore di
"Crescita zero, come evitare il caos?"), ecc.. Sembra che negli Stati
Uniti la tesi sia stata lanciata nel 2011, quando tutte le speranze di
un'improvvisa e forte ripresa della crescita americana era già andata in
cenere, per mezzo del libro "The Great Stagnation. How America Ate All
the low-hanging Fruit of Moderne History, Got Sick, and Will
(Eventually) Feel Better". Il dibattito infuria e i "capitalisti
keynesiani di Stato" ed i "capitalisti del libero mercato" sono
generalmente contrari ad una simile tesi, ma per ragioni diverse. I
primi sono certi che se la crescita mondiale non riparte tutta la colpa
sia da attribuire alla speculazione ed alle politiche di austerità che
hanno compresso la domanda di merci; mentre per i secondi tutta la colpa
risiede nel debito dello Stato ed è lo shock dell'offerta (le
"riforme", nel vocabolario della neolingua capitalista) a non essere
abbastanza potente, bisogna perciò allentare ancora di più le briglie
alla tigre rabbiosa del mercato al fine di poterla meglio cavalcare.
Rifiutando l'idea di un limite interno ed esterno alla valorizzazione
del capitale, i sostenitori della "stagnazione secolare" commettono loro
l'errore colossale di pensare che all'origine ci sia il collasso di un
"potenziale" delle economie. Ma con lo sguardo fisso sul solo livello
immediatamente percettibile dagli attori economici, ed al quale alla
fine si sono sempre interessate le scienze economiche borghesi,
rimangono prigionieri delle forme fenomeniche, senza riuscire a vedere
che la crisi ha ben poco a che vedere con una "depotenzializzazione" di
queste forme sempre mediatizzate, e che invece si tratta piuttosto di
una crisi assai più soggiacente, una crisi della stessa sostanza sociale
del capitale, una crisi quindi del lavoro astratto (cfr. la prima parte
del libro di Ernst Lohoff e Norbert Trenkle, "La Grande dévalorisation.
Pourquoi la crise n’est pas dû à la spéculation et à la dette de
l’État", Post-éditions, 2014). Il capitale lanciato ad alta velocità
nella folle logica della concorrenza, perde sempre più la sua sostanza
sociale (il lavoro astratto) in seguito alla massiccia espulsione della
forza lavoro dai settori produttivi di plusvalore, nel mentre che la
dinamica motrice del capitale fittizio, installata all'inizio degli anni
1980 dal neoliberismo per fare una trasfusione al sistema, raggiunge
oggi i suoi primi seri limiti.
Ma per i nostri
brontoloni del capitalismo stagnante, la valorizzazione non conoscerebbe
alcuna auto-contraddizione interna che pregiudichi la sua stessa
logica, si tratta soltanto di "potenziali/risorse" della stessa che
verrebbero a mancare, e che spiegherebbero "dall'esterno", rispetto a
questa stessa logica altrimenti sana e ben messa, il rallentamento
secolare della sua satanica crescita. Dal momento che non si tratta
affatto di mettere a nudo le cause e le basi della crisi, ed ancor meno
di criticare la costituzione fondata sul lavoro del feticcio-capitale
che nelle sue forme di denaro e di merce ci macina con il suo movimento
autonomo e fa di noi dei semplici ingranaggi intercambiabili della sua
stessa crescita, le cause superficiali invocate a sostegno di questo
collasso del "potenziale" spesso variano in funzione degli autori.
Generalmente, le tre cause favorite che vengono invocate sono il declino
demografico, l'insufficienza degli investimenti e/o la cosiddetta
diminuzione dei profitti da produttività legati all'innovazione
tecnologica (alcuni tirano fuori dal loro cappello la cifra di una
crescita di produttività negli USA che sarebbe stata solamente del +0,7%
a partire dal 2010).
Quest'ultima cosa fa colpo
in particolare fra i funzionari del capitale che vogliono alimentare il
loro mulino per mezzo del futuro "shock di produttività e concorrenza".
