L'attacco alla
Costituzione partì già quasi all'indomani del suo varo. Il 2 agosto 1952
Guido Gonella, all'epoca segretario politico della Democrazia
cristiana, chiedeva - in un pubblico comizio - di riformare la
Costituzione italiana, entrata in vigore appena tre anni e mezzo prima,
il 1 gennaio 1948. Si trattava di un discorso tenuto a Canazei, in
Trentino, e la richiesta di riforma mirava - come egli si espresse - a
«rafforzare l'autorità dello Stato», ad eliminare cioè quelle
«disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice
nella stessa Costituzione». E concludeva, sprezzante: «la Costituzione
non è il Corano!» (Il nuovo Corriere, Firenze, 3 agosto 1952).
Nello stesso intervento,
il segretario della Dc, richiamandosi più volte a De Gasperi, chiedeva
di modificare la legge elettorale, che - essendo proporzionale - dava
all'opposizione (Pci e Psi) una notevole rappresentanza parlamentare.
L'idea lanciata allora, in piena estate, era di costituire dei «collegi
plurinominali», onde favorire i partiti che si presentassero alle
elezioni politiche «apparentati» (Dc e alleati).
Come si vede, sin da
allora l'attacco alla Costituzione e alla legge elettorale proporzionale
(la sola che rispetti l'articolo 48 della Costituzione, che sancisce il
«voto uguale») andavano di pari passo.
Pochi mesi dopo, alla
ripresa dell'attività parlamentare fu posto in essere il progetto di
legge elettorale (scritta da Scelba e dall'ex-fascista Tesauro, rettore a
Napoli e ormai parlamentare democristiano) che è passata alla storia
come «legge truffa». Imposta, contro l'ostruzionismo parlamentare, da un
colpo di mano del presidente del senato Meuccio Ruini, quella legge fu
bocciata dagli elettori, il cui voto (il 7 giugno 1953) non fece
scattare il cospicuo «premio di maggioranza» previsto per i partiti
«apparentati».
L'istanza di cambiare la
Costituzione al fine di dare più potere all'esecutivo divenne poi, per
molto tempo, la parola d'ordine della destra, interna ed esterna alla
Dc, spalleggiata dal movimento per la «Nuova Repubblica» guidato da
Randolfo Pacciardi (repubblicano poi espulso da Pri), postosi in
pericolosa vicinanza - nonostante il suo passato antifascista - con i
vari movimenti neofascisti, che una «nuova Repubblica» appunto
domandavano.
La sconfitta della
«legge truffa» alle elezioni del 1953 mise per molto tempo fuori gioco
le spinte governative in direzione delle due riforme care alla destra:
cambiare la Costituzione e cambiare in senso maggioritario la legge
elettorale proporzionale. Che infatti resse per altri 40 anni. Quando,
all'inizio degli anni Novanta, la sinistra, ansiosa di cancellare il
proprio passato, capeggiò il movimento - ormai agevolmente vittorioso -
volto ad instaurare una legge elettorale maggioritaria, il colpo
principale alla Costituzione era ormai sferrato. Ammoniva allora,
inascoltato, Raniero La Valle che cambiare legge elettorale abrogando il
principio proporzionale significava già di per sé cambiare la
Costituzione. (Basti pensare, del resto, che, con una rappresentanza
parlamentare truccata grazie alle leggi maggioritarie, gli articoli
della Costituzione che prevedono una maggioranza qualificata per
decisioni cruciali perdono significato). Ma la speranza della nuova
leadership di sinistra (affossatasi più tardi nella scelta suicida di
assumere la generica veste di partito democratico) era di vincere le
elezioni al tavolo da gioco. Oggi è il peggior governo che l'ex-sinistra
sia stata capace di esprimere a varare, a tappe forzate e a colpi di
voti di fiducia, entrambe le riforme: quella della legge elettorale,
finalmente resa conforme ad un tavolo da poker, e quella della
Costituzione.
