venerdì 12 agosto 2011

L'(anti)politica dei padroni


Qualcosa non torna nel dibattito sulla manovra che ci aspetta, tanto più dopo l’intervento di Giulio Tremonti in Parlamento. Le sue parole sulla necessità di privatizzare subito i servizi pubblici locali, nonostante apprezzabili resistenze a sinistra, rappresentano forse il punto su cui il consenso è più largo. Per i fautori di una linea drastica di privatizzazioni, dimagrimento dello Stato, separazione della politica dall’economia, si tratta a malapena di un primo passo; per i sostenitori della linea opposta, dinanzi alle alternative che si profilano, sarà probabilmente il male minore.
Sta di fatto che a leggere i giornali, con poche eccezioni, la privatizzazione dei servizi pubblici locali appare ormai come una scelta quasi scontata. Comunque la si pensi nel merito, il fatto è degno di nota, e suscita alcune domande.
La prima riguarda l’efficacia della misura ai fini del risanamento: le aziende pubbliche efficienti, se sono efficienti, al pubblico (locale o nazionale) portano guadagni, non perdite. Mentre quelle in perdita, chi se le compra, se non a prezzi di saldo?
Seconda domanda: quanto tempo è passato dai referendum, da quella clamorosa vittoria dei movimenti in difesa dei beni comuni, da quel «vento nuovo» che spirava sul Paese? Risposta: due mesi. Dal 12 giugno al 12 agosto 2011. Il testo di un quesito abrogativo è sempre oscuro. Leggiamo dunque la sintesi sul sito del ministero dell’Interno: «Referendum popolare n. 1 – scheda di colore rosso – Il quesito prevede l’abrogazione di norme che attualmente consentono di affidare la gestione dei servizi pubblici locali a operatori economici privati».
A rileggerlo oggi, viene naturale porsi una terza domanda: cos’è successo, in appena due mesi, per mutare tanto radicalmente non solo le posizioni politiche, ma pure il vento, il clima, l’orientamento dell’intero dibattito pubblico?
La risposta più ovvia – la crisi economica – sarebbe doppiamente anacronistica, perché la crisi c’era anche prima dei referendum, e perché l’emergenza finanziaria di questi giorni è arrivata quando il dibattito pubblico aveva già completamente cambiato di segno, e di beni comuni nessuno parlava più.
E qui sta il punto: il dibattito sull’esito dei referendum - che vedeva il governo nella posizione dello sconfitto, sommerso da una valanga di sì, sui beni pubblici come sul nucleare e sul legittimo impedimento - è stato soppiantato dal dibattito sui costi della politica e sulle colpe della «casta». Un’offensiva della distrazione guidata non per nulla dal Giornale e da Libero.
E così, dalla contestazione di precise scelte politiche attuate da un preciso governo (il governo Berlusconi), siamo passati alla contestazione della politica e dei partiti senza distinzioni, guidata per giunta proprio da Berlusconi (che del resto sulla favola dell'imprenditore «prestato» alla politica ha sempre giocato).
In appena due mesi, la spinta al cambiamento che veniva dal movimento referendario è stata così incanalata contro lo Stato, la battaglia in difesa del ruolo del pubblico è stata letteralmente dirottata in favore delle privatizzazioni e del primato del mercato.
Il risultato finale è il dibattito cui assistiamo oggi, in cui sembra quasi che il taglio delle province o del vitalizio dei parlamentari renderebbe accettabili i tagli a pensioni e sanità, alle agevolazioni per i figli a carico, la cancellazione dell’articolo 18 per i lavoratori e via elencando.

Chi ha davvero a cuore la difesa dei ceti più deboli, la difesa dei beni comuni e il ruolo del pubblico, dovrebbe forse cogliere questa triste occasione per riflettere su certi pifferai del radicalismo antipolitico e sulla strada che indicano alla società italiana. Una strada che può assumere molti aspetti, persino quelli della svolta a sinistra. Ma sbocca sempre a destra.


di Francesco Cundari, www.unita.it

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