Uno standard retributivo europeo, che consenta di
contrastare la deflazione competitiva dei salari e di riattivare la
domanda all’interno dei confini europei; il ridimensionamento del ruolo
della finanza privata; un più ambizioso piano di politica industriale
continentale; il rilanico della pianificazione pubblica dello sviluppo:
sono queste le proposte di Emiliano Brancaccio e Marco Passarella in L’austerità è di destra (Il Saggiatore, 2012), il testo che in sole due settimane ha scalato le classifiche dei saggi di economia più letti in Italia.
Questo pamphlet,
diverso dai testi analitici cui gli autori ci hanno abituato, dialoga
con l’oggi a partire da firme fuorilegge, come Keynes, Marx o Hyman
Minsky, sino a divenire una sorta di manuale del presente, un lavoro di
generosità divulgativa che si propone di risalire pazientemente dagli
effetti alle cause della metamorfosi sociale in corso. Già ne La crisi del Pensiero Unico Emiliano Brancaccio aveva tentato di ricucire la distanza tra la teoria economica e il vissuto sociale, aprendo varchi nella nebbia del paradigma dominante. Così L’austerità è di destra è
un testo ricco di suggestioni da leggere dalla fine all’inizio, dalla
rassegna bibliografica all’introduzione, nel tentativo di spiegare
analiticamente quanto è avvenuto negli ultimi trent’anni.
Cominciamo dalla rassegna bibliografica, dove Oliver Blanchard ci ricorda che “la condizione della macroeconomia è buona” (p. 140), e il premio Nobel Robert Lucas ci rassicura che “il problema centrale della prevenzione della depressione è stato risolto” (p. 140). Il silenzio colpevole del mainstream fa da sfondo al testo, che dietro ai mantra
di innovazione, efficienza, competitività, svela i processi di emoragia
occupazionale e deflazione salariale che costellano gli ultimi tre
decenni.
Gli autori richiamano così la mezzogiornificazione d’Europa, ciò che oggi Gallino definisce la terzomondializzazione d’Europa,
e che Krugman già nel 1991 presentava come probabile conseguenza
dell’introduzione della moneta unica nel continente. All’epoca, questi
avvertimenti s’infrangevano sulle rassicurazioni di Oliver Blanchard e
Francesco Giavazzi (2002), che di fronte al terremoto sociale in erba
rassicuravano che l’ampliamento degli squilibri commerciali tra i paesi
europei avrebbe rappresentato uno stimolo virtuoso all’integrazione
finanziaria della zona euro. Erano anni di ottimismo, quelli. Le riviste di economia con più alto Impact Factor negavano alcun pericolo imminente, e i redattori de la voce.info non avevano ancora confessato che “questa è la più grande crisi della storia. [...] Nessuno di noi redattori, dobbiamo ammetterlo, l’aveva prevista” (p. 140).
L’ottimismo termina nel 2008. Fino ad allora la
finanza privata era stata il primo motore della domanda. “La Banca
Centrale creava moneta e la iniettava nel circuito delle istituzioni
finanziarie private, così finanziando a debito una spesa destinata
all’acquisto di ingenti volumi di titoli, azioni e immobili”. Quando
scoppia la bolla immobiliare, il
sistema economico si trova non solo “orfano di una robusta fonte di
domanda e di una bussola per la produzione” (p. 15), in grado di
assorbire come una spugna le eccedenze produttive mondiali, ma di
interpretazioni teoriche condivise e sensate. La riluttanza ad accettare
la fallibilità dei principi liberali, l’indebolimento dell’influenza
marxista e keynesiana nelle accademie,
legittimano austerità, pareggio di bilancio e contrazione della spesa
proprio nel momento in cui le conseguenze del paradigma liberale
diventano palesi a tutti.
Fatto il danno, evitateci almeno le soluzioni, verrebbe da dire. Va detto chiaro: non v’è soluzione all’attuale impasse entro il paradigma dominante. Oggi il paradigma dominante ha solo due cose da offrire: depressione e destra.
Nei giorni in cui Tremonti mette in guardia contro il “fascismo
finanziario”, il primo difensore delle pensioni in Olanda è Wilders, il
leader xenofobo del Partito olandese delle libertà (Pvv), e in Francia
il 35% dei voti delle classi popolari è andato a Marine Le Pen, gli
autori giustamente ricordano come Keynes già nel 1919 ammonisse: “se
diamo per scontata la convinzione che […] per anni e anni la Germania
debba essere tenuta in miseria, i suoi figli rimanere nella fame e
nell’indigenza, il paese circondato di nemici […], oso farmi profeta, la vendetta non tarderebbe”.
Rovesciare le ricette del paradigma dominante per uscire dal sadismo sociale:
è questa, infondo, la lucida proposta dei due autori. Un processo
coordinato di pianificazione produttiva, un motore economico che assolva
al compito di trainare la domanda, il coordinamento e bilanciamento
della contrattazione salariale e delle relazioni europee. Infondo, lo
diceva anche Milton Friedman: in tempi di crisi “questa,
io credo, è la nostra funzione principale: sviluppare alternative alle
politiche esistenti, mantenerle in vita e disponibili finché il
politicamente impossibile diventa politicamente inevitabile” (1982).
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