Monti, da Tokio, ci fa sapere che lui è
popolare, i partiti no, sono solo oggetto di disprezzo. Pirani,
solitamente molto politically correct, scrive che il bello del nuovo
nostro primo ministro sta nel fatto che è autonomo dalle fluttuazioni
parlamentari, dalla dialettica dei partiti e dalle pressioni della
società. (Voglio sperare che non si sia reso conto di cosa ha
torizzato). La traduzione a livello popolare del concetto è quanto si
sente sempre più ripetere: «A che mi serve la democrazia? Costa troppo.
Perché debbo pagare tanti soldi perché
una cricca vada a chiacchierare dei fatti suoi in un parlamento?».
CONTINUA|PAGINA15 A livello alto, invece, nelle istituzioni europee e
fra insigni studiosi, si dice che siamo entrati nella post democrazia
parlamentare, che i problemi sono ormai troppo complicati per lasciarli a
incompetenti istituzioni rappresentative. Ricordo queste cose per
avvertire che quando si cominciano a denunciare classe politica e,
indifferenziatamente, i partiti in quanto tali, bisogna stare un po'
attenti. L'attacco alla democrazia non viene più da bande neofasciste
ormai poco più che folcloristiche, ma da una minaccia più raffinata:
dall'uso capzioso che ormai apertamente viene fatto dell'oggettivo
fastidio, della distanza che si è scavata fra società civile e
istituzioni politiche. Cui inconsapevolmente concorre anche il neo
anarchismo che percorre ovunque i movimenti.
D'accordo quindi con "il manifesto per
il nuovo soggetto politico" pubblicato il 29 marzo scorso su questo
giornale (e firmato da molti miei amici di cui ho la massima stima)
quando dicono che per salvare la democrazia bisogna arricchirla e
trovare nuove forme di partecipazione e anche di democrazia diretta. Ma,
vi confesso di provare anche molta preoccupazione per il tipo di nuovo
soggetto politico di cui si auspica la nascita in sostituzione della
forma partito novecentesca. Certo, è vero, anche i partiti di sinistra o
presunta tale sono pessimi. Anche i più recenti. Bisognerebbe rifarli
daccapo e naturalmente questa non è operazione che si fa sulla carta: i
buoni partiti nascono sempre da un movimento reale. Ma può servire a
questo scopo il descritto nuovo soggetto?
Innanzitutto non si può mettere fra
parentesi il fatto che se i partiti sono diventati così è perché le
istituzioni rappresentative nazionali in cui sono chiamati a far sentire
la loro voce sono state da tempo svuotate di un potere decisionale che
peraltro non è stato nemmeno trasferito ad altri livelli ma
semplicemente assunto, extra legem, da chi stabilisce accordi privati
sul mercato globale. In questi anni sono state privatizzate non solo le
centrali del latte o le aziende di trasporti, ma anche la sovranità, il
potere decisionale. La crisi dei partiti dipende dunque anche dalla
drastica perdita di influenza che hanno subito in conseguenza di questa
perdita di potere delle istanze rappresentative a tutti i livelli, anche
comunale.Per questo la gente avverte la loro superfluità. Nessun
soggetto politico può pensare di essere efficace se elude questo
problema pensando di potersi limitare a produrre un po' di
partecipazione locale. A meno di non reinventarsi l'impero ottomano,
dove ai califfati veniva lasciato qualche potere locale, mentre restava
saldamente in mano a Costantinopoli ogni opzione generale e decisiva.
L'idea che il sistema possa esser cambiato solo dal basso, da una rete
orizzontale che, pur non negandolo, sospende la sua attenzione al
problema del potere centrale e ritiene che basti una frammentata
pressione dal basso per cambiarlo, credo non vada lontano.