Ciechi di fronte al fatto che è stata l'inversione del rapporto fra
processi di produzione innovativi e nuovi prodotti innovativi ad aver
minato, fin dall'inizio della terza rivoluzione industriale negli anni
1960, la valorizzazione e la possibilità delle classiche contro-tendenze
alla sua auto-contraddizione interna, agli occhi dei sostenitori della
"stagnazione secolare" le nuove tecnologie digitali del 21° secolo non
permetterebbero più di migliorare la produttività in maniera
fondamentale come hanno fatto l'elettricità, l'automobile ed il computer
(tesi di Robert Gordon, il guru di questo segmento della tesi). E' una
vecchia tendenza, che ha seguito la frase senza alcun fondamento
pronunciata nel 1987 da Robert Solow, secondo cui è evidente dappertutto
l'era delle tecnologie dell'informazione, "tranne che nelle statistiche
della produttività" (Lohoff e Trenkle smontano in maniera convincente
tale tesi nel loro libro a partire dai problemi posti dalla statistica
borghese). Altri invocano anche lo spettro del capitalismo giapponese e
il recente fallimento dell'Abenomics, che ancora ieri entusiasmava gli
apologeti della crisi ciclica, i quali speravano ancora una volta che la
fenice del capitale rinascesse dalle sue proprie ceneri. Da parte sua,
se il neokeynesiano Paul Krugman sposa la tesi di Larry Summers, lo fa
sostenendo che all'origine di questa lunga e duratura atonia della
crescita mondiale ci sarebbe una trappola della liquidità creata dai
bassi tassi d'interesse. Da buon neokeynesiano che oppone il cattivo
capitale finanziario che serve alla speculazione al gentile capitale
produttivo che serve realmente la macchina per sfruttare (altrimenti
detta "economia reale"), amerebbe che tutta la massa di capitale
fittizio creata dalle banche servisse veramente questa "economia reale"
delle piccole imprese, delle grandi imprese e delle aziende
transnazionali: semplice nostalgia che le banche ritrovino il loro "vero
ruolo", secondo l'immagine dei bigotti del capitalismo dal volto umano
come Paul Jorion che ancora ieri pensava che la causa della crisi
risiedesse nella non separazione fra operazioni di deposito ed attività
finanziarie delle banche. Quando non si tratta di lamentare un presunto
declino della produttività, le tesi sulla stagnazione secolare
riconducono sempre la "stagnazione" ad un problema di utilizzo del
denaro.
Avendo interiorizzato per troppo tempo il
"contesto muto" (Marx) delle forme sociali capitalistiche del lavoro,
del valore, della merce, del diritto e dello Stato, l'Illuminismo, il
pensiero economico e la sinistra del capitale continueranno a prenderlo
in pieno viso, talmente l'hanno naturalizzato. Non c'è dubbio che, nel
caso in esame, e dal momento che le strutture essenziali della vita
moderna si fondano su delle forme determinate e storicamente specifiche
di pratiche sociali (lavoro astratto, valore e merce), e non su
un'ontologia eterna e trans-storica, tutte questa scienza economica, sia
ortodossa che eterodossa ("économistes atterrants", Scuola della
regolamentazione, marxisti tradizionali, declinisti, ecc.) è condannata,
stagnazione o meno, a non essere altro che un'apologia dell'esistente
nello stesso momento in cui rifiuta di riconoscere il carattere storico
del suo oggetto.
Quello che il capitalismo si
trova davanti, ed ai fianchi, è la crisi. La ristrutturazione avvenuta
al volgere degli anni 1980, da un "capitalismo classico" a regime di
accumulazione auto-sostenuto di produzione di valore attraverso lo
sfruttamento di lavoro vivo, in un "capitalismo tardivo" (Perry
Anderson) che si deve ora definire come "capitalismo invertito" (Lohoff
& Trenkle), dal momento che il suo regime di accumulazione è
costituito dall'anticipazione della produzione futura di futuro valore,
adesso è arrivata essa stessa alla fine della sua corsa ed ha fatto
praticamente tutto quello che poteva fare per mantenere in vita il
feticcio-cadavere.
A partire dalla fine degli anni 1970, minato
all'interno e nella sua stessa logica dalla terza rivoluzione
industriale, il capitalismo ha potuto sopravvivere soltanto consumando
in anticipo la sua crescita futura attraverso la produzione di merci di
second'ordine (capitale fittizio), soprattutto con l'acquisto di debito
pubblico e privato da parte delle banche centrali, l'ultima stampella
che tiene illusoriamente in piedi un capitalismo ormai oggettivamente e
globalmente in pessimo stato. Dislocare il problema finisce per
aggravarlo sempre più, e la respirazione bocca a bocca a colpi di
"socializzazione delle perdite" e la defibrillazione monetaria delle
banche centrali trasformate in "bad banks" hanno sempre più difficoltà a
risvegliare un capitalismo piombato nel coma della sua secolare agonia.
Come i sommi sacerdoti dell'economia per i quali a partire dal 2008 le
politiche delle banche centrali sono delle "eresie", molti non vogliono
vedere che la politica della "creazione monetaria", ed il suo ruolo
ormai centrale in quanto turbo-motore dell'industria finanziaria, non
sia altro che l'espressione dell'obbligo costituito dal rinnovamento
continuo, esponenziale e sempre meno performativo dell'anticipazione del
valore.
