segretario nazionale PRC
La crisi economica che stiamo vivendo mostra sempre più chiaramente il suo carattere di crisi sistemica e strutturale.
E’ la crisi del sistema capitalistico così come si è venuto conformando nella globalizzazione neoliberista.
Le politiche messe in atto a livello internazionale non sono in grado di rilanciare il meccanismo di accumulazione. Restano irrisolti i problemi di instabilità finanziaria così come quelli relativi agli sbocchi di mercato. Così pure non si intravede nessuna soluzione per la crisi energetica e ambientale. La crisi della globalizzazione neoliberista è però in primo luogo anche una ridefinizione delle gerarchie preesistenti. In particolare mi pare evidente che questa crisi consacri definitivamente la Cina come grande potenza, che continua a crescere a tassi di sviluppo da due cifre e segni una caduta vera e strutturale dell’Europa.
Si tratta a mio parere di un fenomeno non passeggero ma di carattere storico, che determinerà non solo la storia dell’economia ma anche quello della società, della politica, dell’antropologia. Visto che noi nel vecchio continente ci stiamo conviene guardare da vicino che cosa ci sta succedendo.
Il declino dell’Europa
Innanzitutto, nel contesto della crisi, le classi dominanti, guidate dalla Germania, stanno attuando una pesante politica deflattiva e di taglio della spesa sociale.
Le classi dirigenti europee, in un accordo bipartisan tra centro destra e centro sinistra puntano a rendere più stretti i parametri di Maastricht e a rendere automatiche le sanzioni per i paesi che non rispettino i vincoli rafforzati.
Le classi dirigenti europee di fronte al fallimento delle politiche neoliberiste che hanno informato la costruzione materiale e formale dell’Europa, hanno cioè deciso di praticare in modo ancora più radicale le politiche neoliberiste. Il risultato che vogliono ottenere è una complessiva riduzione del costo del lavoro in Europa a partire da una riduzione dell’occupazione, dall’aumento dello sfruttamento, dalla precarizzazione del lavoro e dalla distruzione del welfare così come l’abbiamo conosciuto. Il tutto determinando una più accentuata gerarchizzazione interna all’Europa sulla base della produttività del lavoro nei diversi paesi.
La politica europea quindi non ha alcun aspetto di sostegno alla domanda e di rilancio del mercato interno. Al contrario, ci troviamo di fronte ad un progetto che punta a rilanciare l’Europa come continente esportatore e quindi comprime al massimo i costi della produzione. Questa scelta di fondo si traduce in una politica di contenimento salariale, di taglio del welfare e di messa in discussione dei diritti dei lavoratori. Questa politica, che vale per tutto il continente, non si applica però nello stessa misura. I paesi a più alta produttività – come la Germania – resteranno paesi ad alti salari e alto welfare. I paesi a bassa produttività – come la Grecia, ma anche l’Italia – sono destinati a vedere un drastico taglio di salari e welfare. Quando dico drastico taglio penso ad una riduzione più vicina al 30% che al 3%. Se guardiamo a cosa sta succedendo nel giro di pochi anni dal punto di vista della riduzione dei salari dovuti alla precarizzazione, dell’aumento dell’età pensionabile, alla riduzione dei livelli di welfare, vediamo che il problema non è una lieve riduzione del benessere ma una modifica strutturale per vaste fasce di forza lavoro e di pensionati delle proprie condizioni di vita.
Ci troviamo cioè di fronte ad una politica che mantenendo l’Euro come moneta unica europea produce però una enorme differenziazione interna all’Europa, accentuando le differenze sia territoriali che tra settori. Il differenziale di produttività tra stati e settori, non essendo mediato da alcuna forma di politica pubblica sovrannazionale, è destinata quindi ad accentuare le differenze, le gerarchie, in definitiva le ingiustizie. Questa politica di accentuata gerarchizzazione su base territoriale, porta con se una spinta alla disgregazione degli stati nazionali così come li abbiamo conosciuti. Non è un caso che movimenti di separatismo dei territori più ricchi si stiano diffondendo, come il Belgio dimostra e l’Italia testimonia.
Il punto di fondo è che questa politica, non solo produce una concreta disgregazione dell’Europa, ma ha un obiettivo utopico e quindi è destinata a fallire. Il presupposto di questa politica è infatti che la produzione europea abbia uno sbocco di mercato fuori dal continente. In tutta franchezza non si capisce dove. L’idea che la Cina stia diventando un grande mercato per le fabbriche europee mi pare folle. Non solo perché la Cina è sempre di più la grande manifattura del mondo, ma anche perché la Cina sta rapidamente qualificando la sua produzione nelle fasce alte della divisione del lavoro. La Cina che sforna un milione di ingegneri l’anno e che vende agli Stati Uniti i treni superveloci non è più una Cina da bigiotteria. In più, in una situazione di crescente difficoltà sul terreno dell’approvvigionamento delle materie prime, mentre la Cina ha una sua potentissima ed efficacissima politica estera – in particolare in Africa – l’Europa è sostanzialmente al carro degli Stati Uniti e quindi assai meno efficace.