Né un progetto collettivo si definisce
senza aver fatto crescere conoscenze e cultura comuni, che non sono la
somma dei pareri di ciascuno, magari raccolti in rete come fa la tv con
l'auditel, sicché alla fine vengono fuori, come opzioni maggioritarie,
le telenovelas. Questa sacralizzazione dell'opinione pubblica, in nome
della quale la maggioranza ha comunque ragione, è il peggior portato di
Internet: la scelta giusta è il risultato di un confronto prolungato e
sofferto, tanto più in presenza di movimenti che non sono più
socialmente omogenei, come era quello operaio, ma popolati dalle figure
destrutturate e contraddittorie prodotte dal capitalismo in crisi.
Funzione di un soggetto politico è costruire senso, non raccogliere la
medietà del consenso, peggio di un indistinto borbottio. A meno che non
ci si contenti di conservare l'esistente anziché di cambiarlo.
E veniamo alla proposta di abolire una
leadership centralizzata, sostituita da «coordinamenti transitori e
itineranti». Badate che il peggior leaderismo si produce di fatto quando
non si stabiliscono regole precise per una selezione collettiva dei
dirigenti: vi dicono niente i leaderini del '68, dominatori di
assemblee, sopraffattori dei più deboli, o solo meno arroganti? O il
Partito radicale che, grazie alla sua assoluta informalità, ha lasciato
alla ribalta da 50 anni Marco Pannella (che non si chiama narciso,ma,
guarda caso, all'anagrafe è iscritto come giacinto)? Una massa
atomizzata è sempre manovrabile. Per questo servono sedi stabili in cui
ci si possa raccogliere, collegamenti a tutto campo per non chiudersi
nel localismo (per questo è reazionario pensare di poter togliere
finanziamenti ai partiti, o trovare illecito che un deputato viaggi al
di fuori del suo collegio). Solo se c'è un'organizzazione la base può
esercitare potere, altrimenti, al massimo, può dire sì o no a un
referendum. Selezionare democraticamente una leadership è difficile ma
necessario se si vuole consolidare un'organizzazione politica e non
abbandonarla alle fluttuazioni caratteristiche dei movimenti spontanei.
E, infine, basta partecipare alle
scelte, stabilire cosa è bene comune, o serve conquistare anche la loro
stabile gestione? Il glorioso referendum sull'acqua non rischia forse di
esser compromesso proprio sul terreno della sua applicazione? Non
occorre dunque, allora, costruire organismi che strappino poteri allo
stato e ne prefigurino la graduale estinzione, capaci di assolvere alle
sue funzioni sì da evitare il rischio della separazione burocratica, del
potere arbitrario, della casta? Gramsci, che pure ha sempre ricordato
quanto più necessaria al proletariato rispetto alla borghesia sia la
politica, consapevole delle sue degenerazioni aveva ipotizzato la
creazione di consigli in grado di giocare questo ruolo. All'inizio degli
anni '70 i consigli di fabbrica, e poi di zona, si sono avvicinati a
questa indicazione. Non pensate che si tratti di una prospettiva più
ricca che non quella di moltiplicare indefinite e instabili forme di
raccolta di consensi?
Ben vengano nuove forme di
partecipazione, dunque, ma innanzitutto facendo tesoro delle esperienze
novecentesche che non sono roba da buttar via come dice il Manifesto:
quando il Pci, con tutti i suoi difetti, aveva più di due milioni di
iscritti e una capillare organizzazione radicata sul territorio e però
anche forte della soggettività di una appartenenza ad un grande
movimento internazionale che aveva sconfitto il fascismo vi assicuro che
si è raggiunto il punto più alto di democrazia conosciuto dal nostro
paese. Quella esperienza non è ripetibile e aveva i suoi limiti, ma per
favore non sputateci sopra!
A me piace tuttora l'invocazione di Mao
Tse Tung, che tanto ci conquistò nel '68, quando disse che occorreva
bombardare il quartier generale. Perché i partiti si burocratizzano e
separano e vanno quindi continuamente investiti dai movimenti della
società. Ma Mao aggiungeva che occorreva distruggerli per rifondarli,
non per farne a meno. In Cina non ci si è riusciti, non ho remore a dire
che in Italia bisogna provarci.
da Il Manifesto martedì 3 Aprile 2012
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