Così malgrado la dose da mammut, in
termini di quantitative easing, immessa per rilanciare un'accumulazione
reale auto-sostenuta (dal 2007 nell'economia mondiale sono stati
iniettati dalle banche centrali 11.400 miliardi di euro) e anche
malgrado la quantità di merci versate da apparecchiature inanimate dalle
fabbriche quasi deserte, ma che producono senza posa e vomitano i loro
prodotti sul mercato, dopo le speranze di ripresa a "V", "W", e "WW",
l'encefalogramma del "capitalismo invertito" rimane - per i nostri
turbo-capitalisti - disperatamente sempre più piatto. Con tutto
l'accanimento terapeutico che a partire dal 2008 attua la produzione
statalizzata del capitale fittizio che succede alla defunta produzione
del capitale fittizio del settore privato, all'orizzonte non si vede
nessun "grande boom" di accumulazione regionale o mondiale. E come già
prevedono alcuni economisti di superficie, non ci sarà più nessuna
retromarcia della banche centrali. Il capitalismo si trova ad affrontare
irrimediabilmente la convergenza di un triplice limite che comincia già
a fondersi: un limite interno alla produzione di plusvalore; un limite
esterno quanto quest'ultimo impatta la fine delle risorse di cui si deve
ingozzare il feticcio-capitale per auto-accrescersi; e infine il limite
logico della moltiplicazione del capitale fittizio. E' per questo che
l'effetto indotto sull'accumulazione reale da parte della produzione
surreale di capitale fittizio diventa sempre più insignificante per quel
che concerne la terrificante costrizione al rinnovo dell'anticipo del
valore, che questo processo di crisi dell'economia capitalista si
fenomenalizza alla superficie in una "stagnazione secolare" [*1].
Se la produzione statalizzata dell'immensa montagna di capitale
fittizio si viene a trovare ostacolata, è tutta la forma di vita
capitalista ad entrare in eruzione, e il vulcano del capitale fittizio
sputerà soltanto le ceneri di un "denaro senza valore" (Robert Kurz).
Ormai la montagna dei debiti deve crescere, o crollare del tutto. Ma più
in alto arriverà, più dolorosa sarà la caduta.
E
chi può credere ancora che l'approfondirsi di questa crisi ci porterà
la rivoluzione su un piatto d'argento o che costituirà un'opportunità?
C'è la possibilità che quanto più si aggraverà la decomposizione del
capitalismo, tanto più non avverrà niente a livello "rivoluzionario". Ci
sono possibilità che aggravandosi la crisi, tutto ciò sfocerà in
un'unica certezza: la barbarie capitalista in cui già ci troviamo. Noi
che ci troviamo ai piedi di questo vulcano e che viviamo nelle pieghe
del movimento autotelico del denaro che ci ha sussunto, in quanto
riproduciamo il rapporto sociale capitalista, noi ci troviamo
esattamente nell'incapacità di immaginarne e crearne un altro.
Ciononostante, un alto livello di intensità ed una determinazione delle
lotte sociali non fa affatto presagire un superamento del contesto
immanente al capitalismo. Non è soltanto il livello di intensità, la
combattività, il carattere spontaneo o organizzato o la forma più o meno
violenta (e necessariamente insurrezionale) in sé, a far sì che questa o
quell'altra lotta superi finalmente il trattamento immanente delle
contraddizioni del capitalismo e ci porti fuori dalla socializzazione
capitalista, ma è il suo contenuto in termini di nuova sintesi sociale,
di nuova forma di vita sociale al di là del lavoro, del denaro, del
valore, del patriarcato produttore di merci e di quel "capitalista
collettivo di idee" che è lo Stato. Il superamento del capitalismo
comporterà l'abolizione - e non la realizzazione - della sua "sostanza
sociale", vale a dire l'abolizione del lavoro nella sua capacità di
costituire la forma di vita sociale capitalistica, e pertanto
l'abolizione della totalità sociale che lo ha costituito, l'economia.
Bisogna sbattere giù quello che sta cadendo, e strappare collettivamente noi stessi all'economia.
I morti sono vivi. Le notti in cammino...
- Clément Homs - 14 aprile 2016 -
[*1]
- Voir, le chapitre 3.4.1. « L’obligation de croissance de l’industrie
financière : une contrainte au potentiel renforcé », in Trenkle &
Lohoff, La Grande dévalorisation, op. cit., p. 281-291.
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