Parallelamente non si può pensare che gli Stati Uniti possano assorbire l’eccedenza produttiva europea come hanno fatto negli anni scorsi perché il meccanismo del consumatore indebitato – che e stato centrale negli anni scorsi – è uno degli elementi alla base della crisi finanziaria. Gli Usa non possono continuare a vivere così al di sopra dei loro mezzi e in ogni caso la quantità di dollari che i cinese hanno nelle loro casse fa si che la relazione privilegiata sia tra Cina e USA, non certo tra Europa e USA.
In altre parole la linea delle classi dirigenti europee è una linea che riduce il mercato interno europeo perché punta allo sviluppo delle esportazioni. Questo sviluppo non è possibile per cui avremo effetti negativi cumulativi: mancato sviluppo del mercato interno e mancata esportazione nei livelli previsti. E’ molto probabile che il tutto porterà l’Europa ad una accentuata deflazione. Un po’ come è successo al Giappone a partire dagli anni ’90 e da cui il Giappone non si è ancora ripreso.
Una linea suicida
La linea politica delle classi dirigenti europee – che ha forti somiglianze con quella praticata nei primi anni dopo la crisi del ‘29 e che portò a milioni di disoccupati ed alla vittoria del nazismo – sta quindi portando i popoli europei al disastro. Questa linea non è ancora stata pienamente applicata. Per adesso a livello europeo è stata decisa una stangata da 300 miliardi motivata con la scusa della lotta alla speculazione finanziaria. Dico la scusa perché è del tutto evidente che la speculazione è possibile impedirla se si modificano il ruolo della BCE e le regole del mercato finanziario. Altrimenti la lotta alla speculazione si trasforma semplicemente in un passaggio di risorse dalle tasche dei lavoratori alle tasche degli speculatori – cioè delle Banche, delle assicurazioni, delle finanziarie.
Il prossimo passo è in corso di preparazione a Bruxelles e vede la possibilità di obbligare i paesi con un debito superiore al 60% a politiche di rientro accelerato del debito. Nel caso in cui queste non venissero seguite, le sanzioni al paese in questione non sarebbero più oggetto di discussione politica, ma diventerebbero automatiche, con il taglio del trasferimento dei fondi strutturali. In questo modo le politiche neoliberiste verranno applicate in modo ancora più duro in Europa e verranno completamente sottratte alla decisione dei singoli parlamenti nazionali. Se ad ottobre verrà approvato questo indirizzo le leggi finanziarie dei prossimi anni saranno già scritte dai tecnocrati europei togliendo ai parlamenti nazionali qualsiasi possibilità di intervento.
Se quanto sopra esposto ha qualche attinenza al vero mi pare evidente che il terremoto provocato dalla crisi della globalizzazione determinerà una nuova gerarchia mondiale e che l’Europa – stante queste politiche – è destinata ad un declino economico che tende a determinare disoccupazione di massa, disgregazione sociale e forti gerarchie tra settori produttivi e soprattutto territori. Non si tratta di una considerazione di poco conto perché questo vuol dire che la crisi intesa come incertezza verso il futuro, disoccupazione di massa e fortissima gerarchizzazione sociale è destinata a durare non per mesi ma per anni.
La crisi non è cioè una fase di passaggio ma bensì il contesto in cui siamo chiamati ad operare. Lo stato di eccezione dovuto alla crisi non è passeggero ma strutturale. Sottolineo questo elemento perché non mi pare ve ne sia una consapevolezza chiara. Anche a sinistra, pur contestando la falsa propaganda ottimista di Berlusconi, non si ha la chiara percezione delle modifiche destinate a determinare il perdurare della crisi. Non solo sul piano economico ma sua piano della vita quotidiana, dei modi di vivere, del modo di formarsi una opinione, di costruire il proprio immaginario.
Mi sono soffermato molto sulla risposta europea alla crisi perché a mio parere il dibattito italiano ha elementi tragicamente provinciali e la giusta sottolineatura del carattere delinquenziale, fascistoide e rudemente classista del governo Berlusconi tende a far scomparire il contesto in cui Berlusconi di muove e con cui ha più elementi di contiguità di quelli che sono avvalorati dalla stampa italiana. In particolare a me pare che la contrapposizione tra l’Europa – buona – e governo italiano – cattivo – che caratterizza parte significativa della vulgata dell’opposizione parlamentare sia in larga parte inventata. In Spagna, il compagno Zapatero, espressione fulgida della socialdemocrazia laica europea, sta praticando nei confronti dei lavoratori una politica non troppo dissimile da quella di Sacconi, in cui il tentativo di distruzione del contratto nazionale di lavoro è un punto fondamentale.
Una crisi costituente
Berlusconi rappresenta quindi non un caso isolato ma bensì il volto peggiore di una tendenza europea. La manovra di taglio della spesa pubblica avviene attraverso un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro della maggioranza della popolazione. Questa manovra di taglio si accompagna al tentativo di ridisegnare completamente il quadro costituzionale del paese, sia riducendo la democrazia che mettendo in discussione i principi costituzionali per quanto riguarda la tutela del lavoro. Dopo gli attacchi alla Magistratura e alla libertà di stampa, la proposta della modifica del titolo terzo della costituzione con l’attacco al diritto di sciopero e al sindacato di classe, la demolizione dello Statuto dei lavoratori e del diritto del lavoro, rappresentano il tentativo di usare la crisi per ridisegnare completamente la geografia sociale, istituzionale e politica del nostro paese. In particolare questo disegno finalizzato alla gestione autoritaria della frantumazione del conflitto sociale punta a ridurre completamente i lavoratore a merce, impossibilitato a produrre una azione collettiva di tutela dei propri diritti.
Come abbiamo più volte sottolineato il disegno del governo italiano non è quello di uscire dalla crisi ma quello di utilizzarla come “crisi costituente”, in cui l’offensiva sociale si accompagna alla distruzione della democrazia e alla riscrittura della storia e delle culture del paese. L’obiettivo di fondo di Berlusconi non è nulla di meno che di porre fine alla repubblica nata dalla resistenza e ai suoi equilibri sociali, politici ed istituzionali. Berlusconi sa benissimo che non si può gestire l’impoverimento di massa del paese mantenendo inalterati i livelli della democrazia. Va colto questo elemento strutturale e strategico del berlusconismo che lega gestione della crisi e riduzione degli spazi di democrazia. Solo un provincialismo demente può ridurre questo grande nodo alle bizze del cavaliere. Questa azione non è certo esente da contraddizioni interne alla maggioranza – in particolare sul terreno della legalità democratica – che possono anche determinare una crisi della maggioranza. Il punto di forza di Berlusconi è che le sue contraddizioni interne, come pure larga parte dell’opposizione parlamentare, si muovono su un terreno sostanzialmente liberale ed interclassista. Anche quando l’opposizione solleva correttamente i nodi della giustizia sociale non avanza mai una proposta di uscita dalle politiche neoliberiste che costituiscono il quadro in cui il governo si muove. Emblematica è la sostanziale copertura data dal PD all’operazione Fiat a Pomigliano che di queste politiche è l’espressione più coerente. In un colpo solo viene aumentato lo sfruttamento, messo in discussione il Contratto nazionale di lavoro e violata la Costituzione in merito al diritto di sciopero.
Questa politica produrrà ulteriore disoccupazione e restringimento del welfare e degli spazi pubblici. In particolare nel corso del 2010 e 2011 verranno a terminare misure di sostegno al reddito quali la cassa integrazione in deroga e la mobilità per centinaia di migliaia di lavoratori, determinando una condizione di disoccupazione di massa mai vista in Italia. Oltre ai giovani e alle donne che sono i due settori sociali più colpiti dalla disoccupazione avremo quindi una parte consistente di lavoratori maschi adulti senza lavoro e senza la possibilità di ottenere un nuovo posto di lavoro. Anche perché le cifre reali della disoccupazione non sono espresse dalle statistiche ufficiali, che hanno metodi di rilevazione fatti appositamente per sottostimare il fenomeno. I
l punto vero è che il tasso di occupazione in Italia (cioè coloro che lavorano tra i 15 e i 65 anni) è del 57% (in Danimarca è l’80%) e che una parte consistente di questi è oggi in CIG. Detto chiaramente in Italia una persona su due in età di lavoro è disoccupata e senza protezioni sociali che non siano quelle garantite dalla struttura famigliare. Questo dato relativo alla disoccupazione di massa (che nel mezzogiorno ha punte ancora più marcate) si accompagna ad un deciso taglio del welfare, ad una riduzione dei salari reali e ad un aumento dello sfruttamento del complesso del mondo del lavoro , come mostra la simultanea azione di taglio salariale nel Pubblico Impiego e di destrutturazione dei contratti nazionali di lavoro nell’industria.
Questo attacco simultaneo su più fronti che punta al ridisegno delle relazioni sociali nel contesto di un deciso impoverimento del paese, sta provocando numerosi conflitti sociali che sono destinati ad aumentare. Il punto di forza del governo e del padronato sono la relativa frantumazione dei conflitti, tutti difensivi e privi di guida politica in quanto l’opposizione parlamentare si muove sostanzialmente all’interno del paradigma neoliberista.
La vera partita politica che si gioca in Italia in autunno è a mio parere proprio questa: la capacità di costruire un movimento di massa che superi l’orizzonte liberale che separa libertà democratiche dalle questioni sociali e che – proprio per questo – si ponga in opposizione non solo a Berlusconi ma anche a Marchionne e alle politiche neoliberiste europee. Su questo si misurerà la vitalità o la residualità della sinistra e dei comunisti.
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