Di Dino Greco
Ora che la situazione «precipita» (per dirla con Gianni Letta) e che le assurde cicale del governo hanno smesso di cantare alla luna, anche la Cgil, risvegliatasi da un lunghissimo letargo, scopre che la scure sta per abbattersi con inaudita violenza su lavoratori e pensionati, spazzando via d’un sol colpo il già terremotato welfare e i pochi diritti del lavoro che la Costituzione è riuscita a preservare alle cure di Marchionne e di Sacconi.
Il grottesco connubio che sino a ieri aveva unito banche, industriali e sindacati nella richiesta di urgenti misure «per la crescita e l’occupazione» si è sfarinato in una frazione di secondo, quando si è trattato di declinare le concrete misure da adottare per evitare la bancarotta e sottrarre il Paese all’attacco speculativo cui è sottoposto. Così, quando mercoledì il governo, in preda alla più totale confusione, ha convocato le “parti sociali”, non è stato in grado di dire alcunché. Nel surreale silenzio si è levata la voce di Susanna Camusso che ha detto, lapidariamente, come «non si possano chiedere risorse ulteriori a pensioni, redditi da lavoro, sanità, assistenza». Alleluia! Parole sacrosante, ancorché terribilmente tardive, che avrebbero avuto bisogno di essere corroborate da una strategia e da una condotta sindacale tali da frenare per tempo la corsa verso il crinale cui la sta portando - senza alcun efficace contrasto - la politica del governo in carica, non meno di quella auspicata dalle forze di ispirazione liberale che oggi ambirebbero a sostituirlo.
Quella risposta, non vi è stata ed abbiamo anzi assistito al tristissimo “inciucio” politico ed ideologico che ha spinto la Cgil a condividere che il vincolo del pareggio di bilancio - vale a dire la messa fuori legge del keynesismo - fosse posto dentro la Carta fondamentale.
Accadrà dunque che a metà agosto, con le fabbriche chiuse e a riflettori spenti, il Consiglio dei ministri varerà provvedimenti tali da mettere all’incasso, fra tagli e maggiori entrate, venti miliardi entro il prossimo anno. Delle impotenti rimostranze della Cgil e dei belati soltanto televisivi dell’opposizione parlamentare il governo si farà perciò un baffo. Non resterà che esaminare il dettaglio delle misure, la tastiera su cui si eserciterà la perversa fantasia di Tremonti. Ma non vi è ombra di dubbio che si colpirà in basso e si colpirà duro.
Con un’improntitudine che meriterebbe, da sola, di rovesciare il tavolo, ci è stato spiegato che non vi sarà «alcun genere di tassa patrimoniale», cioè che i ricchi, i titolari di fortune spesso fraudolentemente accumulate, non saranno chiamati a dare nulla. In compenso il ministro del tesoro e delle finanze ieri ha reso noto che il kit, il ricettario elegantemente “suggerito” dalla Bce, contempla anche la liberalizzazione dei licenziamenti e il superamento del contratto nazionale di lavoro.
Di più. E’ sin d’ora evidente che il pacchetto “lacrime e sangue” in gestazione avrà un effetto ulteriormente depressivo sulla domanda, sui consumi, su una dinamica della produzione industriale prossima allo zero, sugli investimenti e sull’occupazione. Vendendo il letto di casa e annichilendo i diritti del lavoro non si modificherà il rapporto debito/pil e non si favorirà in alcun modo la crescita: saremo solo immensamente più poveri e nuovamente esposti alla speculazione (contro la quale non si è voluto assumere alcun provvedimento), pronta a colpire al prossimo giro di giostra. La Grecia, a noi più vicina di quanto sino a ieri non si fosse disposti ad ammettere, è lì a ricordare che farsi succubi delle autorità monetarie e della finanza, immolarvi l’autonomia della politica e la sovranità nazionale significa correre dritti verso il disastro e bruciare non soltanto le basi dell’economia reale, ma l’intera impalcatura democratica del Paese.
Questo pericolo capitale non è stato avvertito per tempo, a causa di un perdurante limite culturale e strategico che coinvolge tanto il Pd quanto la Cgil, prigionieri di un sostanziale immobilismo ed ora candidati a subire una mazzata senza precedenti.
Cosa si può fare ora, considerato che “acqua passata non macina più” e che, in ogni caso, pagheremo l’inerzia sociale, la totale rinunzia a mobilitare, nei mesi scorsi, la parte del Paese che sta subendo, senza responsabilità alcuna, tutto il peso della crisi? Ebbene, si può costruire una piattaforma alternativa, i cui tratti abbiamo più volte formulato su queste pagine, per chiamare a discuterla, a precisarla, a condividerla e sostenerla con la lotta, quel popolo lavoratore e dei “beni comuni” che ha dimostrato in questi mesi straordinarie doti di vitalità e di intelligenza politica. E si può (si deve) proclamare lo sciopero generale. Non evocarlo soltanto, come una mera, chimerica eventualità, bensì attraverso un atto formale, da assumersi subito, prima che il Consiglio dei ministri apparecchi il tavolo con la sua incommestibile brodaglia. Un atto che rompa con il disperante traccheggiamento di questi mesi e restituisca una speranza a tutti e a tutte coloro che non hanno alcuna intenzione di piegarsi.
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua