mercoledì 3 agosto 2011

La storia è finita, andate in pace

Cronaca delle "eminenze grigie" che hanno scioccato il mondo

A.D.G.

<< La democrazia liberale costituisce il punto di arrivo dell’evoluzione ideologica dell’umanità e la definitiva forma di governo tra gli uomini. La sua affermazione costituisce in un certo senso la fine della storia >>

Queste sono le parole del professor Francis Fukuyama, contenute nel suo libro del 1992 “La fine della storia”. Secondo Fukuyama, con la caduta del muro di Berlino nel 1989, la storia è finita, poiché in tutto il mondo si è affermato il miglior modello di società, e cioè quello liberalcapitalistico. Dopo lo scontro della “guerra fredda”, il confronto internazionale in questo nuovo mondo, avverrà sui campi di battaglia del mercato e della competitività economica, secondo i “prosperi” principi del liberalismo. Questo è il modello di società illustratoci da Fukuyama, ma per capire come si è arrivati alla cosiddetta “fine della storia”, bisognerebbe partire da molto lontano, e precisamente dagli anni ’20 del ‘900.

E’ il 1929, anno della grave crisi economica che colpì tutto il mondo. La fiducia nel “liberoscambismo” che aveva contraddistinto tutta l’economia degli inizi del ‘900, deflagrò sotto i colpi della “grande depressione”. Come rimedio a questa crisi, nel 1933, il Presidente degli Stati Uniti Roosvelt varò il New Deal, e cioè il “nuovo corso”; con questa misura lo Stato si impegnava in prima linea nei settori strategici dell’economia, al fine di incentivare la crescita e la ripresa. Tramite il New Deal lo Stato finanziò importanti opere pubbliche, mise appunto piani di assistenza sociale e sviluppò politiche economiche orientate al progresso dell’intera popolazione. Questi, furono anche gli anni della ribalta per un economista britannico: John Maynard Keynes. Nella sua opera più importante “Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta” del 1936, Keynes critica i fondamenti dell’economia “classica”, in particolare l’idea che il mercato tenderebbe spontaneamente a creare l’equilibrio fra domanda e offerta e a raggiungere la piena occupazione delle unità di lavoro disponibili. Keynes, invece, attribuì allo Stato il compito di accrescere il volume della domanda effettiva e inoltre, attribuì anche allo Stato il compito di creare la piena occupazione tramite l’aumento della spesa pubblica. La condizione preliminare di queste manovre era l’abbandono del mito del bilancio in pareggio: la spesa pubblica poteva essere finanziata anche col ricorso ai deficit di bilancio (politica del deficit spending) e con l’aumento di moneta in circolazione. Gli effetti inflazionistici di queste procedure sarebbero stati compensati dai benefici che le spese statali avrebbero arrecato al reddito e alla produzione. Proprio secondo i modelli economici di Keyenes, l’economia occidentale venne riorganizzata dopo la seconda guerra mondiale per la ricostruzione. Negli anni ’50 e ’60 del ’900, l’economia dei paesi industrializzati attraversò un periodo di sviluppo senza precedenti anche grazie alle politiche statali in sostegno della crescita. Esempio eclatante delle nuove politiche economiche fu la Gran Bretagna, dove nel dopoguerra, il governo laburista nazionalizzò la Banca d’Inghilterra, le industrie elettriche e carbonifere, la siderurgia e i trasporti; introdusse il salario minimo e il Servizio sanitario nazionale, che prevedeva la completa gratuità delle prestazioni mediche. Questo genere di politica si sviluppò in maniera più o meno simile in tutta Europa.

Proprio durante questo periodo, specialmente negli anni ’70, nascono correnti di pensiero e “pensatori” radicalmente contrari all’economia mista Keynesiana e all’economia collettivista delle società comuniste, e cioè a tutti quei tipi di economia che prevedevano l’impegno dello Stato. I maggiori pensatori di questa nuova corrente economica nascono nell’Università di Chicago sotto l’egida guida di due economisti: Friederich von Hayek e Milton Friedman. Essi si fanno portavoce della corrente economica del “neoliberismo”, che si può riassumere brevemente tramite le idee di Milton Friedman esposte nel suo “Capitalismo e libertà”, dove afferma che il profitto costituisce l’essenza della democrazia, e che i governi che perseguono politiche in contrasto con il mercato sono antidemocratici. Sempre secondo Friedman, la miglior politica che i governi possono adottare è quella di limitarsi a tutelare la proprietà privata e a far rispettare i contratti, restringendo il dibattito politico a questioni di secondaria importanza. Le questioni che costituiscono il vero oggetto della politica, come la produzione e la distribuzione delle risorse nonché l’organizzazione della società, vanno lasciate alle forze del mercato.
In ambito pratico, le idee neoliberiste di Hayek e Friedman si basavano su tre capisaldi, e precisamente:

1) Deregulation : viene auspicata l’abolizione di tutte quelle regole e norme che possano limitare il profitto, come i dazi doganali e le misure protezionistiche.

2) Privatizzazioni: nasce dall’idea della maggiore efficienza del privato rispetto al pubblico, e si auspica la sostituzione dei servizi pubblici con servizi privati e privatizzati. L’idea di Friedman è quella di privatizzare la sanità, la scuola, il sistema pensionistico e le poste.

3) Riduzione della spesa pubblica: per ridurre l’onere delle tasse, secondo Friedman, bisognava tagliare drasticamente la spesa sociale, quindi assistenza sanitaria, sussidi di disoccupazione, sistema pensionistico ecc.

Queste “ idee” vennero subito accettate con gioia dal mondo accademico e dalla grande finanza internazionale, che vedeva finalmente realizzata, almeno idealmente, la “democrazia del mercato”. Friedman e i suoi “Chicago boys” sostenevano inoltre, che la paura, il disordine, e il conseguente shock provocati da questi elementi, in un qualsiasi paese, erano i migliori ingredienti per poter effettuare le riforme economiche e sociali da loro propugnate. Questo poteva accadere poiché questi fattori erano i migliori deterrenti per far accettare qualsiasi nuova dottrina, anche impopolare, alle popolazioni e ai loro governi. Questa era la logica di fondo della dottrina di Chicago, che con i suoi collateralismi con i grandi capitali internazionali e le fondazioni americane, sosterrà le prove tecniche di questo sistema durante tutti gli anni ’70 e ’80.

E’ il 1970, in Cile a capo del governo arriva il socialista Salvador Allende, che da subito attua un programma di nazionalizzazioni e ampie riforme sociali. Subito queste politiche entrarono in contrasto con gli Stati Uniti che vedevano messi in pericolo i privilegi di alcune grandi corporations. La propaganda statunitense si fece martellante sul “pericolo comunista”, e non mancarono spinte ideologiche e aiuti di “altro genere” all’esercito cileno, che nel 1973 con il generale Augusto Pinochet, rovescerà tramite un golpe il governo democraticamente eletto di Allende, instaurando così un regime militare. Il governo di Pinochet, col suo ministro Josè Pinera e i suoi consulenti formatisi all’Università di Chicago (vedi Chicago boys), attuarono una politica di liberismo selvaggio basata su deregulation, liberalizzazioni, privatizzazioni e ingenti tagli alle spese sociali. Fu questo il primo esempio di shockterapia e piena attuazione delle idee Friedmaniane. Al Cile seguiranno l’Argentina, il Brasile e l’Uruguay, con altri Chicago boys che si insedieranno nei posti chiave dell’economia e della finanza di quei paesi. Come affermerà più tardi in uno studio accademico il professore di Harvard Sanford Lakoff, il principale ostacolo alla realizzazione della democrazia nei paesi dell’America Latina era la loro volontà di proteggere i “mercati interni”, cioè di impedire alle imprese straniere (soprattutto statunitensi) di acquisire un controllo ancora maggiore su quei mercati. A quanto pare, secondo Lakoff, gli ostacoli alla democrazia non furono i regimi autoritari e militari, ma le chiusure dei governi come quello di Allende rispetto ai capitali esteri. Per questo, secondo questa visione, le politiche alla Pinochet erano necessarie per riportare l’equilibrio in quei paesi.

