“The Gramscian Moment” è il titolo di un recente libro del britannico
Peter Thomas vincitore del Premio internazionale Sormani. E di
autentico “momento gramsciano” si deve parlare, gettando lo sguardo ben
oltre le frontiere. Ma sarebbe un errore
ritenere che questo momento sia cominciato tra il 2011 e i primi mesi
del 2012, quando un’autentica profluvie di libri, richiamati più o meno
correttamente dai media, si è abbattuta nelle librerie italiane, e
l’alluvione continua.
La Gramsci-Renaissance data dal 2007, quando si celebrarono, in una
misura e con una intensità mai viste, i 70 anni dalla morte. Fu un anno
eccezionale, con convegni che cominciarono in Australia e percorsero il
globo, toccando decine di Paesi. E, mentre cominciavano a uscire a
stampa i primi volumi dell’Edizione Nazionale degli Scritti, si
presentava, anche grazie al lavoro nell’ambito di quella impresa
gigantesca, e a quello svolto per la Bibliografia Gramsciana Ragionata
(BGR) e per il Dizionario Gramsciano, una nuova generazione di studiosi,
che a Gramsci guardava con occhi freschi, non condizionata dai
dibattiti del passato. Qualcuno disse: finalmente si potrà semplicemente
leggere Gramsci come “un classico”. Ma così non è e così in fondo non
può essere.
Antonio Gramsci fu e rimase un rivoluzionario e un comunista fino
all’ultimo suo giorno – che cadde esattamente 75 anni or sono, in una
clinica romana dopo un decennio di detenzione e patimenti inenarrabili –
il 27 aprile 1937. Ma fu anche un pensatore, sicuramente il più
profondo e originale pensatore dell’Italia del Novecento; ma anche uno
dei più stimolanti analisti del “moderno”: storico e storiografo,
filosofo e pedagogista, teorico della lingua e della letteratura,
scienziato politico. E, last but not least, uno scrittore
impareggiabile, che nelle sue lettere ha toccato altissimi vertici di
umanità e di multiforme capacità letteraria.
Sono queste le ragioni della rinascita di attenzione a Gramsci, oggi
uno degli autori italiani di ogni epoca più tradotti e studiati nel
mondo? Indubbiamente. Ma come testimoniano le polemiche ricorrenti,
scatenate da sedicenti nuove interpretazioni o pretese “rivelazioni”,
non si discute solo in merito al teorico e lo scrittore, ma sempre
comunque sui connotati politici della sua opera teorica e pratica: dei
risultati che ebbe quando egli era un giovane giornalista del Partito
socialista, o quando divenne direttore del settimanale poi quotidiano L’Ordine Nuovo, colonna del Partito comunista, fondatore de l’Unità,
fino a quando giunse, dopo un’aspra battaglia interna, a prendere la
guida del Partito, poco prima dell’arresto nel novembre ’26. Di quei
tempi fu la rottura con Togliatti, su cui poi tanta speculazione si
fece. Il dissenso nasceva dalla differente valutazione, positiva per
Togliatti, critica e preoccupata per Gramsci, delle lotte interne al
Partito sovietico.
È la vicenda della lettera da Gramsci scritta per i compagni russi e
affidata a Togliatti, che, d’accordo con Bucharin non la consegnò,
suscitando l’aspra reprimenda di Gramsci e una greve risposta di
Togliatti. Fu quello, dell’ottobre ’26, l’ultimo contatto fra i due, che
non ebbero più modo di parlarsi. Del resto mentre Gramsci cominciava il
suo calvario, Togliatti vestì i panni di dirigente dell’Internazionale
Comunista, condividendone responsabilità, anche se non fu mai un piatto
esecutore degli ordini di Stalin, spesso anzi cercando di portare avanti
una linea di riserva. Ma certo fu completamente dentro quella storia,
da cui Gramsci invece fu escluso. E non come qualcuno ha scritto,
scioccamente, perché “per sua fortuna” era in carcere, ma perché il suo
comunismo, su cui continuò a riflettere, era oggettivamente diverso. E
lo era stato fin dal suo affacciarsi alla Torino industriale, dove
conobbe gli operai, “uomini di carne ed ossa”, quando mise l’accento sul
fattore umano e quello culturale. E cominciò a elaborare un socialismo
che ne tenesse conto. Doveva essere un movimento di liberazione il
socialismo, di uomini (e donne: la sua attenzione all’altra metà del
cielo fu costante), non sostituire un’oppressione ad un’altra.
Quel socialismo era umanistico, e tale rimase anche dopo la
trasformazione in comunismo. Ma l’umanesimo gli giungeva non solo dal
contatto diretto con i proletari, ma dalla stessa attenzione alla
cultura. E anche quando, nei primi anni Venti, la bolscevizzazione toccò
tanto il Pcd’I, quanto lo stesso Gramsci, egli non perse lo zoccolo
duro, umanistico e insieme critico, della propria concezione di
comunismo . Perciò, quando crollò il Muro, nel 1989, trascinando sotto
le macerie la quasi totalità della tradizione marxista, Gramsci non solo
si salvò, ma ne emerse come un trionfatore.
Era il portatore di un altro socialismo possibile. Sconfitto
politicamente, in una determinata fase storica, ma non filosoficamente
ed eticamente. Dunque, il momento gramsciano, sia nel livello alto degli
studi, sia in quello basso, talora infimo, e persino volgare, di
polemiche spicciole, e infondate, magari ammantate di scientificità, non
accenna a finire: perché dietro l’analista acuto e sofferto della
sconfitta della rivoluzione in Occidente, nella lunga meditazione
carceraria, emerge il teorico di un’altra rivoluzione possibile, magari
attraverso gli strumenti culturali, capaci di sostituire al dominio
fondato sulla coercizione l’egemonia basata sul consenso. E il suo motto
fondamentale rimane pur sempre il primo dei tre che campeggiano sulla
testata de L’Ordine Nuovo: “Istruitevi perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza”.
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