Ma perché, e in che
cosa, la Costituzione varata alla fine del 1947 dà fastidio? Si sa che
la destra non l'ha mai deglutita, non solo per principi fondamentali (e
in particolare per l'articolo 3) ma anche, e non meno, per quanto essa
sancisce sulla prevalenza dell'«utilità sociale» rispetto al diritto di
proprietà (agli articoli 41 e 42). Più spiccio di altri, Berlusconi
parlava - al tempo suo - della nostra Costituzione come di tipo
«sovietico»; il 19 agosto 2010 il Corriere della sera pubblicò un
inedito dell'appena scomparso Cossiga in cui il presidente-gladiatore
definiva la nostra costituzione come «la nostra Yalta». E sullo stesso
giornale il 12 agosto 2003 il solerte Ostellino aveva richiesto la
riforma dell'articolo 1 a causa dell'intollerabile - a suo avviso -
definizione della Repubblica come «fondata sul lavoro». E dieci anni
dopo (23 ottobre 2013) tornava alla carica (ma rimbeccato) chiedendo
ancora una volta la modifica del nostro ordinamento: questa volta
argomentando «che nella stesura della prima parte della Costituzione -
quella sui diritti - ebbe un grande ruolo Palmiro Togliatti, l'uomo che
avrebbe voluto fare dell'Italia una democrazia popolare sul modello
dell'Urss». Di tali parole non è tanto rimarchevole l'incultura
storico-giuridica quanto commovente è il pathos, sia pure mal riposto.
Dà fastidio il nesso che
la Costituzione, in ogni sua parte, stabilisce tra libertà e giustizia.
Dà fastidio - e lo lamentano a voce spiegata i cosiddetti «liberali
puri» convinti che finalmente sia giunta la volta buona per il taglio
col passato - che la nostra Costituzione sancisca oltre ai diritti
politici i diritti sociali. Vorrebbero che questi ultimi venissero
confinati nella legislazione ordinaria, onde potersene all'occorrenza
sbarazzare a proprio piacimento, come è accaduto dell'articolo 18 dello
Statuto dei lavoratori.
La coniugazione di
libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione
della prima Repubblica francese (1793): «La libertà ha la sua regola
nella giustizia». Ed è stata poi presente nelle costituzioni - italiana,
francese della IV Repubblica, tedesca - sorte dopo la fine del
predominio fascista sull'Europa: fine sanguinosa, cui i movimenti di
resistenza diedero un contributo che non solo giovò all'azione degli
eserciti (alleati e sovietico) ma che connotò politicamente quella
vittoria. Nel caso del nostro paese, è ben noto che l'azione
politico-militare della Resistenza fu decisiva per impedire che -
secondo l'auspicio ad esempio di Churchill - il dopofascismo si
risolvesse nel mero ripristino dell'Italia prefascista magari serbando
l'istituto monarchico.
La grande sfida fu,
allora, di attuare un ordinamento, e preparare una prassi, che andassero
oltre il fascismo: che cioè tenessero nel debito conto le istanze
sociali che il fascismo, pur recependole, aveva però ingabbiato,
d'intesa coi ceti proprietari, nel controllo autoritario dello Stato di
polizia, e sterilizzato con l'addomesticamento dei sindacati. La sfida
che ebbe il fulcro politico-militare nell'insurrezione dell'aprile '45 e
trovò forma sapiente e durevole nella Costituzione consisteva dunque -
andando oltre il fascismo - nel coniugare rivoluzione sociale e
democrazia politica. Perciò Calamandrei parlò, plaudendo, di
«Costituzione eversiva» (1955), e perciò la vita contrastata di essa fu
regolata dai variabili rapporti di forza della lunga «guerra fredda»
oltre che dalle capacità soggettive dei protagonisti. C'è un abisso tra
Palmiro Togliatti e il clan di Banca Etruria. Va da sé che l'estinguersi
dei «socialismi» con la conseguente deriva in senso
irrazionalistico-religioso delle periferie interne ed esterne
all'Occidente illusoriamente vittorioso hanno travolto il quadro che s'è
qui voluto sommariamente delineare. La carenza di statisti capaci e la
autoflagellazione della fu sinistra non costituiscono certo il terreno
più favorevole alla pur doverosa prosecuzione della lotta.
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