Fatto sta che dopo gli esperimenti sudamericani, era arrivato il momento di portare la “rivoluzione liberista” sia negli States che in Europa. Gli alfieri politici di questa operazione furono Ronald Reagan e Margaret Thatcher. La “lady di ferro” venne eletta primo ministro inglese nel 1979, e da lì in poi coordinò per più di dieci anni la svendita generale del paese ai grandi capitali. Sotto la “rivoluzione liberista” imposta dalla Thatcher sono state messe all’asta le migliori imprese dell’Inghilterra, dalla British Petroleum alle compagnie del gas e dell’acqua, fino all’industria militare. L’essenza del liberismo thatcheriano fu quella di dare assoluta priorità alla finanza, a scapito dello sviluppo industriale dell’economia nazionale. Questa degenerazione toccò il fondo nel 1986, quando il governo decretò la completa deregolamentazione finanziaria della “City” di Londra, che fu chiamata “Big Bang”. Poco meno di un anno dopo, la borsa di Londra crollò sotto una spirale di speculazione che la colpì dopo aver adottato queste misure. L’alfiere statunitense di queste politiche, invece, fu Ronald Reagan, che venne eletto presidente nel 1981, e prestò subito ascolto alle linee guida dettategli da Milton Friedman, applicando innumerevoli deregulation. Negli otto anni di governo Reagan, saranno deregolamentate attività particolarmente importanti come quelle delle compagnie aeree e degli autotrasporti per non parlare dell’economia in generale. Le leggi che furono approvate durante la “Grande depressione” per proteggere i piccoli risparmiatori furono abrogate per lasciar spazio al “far west” del radicalismo del mercato. Fu durante questi anni che i grandi istituti finanziari di Londra e New York, come la Barclays, Citicorp, Chase Manhattan Bank, Goldman Sachs e Merril Lynch lanciarono la “globalizzazione dei mercati”. Il presupposto di partenza era l’abolizione da parte di tutti i paesi, dei meccanismi di controllo sui flussi dei capitali, in modo che la grande finanza anglo-americana avrebbe potuto accedere con tranquillità a nuovi grandi spazi economici.

Con la rivoluzione liberista che a poco a poco si affermò in tutti i paesi industrializzati occidentali, l’unica alternativa a questo sistema rimase l’Unione Sovietica, col suo modello collettivistico di società. Ma negli anni ’90 l’impensabile “trasformazione” accadde. Nel 1991, dopo la fallimentare politica riformatrice di Michail Gorbacev, l’Unione Sovietica si dissolse. Tutti i governi che si susseguirono in quelle aree verranno costretti dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale ad attuare drastiche misure neoliberiste. Sempre nel ’91, a sostituire Gorbecev alla guida della Russia fu Boris Eltsin, che diede subito ascolto a giovani economisti, poco più che trentenni, neo-Chicago boys, maturati nei dipartimenti universitari e nelle redazioni di giornali. Essi ricevono da Eltsin compiti e posti chiave, assieme ai loro consulenti: tra cui anche economisti americani (dell’FMI e di Harvard) come Jeffrey Sachs. Inizia così la grande privatizzazione della proprietà statale, dove broker e società finanziare riusciranno a rastrellare a basso prezzo molti beni pubblici. Nel ‘95-’96 sarà la volta dei “nuovi ricchi”, che si impadroniranno delle aziende dei settori più redditizi della proprietà statale: energia, siderurgia, materie prime. Uno degli esempi più eclatanti fu la cessione dell’azienda petrolifera Yukos al colosso Menatep, che venne svenduta per 350 milioni di dollari, quando il suo valore reale era almeno di 2 miliardi. Con queste politiche in Russia, si creò una vera e propria economia oligarchica, in cui la diffusione delle disuguaglianze sociali fu immane. Una sorte simile toccò anche alla Polonia, dove sempre il “consulente” Jeffrey Sachs guiderà una politica volta a bloccare la spesa pubblica e a incentivare privatizzazioni selvagge. Secondo uno studio effettuato dall’università di Oxford, pubblicato dalla più autorevole rivista medica internazionale “Lancet”, le privatizzazioni degli anni ’90 nell’ex Unione Sovietica portarono a circa un milione di morti. Questo perché fra il 1991 e il 1994 le privatizzazioni portarono ad un aumento del 56% del numero di disoccupati; ma all’interno del quadro complessivo, paesi come la Russia, l’Estonia e la Lituania ebbero un aumento della disoccupazione che sfiorò addirittura il 300%!

Ecco in che modo si è arrivati alla “ fine della storia”. L’affermazione di questo modello ci ha portati di fronte alla più grave crisi economica dal ’29 ad oggi, anche se il parallelismo tra il ’29 e la situazione odierna sembra quasi impossibile, poiché da quella crisi si uscì col New Deal e con le politiche di Keynes. Oggi queste misure sembrano impensabili, infatti, si cerca di risolvere il problema con più liberismo e maggiore “austerity” da parte dei governi, defraudandoli della loro principale funzione: spendere per i propri cittadini. Se è questo il migliore modello di società, l’unica speranza è che la “storia” ricominci a correre.

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